La festa del "Taratatà" di Casteltermini descritta in un articolo pubblicato nel 1957 dal giornalista e saggista Giuseppe Quatriglio. Opera citata nel post. |
"Ma cosa è questo "tataratà"? E' quel che rimane di un vecchio "ludo", dicono alcuni; è il simbolo della perenne lotta fra il bene ed il male, aggiungono altri. Certo è che lo sciabolare degli spatolatori sa di vecchio Siam, di rituale magico, di sfogo e di "catarsi" e anche, a volerci pensare, di teatro rudimentale. Forse è tutte queste cose messe insieme o non è nulla di tutto questo"
Quasi settanta anni fa, il giornalista e saggista Giuseppe Quatriglio pose la questione sul significato del "Taratatà"; così si chiama la manifestazione organizzata da secoli a Casteltermini, annualmente, dopo la Pasqua e prima del Corpus Domini. Quatriglio sollevò la questione in un reportage pubblicato dalla rivista "Sicilia Mondo" edita a Palermo nel dicembre del 1957. L'articolo, corredato dalle fotografie riproposte da "ReportageSicilia", descrive così il pieno coinvolgimento di Casteltermini nell'evento:
"Della festa di Santa Croce o "Taratatà", che viene celebrata ogni anno la quarta domenica di maggio, a partire dal venerdi, la gente del luogo si occupa praticamente tutto l'anno. Giovani donne che hanno appreso il mestiere dalle madri e dalle nonne stanno lunghi mesi chine sui telai a ricamare le gualdrappe dei cavalli di velluto cremisi con fili di argento e d'oro. Altre giovani confezionano gli addobbi di lana per i muli con ricami policromi di seta. Gli uomini preparano i "pallii", gli stendardi delle corporazioni che prendono parte alla sfilata. Si tratta di ricchi broccati, gelosamente custoditi da anni, che bisogna disporre accuratamente attorno ad una ossatura di legno e di tela secondo un disegno che ripete motivi tradizionali. Appena è primavera si tolgono dalla naftalina i costumi che saranno indossati dal "capitano", dall'"alfiere", dal "sergente", nonché dal "re", dal "notaio", dal "dottore", dagli "spatolatori di lino". Quando occorrono riparazioni o rifacimenti le donne si mettono al lavoro con diligenza e mettono tutto a posto con amore e bravura. Le picche, le bandiere, i cappelli piumati, le spade, le bandoliere, tutti gli arredamenti necessari vengono messi in ordine, preparati con somma cura per il grande giorno..."
Nell'articolo, Quatriglio ci informa che all'epoca il "Taratatà" di Casteltermini richiamava i complessi bandistici di altri paesi dell'agrigentino e del palermitano. Quelli di Aragona, Campofranco e Lercara Friddi si mettevano quasi a gara con la banda locale, percorrendo le strade di tutti i quartieri di Casteltermini:
"I tamburi - si legge - cominciano a rullare il "tara, tarata, taratatà". Il segnale che elettrizza tutti giunge all'alba del sabato con lo sparo di mortaretti e bombe che lacerano l'aria e destano gioiosi echi nella vallata. Nel primo mattino le bande sono di nuovo sulla strada e gli ottoni, i clarinetti, le grancasse ritessono i motivi melodici intimamente legati alla festa"
Quindi Quatriglio spiega la leggendaria origine della festa del "Taratatà", legata al rinvenimento di una croce il legno avvenuto secondo alcuni nel 1667, secondo altri almeno duecento anni prima:
"La croce porta incise, tra l'altro, nove iniziali il cui recondito significato venne presumibilmente scoperto soltanto nel 1890 da uno studioso locale, il sacerdote Vincenzo Gaetani. Costui credette di leggere in latino la seguente frase: "Ai martiri di questa terra morti in croce durante la persecuzione di Decio".
La croce, pertanto, dovette servire da strumento di martirio dal 249 al 251 dietro Cristo durante le persecuzioni ordinate dall'imperatore Decio in terra di Sicilia. Certo è che la croce, la quale è alta circa tre metri e mezzo, ed è ora custodita in un eremo a pochi chilometri dall'abitato, dovette rimanere sotterrata molti anni fino al casuale rinvenimento. Fondata Casteltermini nel 1629, i pellegrini cominciarono dopo qualche tempo a rendere omaggio alla Croce; lo stesso capitano giustiziere, accompagnato dal sergente e dall'alfiere, fu il primo a recarsi nell'eremo per venerare la Santa Croce. Insieme alle autorità, anche il popolo usava recarsi in pellegrinaggio sull'altura che custodiva il simbolo del martirio ed è da questo antico devoto omaggio corale che direttamente discendono i riti odierni..."
Quindi Quatriglio potè così descrivere dettagliatamente sulle pagine di "Sicilia Mondo" il tumultuoso svolgimento della festa, da lui presumibilmente osservata a Casteltermini in quello stesso 1957:
"Ieri come oggi ci sono un "capitano", un "sergente" e un "alfiere" che prendono parte alla cavalcata con i loro antichi pittoreschi costumi. I tre dignitari, che appartengono per tradizione al ceto della "maestranza", pongono il loro stendardo sul balcone del municipio e prendono possesso simbolicamente del comune per tutta la durata dei festeggiamenti. La cavalcata è aperta, nella giornata di domenica, dal capitano che sta a cavallo con la sciabola sguainata; l'alfiere, al centro del corteo, si esibisce in ardite evoluzioni con la bandiera, mentre il sergente armato di lancia ha il compito di coordinare la sfilata. Fabbri, meccanici, calzolai, barbieri tutti appartenenti al cento della "maestranza", prodigiosamente trasformati nell'ultima domenica di maggio in impeccabili baldi cavalieri. Seguono i cavalieri celibi e quindi i pecorai e i "borgesi". A questi ultimi si uniscono i "vetturali", i quali, ultimi, cavalcano muli che portano al collo tre o più file di tintinnanti sonagliere.
Chiude il pittoresco corteo il gruppo del "Taratatà", vale a dire il tamburino e gli "spatolatori di lino", i quali ultimi saltano ritmicamente incrociando le spade. Il "re", il "notaio" e il "dottore", secondo quanto vuole la tradizione, seguono i movimenti degli "spatolatori" chiusi nei loro caratteristici costumi del Settecento. Il corteo, composto di non meno di duecento cavalli e muli, si muove lentamente lungo le vie di Casteltermini, si disperde nelle stradette della periferie e si ricompone ancora nelle vie del centro, passa e ripassa e desta ogni volta genuina emozione. E, soprattutto, c'è il suono del "taratatà", lo sciabolare donchisciottesco e ieratico insieme degli "spatolatori", il mulinare delle spade al ritmo di un tamburo impazzito..."