Le colonne "venute dal mare" ed il fascino perduto degli stucchi policromi dei templi in uno scritto del saggista e giornalista toscano
Livornese, elbano per crescita e adozione, Carlo Laurenzi è stato saggista, poeta, romanziere e giornalista "con il culto della buona scrittura - scrisse di lui l'amico catanese Manlio Manzella, noto come Igor Man - e dal rigore intellettuale e morale uniti ad una delicata intransigenza".
Autore di bozzetti di persone e fatti italiani nella rubrica "Aria di Roma" sulle colonne de "Il Mondo" di Pannunzio, frequentatore di Ercole Patti ( anche lui catanese ), Carlo Laurenzi scrisse più volte della Sicilia.
Di lui, esiste un saggio dedicato alla cultura della Magna Grecia - "Non esistono le sirene", edito nel 1964 a Caltanissetta da Salvatore Sciascia ed illustrato da alcuni disegni realizzati nell'isola da Goethe - frutto di un reportage che lo portò a Siracusa, Gela, Taormina, Ragusa, Comiso ed Agrigento.
Alcune di quelle impressioni agrigentine avevano già trovato spazio in uno scritto che Carlo Laurenzi pubblicò due anni prima nel II volume dell'opera "Sicilia", edita da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini.
Dopo avere ragionato sulle vecchie denominazioni della città - "molti anziani rimpiangono il nome Akragas, suono come nessun altro, igneo... alla città, che ha un'inquietudine levantina, si addice il nome Girgenti, sulfureo e spiritato..." - il saggista toscano così si soffermava dinanzi ai resti dei templi:
"So bene che l'azione del contemplare implica una condanna: non conosciamo altre vie, adempiamo ad una funzione banale: i turisti contemplano, fiduciosamente contemplano.
Livornese, elbano per crescita e adozione, Carlo Laurenzi è stato saggista, poeta, romanziere e giornalista "con il culto della buona scrittura - scrisse di lui l'amico catanese Manlio Manzella, noto come Igor Man - e dal rigore intellettuale e morale uniti ad una delicata intransigenza".
Autore di bozzetti di persone e fatti italiani nella rubrica "Aria di Roma" sulle colonne de "Il Mondo" di Pannunzio, frequentatore di Ercole Patti ( anche lui catanese ), Carlo Laurenzi scrisse più volte della Sicilia.
Di lui, esiste un saggio dedicato alla cultura della Magna Grecia - "Non esistono le sirene", edito nel 1964 a Caltanissetta da Salvatore Sciascia ed illustrato da alcuni disegni realizzati nell'isola da Goethe - frutto di un reportage che lo portò a Siracusa, Gela, Taormina, Ragusa, Comiso ed Agrigento.
Alcune di quelle impressioni agrigentine avevano già trovato spazio in uno scritto che Carlo Laurenzi pubblicò due anni prima nel II volume dell'opera "Sicilia", edita da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini.
Dopo avere ragionato sulle vecchie denominazioni della città - "molti anziani rimpiangono il nome Akragas, suono come nessun altro, igneo... alla città, che ha un'inquietudine levantina, si addice il nome Girgenti, sulfureo e spiritato..." - il saggista toscano così si soffermava dinanzi ai resti dei templi:
"So bene che l'azione del contemplare implica una condanna: non conosciamo altre vie, adempiamo ad una funzione banale: i turisti contemplano, fiduciosamente contemplano.
Dobbiamo appagarci di trascurabili premi. Ecco il mio premio: sono disceso al mare prima di salire ai templi, e ora, accostandomi a ciascun rudere, a ciascuna colonna, mi accorgo che questi templi, anch'essi, sono venuti dal mare.
L'arenaria in cui sono costruiti non ha solo il colore della sabbia: è un impasto friabile, fittamente composto di conchiglie.
Se scalfisco la pietra, gusci di conchiglia mi si sbriciolano nel cavo della mano, rossastri.
Penso a come sia precaria la storia della terra, della vita.
