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Fotografie di Giuseppe Leone. Opera citata nel post |
Il 27 settembre del 1971, l'etnologo Antonino Uccello aprì al pubblico la sua Casa Museo a Palazzolo Acreide. Dieci anni prima, Uccello era tornato nella cittadina siracusana dalla Brianza, acquistando una parte dello storico Palazzo Ferla per conservarvi cucchiai di legno, chiavi di carretto, ex voto, sculture in ferro ed altri oggetti di uso quotidiano nella civiltà contadina recuperati nella zona iblea. La Casa Museo - "un vecchio e ampio edificio che costava poco, perché in una delle sue stanze avevano ammazzato il proprietario e nessuno ci voleva abitare", ha ricordato Stefano Malatesta in "Il cane che andava per mare e altri eccentrici siciliani" ( Neri Pozza Editore, Vicenza, 2000 ) - è, sempre secondo Malatesta, la testimonianza della passione di un "antropologo autodidatta, che ha vissuto l'antropologia come un fenomeno poetico e civile". Antonino Uccello fu anche autore di numerosi saggi, scritti senza una forma letteraria e pubblicati dopo un'opera di revisione affidata ad un professore catanese.
Nel 1976, diede così alle stampe "Amore e matrimonio nella vita del popolo siciliano", nel 1978 "Tessitura popolare in Sicilia". Fra le due opere, ebbe modo di pubblicare nel dicembre del 1977 sulle pagine della rivista "Sicilia" edita a Palermo da S.F. Flaccovio un breve saggio intitolato "I canti della mietitura".
Lo scritto - accompagnato dalle fotografie di Giuseppe Leone riproposte nel post - conteneva il testo di una preghiera recitata dai mietitori che costituiva anche una denuncia ed un'ironica riflessione sulle loro dure condizioni di lavoro:
"Maronna, quant'è gghiàtu stu suli, facìlitu presto stramuntari! Nun lu faciti, no, pi li patruna, facìlitu pi li puviri iurnatari ca iavi gniuornu ca sunu abbuccuni, ca a catinazza sa mànciunu i cani"
( "Madonna, com'è alto questo sole, fatelo presto tramontare! Non lo fate, no, per i padroni, fatelo per i poveri braccianti, che da un giorno se ne stanno bocconi e la schienaccia se la mangiano i cani" )
Quindi Antonino Uccello descriveva così consuetudini e singolari abitudini di questi lavoratori oggi scomparsi dal paesaggio agricolo siciliano:
"Prima di iniziare i lavori, i mietitori, all'alba, sogliono, mangiare una fetta di limone e sorseggiare del vino che aspirano dal piccolo barile, passandoselo in giro da un compagno all'altro. I mietitori, come al tempo del Pitrè, sogliono portare in genere sulla camicia un grembiule di cotone o di cuoio, sul braccio destro, infilano una manica di stoffa piuttosto resistente per proteggersi dalle reste, dalle spine o altro, riparano le dita della mano sinistra, con la quale raccolgono il frumento mietuto, con ditali di canna, mentre lasciano libero il pollice, che in molte campagne viene invece protetto con un ditale di cuoio.
I mietitori si dispongono sul posto di lavoro, che viene detto "antu", uno accanto all'altro, dinanzi al proprio filare di frumento da mietere; a fianco del "capo" si dispongono tutti gli altri mietitori, e per ultimo il "capocoda", che chiude la fila.
Nella Sicilia orientale in particolare il mietitore aveva in passato la facoltà d'inveire contro chiunque, gridare ciò che voleva contro gli eventuali passanti che riuscivano a sedare le invettive scoprendosi il capo. Un padre cappuccino, per la campagna di Palazzolo Acreide, per il secolo XIX, ci offre la seguente testimonianza:
"I mietitori fanno un baccano quando passa vicino a loro qualche personaggio, e gli dicono cose, che in altri tempi non si soffrirebbero. Quest'uso credo d'essere in moltissime parti"
E, infatti, esso ci viene confermato anche dal Guastella per la Contea di Modica, e dall'Avolio per la campagna di Noto, e ci richiama, come si può leggere nel X Idillio di Teocrito, un'usanza frigia secondo la quale coloro che si trovassero a passare per il campo da mietere, specie se stranieri, venivano considerati incarnazioni dello spirito del grano e sacrificati per propiziare la pioggia..."