Palermo, lungomare di Aspra
( foto REPORTAGESICILIA )
ReportageSicilia è uno spazio aperto di pensieri sulla Sicilia, ma è soprattutto una raccolta di immagini fotografiche del suo passato e del suo presente. Da millenni, l'Isola viene raccontata da viaggiatori, scrittori, saggisti e cronisti, all'inesauribile ricerca delle sue contrastanti anime. All'impossibile fine di questo racconto, come ha scritto Guido Piovene, "si vorrebbe essere venuti quaggiù per vedere solo una delle più belle terre del mondo"
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venerdì 30 maggio 2008
SEGESTA, IL SILENZIO DI MORAVIA
"Il sole, quella mattina, sulla strada che menava a Segesta, nonostante la bella luce primaverile e il verde lustro delle colline, aveva una sua intensità che faceva già presentire l'estate. Ancora un paio di mesi, pensavo, e le rocce cinerine che si nascondono sotto l'erba folta di questi poggi saranno messe a nudo su per le coste gialle e brulle e splenderanno arroventate, la vampa del solleone vibrerà immobilmente nel cielo infuocato e, rintanati gli uomini nelle case, azzittiti gli uccelli dentro il poco fogliame dei rari alberi, le sole creature viventi a cui sarà possibile di vivere senza sofferenza in quest'arsura della canicola, anzi che ne trarranno vigore ed ardimento, saranno i ramarri giganteschi che fanno fremere le siepi al loro passaggio e guizzano sui sassi con l'ombra sotto la pancia, le cicale infaticabili stordite dal loro stesso clamore, e le serpi che attratte dal calore si intontiscono sull'asfalto scottante delle strade e non ci vuole meno di un carro o di una macchina per farle scivolare via, simili a neri rivoletti di bitume, dentro i rovi polverosi nei fossati".
Una prosa abbacinante di parole e di immagini, quella che Alberto Moravia utilizzò per scrivere un reportage tra le deserte colline di Segesta, ad ammirare le pietre del tempio e del teatro della scomparsa città elima.
Una prosa abbacinante di parole e di immagini, quella che Alberto Moravia utilizzò per scrivere un reportage tra le deserte colline di Segesta, ad ammirare le pietre del tempio e del teatro della scomparsa città elima.
Lo scrittore romano pubblicò le sue impressioni nel gennaio del 1960, sulla rivista 'Le vie d'Italia' del TCI; ed è quindi lecito supporre che quel resoconto fosse relativo ad un viaggio siciliano compiuto la primavera precedente, nel 1959.
Sembra, nel racconto di Moravia, che il paesaggio di queste colline trapanesi sia un contesto imprescindibile nella genesi stessa delle sue antiche pietre; e che i resti imponenti e perfetti del tempio e del teatro siano ancora lì perchè elementi della natura e non dell'ingegno e della fatica dell'uomo.
La sorpresa del visitatore rivela questa impressione: "fatto il giro di una collina, in cima a questa, a ridosso di un monte più alto, ci apparve il tempio, intatto, fulvo, fra tutto quel verde, solitario in quella solitudine, con le colonne, il frontone e l'aspetto sereno di una vita immemorabile, meraviglioso a vedersi perchè tanto semplice ed inaspettato" .
Per meglio godere di quel sottile equilibrio fra natura e manufatto umano, Moravia non esita a cercare una silenziosa contemplazione, isolandosi dalla compagnia dei suoi accompagnatori: "avevo lasciato apposta indietro i miei compagni di viaggio, pur così simpatici, per non udire le loro esclamazioni 'bello! ah, come è bello! guarda com'è bello!', e starmene un poco tutto solo. La solitudine silenziosa era densa di vita naturale, io ci penetravo a testa bassa come per un foro, con le orecchie assordate e la pelle destata ed eccitata; e la fatica della salita confermava questa strana illusione. Ascesi così con gli occhi rivolti a terra e il sangue invaso da un fitto benessere che mi pareva emanare dal luogo; finalmente levai gli sguardi e mi accorsi allora che ero sotto il tempio."
Ancor oggi, un reportage nel paesaggio di Segesta regala le stesse sensazioni descritte da Moravia, regalando le ultime immagini di una Sicilia non completamente stravolta da uno 'sviluppo turistico' che spesso finisce con l'alterare quel raro e prezioso equilibrio fra bellezza naturale e bene architettonico.