Se scalfisco la pietra, gusci di conchiglia mi si sbriciolano nel cavo della mano, rossastri.
Penso a come sia precaria la storia della terra, della vita.
Eppure questo tempio detto della Concordia è intatto, il più intatto dei monumenti greci: sembra vivere di linfa, o di sole, come una foresta.
Contemplare, meditare: rassegnamoci.
Tutto questo non risolverà nulla, ma è l'ora del tramonto, implacabile, regale sulle rovine.
Per la traccia delle catacombe, simile a un tratturo di pietra devastato dagli incendi, mi sono calato giù, verso il fondo della valle, ho sostato presso i giganti abbattuti del tempio di Zeus: l'antica Akragas custodiva misteri, attingendoli ai terrori egizi.
I ranuncoli e le malve, adesso, fioriscono sui lastrici.
Nessun altro verde, nessun'altra corolla resiste all'estate; una salamandra terrestre, lenta e oscura come salita dagli inferi, si è posata su un capitello divelto.
I nostri sguardi, nel crepuscolo, cercano la luce del mare, al di là della pianura deserta.
Due vecchie signorine di Lilla, vestite di bianco e di nero, si sono unite a me: siamo soli, gli ultimi abitanti di un mondo.
Rimaniamo muti, finché, dinanzi alle colonne di Castore e Polluce, che serbano un biancore di stucco, una delle zitelle ritrova petulanza:
'E' spaventoso, quando si considera che il marmo di questi templi era oppresso dagli stucchi. Gli stucchi policromi, quale orrore! Quali dubbi, ahimè, sul genio dei Greci!'
Non rispondo. Ho sempre amato, in realtà, il pensiero che i templi greci fossero coperti di stucchi: lo stucco fatuo e gentile proteggeva un'anima di marmo: c'era dunque un'anima, e questa dissimulazione variegata dell'anima era degna della parsimonia o dell'ambiguità dei Greci, come un accenno di sorriso.
Mi piace che i templi apparissero policromi, con i colori degli uccelli di Agrigento, gli ortolani e le cinciallegre, che hanno piume azzurre, gialline, rosate.
Ora i templi sono bui: ci sentiamo pervasi dall'ombra..."
Contemplare, meditare: rassegnamoci.
Tutto questo non risolverà nulla, ma è l'ora del tramonto, implacabile, regale sulle rovine.
Per la traccia delle catacombe, simile a un tratturo di pietra devastato dagli incendi, mi sono calato giù, verso il fondo della valle, ho sostato presso i giganti abbattuti del tempio di Zeus: l'antica Akragas custodiva misteri, attingendoli ai terrori egizi.
I ranuncoli e le malve, adesso, fioriscono sui lastrici.
Nessun altro verde, nessun'altra corolla resiste all'estate; una salamandra terrestre, lenta e oscura come salita dagli inferi, si è posata su un capitello divelto.
I nostri sguardi, nel crepuscolo, cercano la luce del mare, al di là della pianura deserta.
Due vecchie signorine di Lilla, vestite di bianco e di nero, si sono unite a me: siamo soli, gli ultimi abitanti di un mondo.
Rimaniamo muti, finché, dinanzi alle colonne di Castore e Polluce, che serbano un biancore di stucco, una delle zitelle ritrova petulanza:
'E' spaventoso, quando si considera che il marmo di questi templi era oppresso dagli stucchi. Gli stucchi policromi, quale orrore! Quali dubbi, ahimè, sul genio dei Greci!'
Non rispondo. Ho sempre amato, in realtà, il pensiero che i templi greci fossero coperti di stucchi: lo stucco fatuo e gentile proteggeva un'anima di marmo: c'era dunque un'anima, e questa dissimulazione variegata dell'anima era degna della parsimonia o dell'ambiguità dei Greci, come un accenno di sorriso.
Mi piace che i templi apparissero policromi, con i colori degli uccelli di Agrigento, gli ortolani e le cinciallegre, che hanno piume azzurre, gialline, rosate.
Ora i templi sono bui: ci sentiamo pervasi dall'ombra..."