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domenica 3 gennaio 2021

"I PAZZI DI CORLEONE", OVVERO QUANDO LO STATO TRADI' LA CAPACITA' DI DENUNCIA CONTRO I LIGGIANI


Scritto dall'autore di questo blog, "I pazzi di Corleone", edito a Trapani da Di Girolamo nel novembre del 2020, ricostruisce una paradossale storia di mafia e di omissioni dello Stato.
Di seguito ne pubblichiamo la prefazione.  

"Sin dalle prime inchieste giornalistiche dei quotidiani l'Ora e Giornale di Sicilia - fra queste ultime, soprattutto quelle firmate da Mario Francese - tutto o quasi tutto è stato scritto sino ad oggi della mafia di Corleone.

Potrebbe dunque apparire superfluo - soprattutto dopo la morte naturale nel novembre del 2017 di Salvatore Riina, ultimo erede con Bernardo Provenzano del potere di Luciano Liggio - aggiungere altre parole sulla storia dei liggiani; sulla loro ferocia criminale e sulla capacità di diventare artefici di drammatici fatti contemporanei siciliani e d'Italia.

Corleonesi in strada.
Immagine tratta dall'opera
di Enza Berardi "Mafia, ieri e oggi",
edita da Paravia nel 1976


Quando però mi sono ritrovato a consultare la Documentazione allegata alla relazione conclusiva della Commissione Parlamentare d'Inchiesta sul fenomeno della Mafia in Sicilia - il tomo 16° del Volume IV, pubblicato nel 1980 - ho scoperto che qualcosa di determinante sull'argomento era caduto nel totale oblio.

Di quel "qualcosa" risalente ad un passato lontano nella storia di Corleone ho provato a parlare negli ultimi anni con magistrati, poliziotti, carabinieri ed anziani giornalisti: i più, ne erano totalmente ignari, qualcuno di loro ne aveva vago ed incerto ricordo.

Nella comprensione dei crimini e dei retroscena ancora ignoti sulle trame che hanno permesso ai corleonesi di diventare i "capi di Cosa Nostra", sembra essere stato cancellato quel capitolo dimenticato, che pure mi pare fondamentale: quello delle numerose denunce che a Corleone cercarono inutilmente di arginare l'ascesa di Liggio e dei suoi accoliti ai vertici della mafia siciliana.

Accadde che a partire dai primi anni Cinquanta e sino alla fine del successivo decennio - il periodo in cui i liggiani sbaragliarono la cosca di Michele Navarra, prima di trasferire la mattanza a Palermo - familiari di vittime di mafia e appartenenti ai clan corleonesi accusarono Liggio, Riina e Provenzano dei loro feroci delitti.

In un luogo nel quale il solo tentativo di avvicinamento ad un poliziotto o ad un carabiniere costituiva un rischio per la vita, madri, fratelli e figli di vittime tra i mafiosi ebbero il coraggio di affidarsi alla giustizia dello Stato.

I documenti raccolti in quel volume dell'Antimafia - vecchi ormai di un sessantennio - riportano nomi e cognomi di corleonesi che non ebbero alcun timore di indicare nei liggiani gli autori di omicidi, estorsioni ed episodi intimidatori.

Ciò che viene fuori da questa lettura è un quadro corale di aperte denunce contro i delitti del clan, del tutto contrastante con l'opinione comune secondo cui Corleone sia stato il luogo per eccellenza della pratica dell'omertà.

Ad accusare Liggio, Riina e Provenzano negli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo - come emerge dall'esame dei rapporti investigativi e giudiziari del tempo - furono decine di compaesani colpiti dall'uccisione di propri parenti, o semplicemente stanchi di subire le vessazioni imposte dalla cosca: danneggiamenti, estorsioni di terre ed abigeati.

A queste accuse si unirono quelle, ancor più probanti, di alcuni appartenenti agli stessi gruppi mafiosi locali. Il prezioso contributo di quelle testimonianze venne incredibilmente vanificato dall'incapacità dello Stato di tutelare chi dava prova di rompere il vincolo dell'omertà.

Chiamati a confermare le confessioni in aula, gli accusatori di Liggio - nel frattempo fatti facile oggetto di minacce - negarono le proprie affermazioni o addirittura simularono la follia.

Una lunga stagione di processi a carico dei liggiani fu allora scandita da puntuali e beffarde assoluzioni per insufficienza di prove. Nelle motivazioni delle sentenze si giunse addirittura ad escludere l'esistenza a Corleone di un gruppo di mafiosi guidato da Luciano Liggio.

Una rara foto segnaletica
di Luciano Raia,
il corleonese che nel 1966 accusò il clan di Liggio.
Ritrattò le accuse simulando la follia
al processo di Bari, celebrato nel 1969



In quella stagione di impunità giudiziaria, i giudici dimostrarono di non sapere valutare il fenomeno mafioso alla luce della necessità di valorizzare le dichiarazioni accusatorie rese dai testimoni in un clima di pressante intimidazione.

Lo Stato ha dunque permesso in quegli anni alla mafia di Corleone di affermarsi con la forza della soggezione, salvando i liggiani da ergastoli e condanne che avrebbero potuto forse impedirgli di uccidere in seguito investigatori, magistrati, politici, giornalisti e chiunque fosse stato ritenuto capace di opporsi al loro potere stragista.

Le pagine che seguono hanno tentato di ricostruire quelle vicende - mi sembra non marginali - nella storia criminale scritta da Liggio, Riina e Provenzano nelle vicende siciliane del Novecento.

Luciano Liggio,
affiancato dai suoi avvocati,
dopo la clamorosa assoluzione a Bari.
Foto archivio ReportageSicilia


In quest'ottica, credo che il fenomeno dell'"omertà corleonese" debba essere riletto alla luce di precise responsabilità istituzionali. Parlando con un magistrato palermitano oggi in pensione, mi sono sentito dire che all'epoca di quei fatti non esisteva una "cultura giudiziaria adatta a comprendere cosa fosse la mafia"

Per quell'ignoranza, Corleone e la Sicilia hanno pagato un prezzo altissimo, perdendo decenni preziosi per affrontare un clan sanguinario, le cui violenze, dopo le stragi del 1992 e del 1993, sono state definite come "terrorismo mafioso"..."   

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