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mercoledì 23 febbraio 2022

IL SOMMO SACERDOTE DI MOZIA SCOPERTO SUI FONDALI DELLO STAGNONE

Foto
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"C'erano stagioni - ha scritto la giornalista, saggista e pittrice Gaia Servadio nel suggestivo "Mozia. Fenici in Sicilia" ( Feltrinelli, 2018 ) , narrazione non accademica e brillante di un "popolo misterioso perché perdente" -  nelle quali lo Stagnone pullulava di imbarcazioni. Quando Mozia contava una popolazione di quindici-sedicimila persone, è ragionevole pensare che almeno mille di loro, essendo gente di mare, possedessero una barca da pesca anche di piccola stazza, oppure una grande per uscire da Capo Boeo. La laguna a volte accoglieva la flotta cartaginese che perlustrava l'alto mare per tenerlo libero da pirati e nemici. Le navi commerciali arrivavano da Utica e Malta, da Solunto e Palermo, da Gades e dalle Baleari; l'impero fenicio-punico ( se di impero possiamo parlare ) era immenso. Grandi e piccole, le navi approdavano quindi a Mozia per molte ragioni: per rifornirsi di cibo, per essere riparate o per un cambio di equipaggio; le più grandi rimanevano ancorate al largo... Dentro e attorno alla laguna di Mozia c'è un vero e proprio cimitero di navi puniche. Oltre cinque secoli di attività marinara significano un gran numero di naufragi: difatti sono state ripescate dal mare statue puniche, persino fenicie, alcune in pietra, altre in bronzo. Fortunatamente, i manufatti fenici e punici si sono salvati dalla pesca clandestina perché sono meno ricercati di quelli greci o romani..."



Una delle statue rimaste nascoste per secoli nei bassi fondali dello Stagnone di Mozia fu scoperta e riportata alla luce il 13 luglio del 1933. Quel giorno, alcuni operai impegnati nella riparazione di un imbarcatoio in legno in contrada Spagnola - ad 800 metri di distanza dalla caserma della Regia Guardia di Finanza di Salina Infersa - si accorsero della presenza sul fondo di un grosso masso, parzialmente coperto dalla sabbia. Decisero di rimuoverlo per evitare danni alle imbarcazioni; per asportarlo più agevolmente, cominciarono a praticare tre fori con una mazza in ferro. Smisero di lavorare quando fu evidente che quella grossa pietra in calcarenite locale era il torso maschile di una statua acefala. La parte non protetta dalla sabbia - soprattutto il lato anteriore - era ricoperta da uno spesso strato di incrostazioni marine. Solo un lungo lavoro di restauro rivelò i dettagli della statua, la cui altezza originaria è stimata in almeno due metri e venti centimetri. Il torso nudo presenta un gonnellino di tipo egiziano retto in vita da una cintura. Il braccio destro è teso lungo il fianco, la mano chiusa regge nel pugno forse un rotolo. Tre profondi solchi indicano le dita, mentre la gamba sinistra è leggermente protesa in avanti. I tre fori praticati all'epoca del rinvenimento dagli operai hanno lasciato evidenti tracce soprattutto all'altezza dell'ombelico.


 

L' esame stilistico indica che la statua - custodita dapprima all'interno del Municipio di Marsala e poi al Museo "A.Salinas" di Palermo - è un esempio di arte fenicio-cipriota di età arcaica del VI secolo avanti Cristo. Non esistono certezze sull'identificazione del personaggio scolpito nella calcarenite. Potrebbe trattarsi di un personaggio di spicco della società di Mozia, forse un sommo sacerdote il cui ruolo è stato così descritto da Gaia Servadio:

"Il sommo sacerdote, che apparteneva alla nobiltà, e i due vicari gestivano i templi principali e uno stuolo di contabili, musicisti e persino barbieri per rasare la testa di penitenti e sacerdoti..." 

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