( foto, dall'alto in basso, di Leonard von Matt, Pubblifoto, Stefani e Leonard von Matt )
venerdì 23 maggio 2008
SICILIA DI OGGI
SICILIA DI IERI
giovedì 22 maggio 2008
1964, LE 'STRADE BLU' DI SICILIA
La SS 118, fra Marineo e Corleone
"Chi vuole visitare, per conoscerla, questa terra piena di fascino, ne percorra pazientemente le magnifiche strade, soprattutto le meno importanti e le più nascoste: riuscirà probabilmente a capirla, quest'isola, e certamente ad amarla".
Con questo incipit, Fabrizio Lusardi illustrava sulle pagine de 'Le vie d'Italia' del TCI il piacere di un tour siciliano attraverso le strade statali e provinciali, retaggio dell'antica viabilità locale, dall'epoca romana agli anni borbonici.
Con questo incipit, Fabrizio Lusardi illustrava sulle pagine de 'Le vie d'Italia' del TCI il piacere di un tour siciliano attraverso le strade statali e provinciali, retaggio dell'antica viabilità locale, dall'epoca romana agli anni borbonici.
Era l'ottobre del 1964; e quel reportage, corredato dalle fotografie di un giovanissimo Oliviero Toscani, rimanda alle suggestioni che in anni successivi sarebbero state al centro del 'racconto-on the road' 'Strade Blu', di William Least Heat-Moon.
La Sicilia di Lusardi non conosceva ancora le autostrade, che da lì a breve avrebbero stravolto il paesaggio delle colline e delle coste, da Mazara del Vallo a Taormina.
Eppure, già allora il reporter invitava a viaggiare lungo le strade più nascoste e deserte; la 121, la 113 e la 114, numeri per indicare chilometri di paesaggi e volti, percorsi necessari per trovare la misura per inserirsi in una diversa dimensione del traffico.
"E' questo - avvertiva Lusardi - il primo godimento supplementare del turista: la conquista di un nuovo ritmo di viaggio e quindi di vita, specificatamente siciliano, che agevolerà la scoperta e la comprensione di tanti aspetti della realtà della grande isola".
E continuava, ancora: "I nomi stessi di tanti luoghi bastano ad evocare fantasmi; tutto un filone prezioso di tradizioni neoclassiche e romantiche ci guida a ricercare ruderi e monumenti, ci aiuta a intenderne le molteplici suggestioni. Ma sotto la facciata archeologica, l'isola vive anche un'altra vita, una vita in cui le memorie, le speranze e le molte contraddizioni della sua lunga storia vengono a confluire con l'evidenza e l'urgenza di problemi ancora aperti, sempre attuali, spesso drammatici. Il fascino e lo scomodo di un viaggio in Sicilia derivano da questo. Ed è per questo che chi ha orecchio ed occhio a quel fascino arriva a non accorgersi dello scomodo, a farne addirittura un godimento supplementare".
Le strade della Sicilia, allora, diventano lo strumento per conoscere le ricchezze e le vecchie povertà della sua gente; e di queste condizioni, la prima traccia è proprio in quelle che nel 1964 erano - e sono in gran parte ancor oggi - "vene minute, vasi capillari che alimentano la vita di quei paesi, collegandoli fra loro e le campagne".
Infine, Lusardi avverte i rischi della corsa verso l' ammodernamento delle strutture: i rischi di quella politica del 'fare' che spesso - in Sicilia, nel nome del malaffare - ha avuto effetti più devastanti della stessa arretratezza.
"Ci vuole qualcosa di nuovo, di diverso, di moderno. Bisogna far tesoro dell'esperienza disastrosa della Riviera ligure e del litorale romagnolo - conclude Lusardi - guardare alle soluzioni francesi della Costa Azzurra e della Corsica, aprire la Sicilia al turismo di massa senza offenderla, senza perderla, senza toglierla ai siciliani, senza rinnegarla, senza dimenticare le tante altre facce del suo problema"; parole che oggi - a pensare al fuoco riacceso sotto il progetto del ponte sullo Stretto - rendono vive e dolorose le suggestioni di quel tour.
( foto di Oliviero Toscani )
sabato 17 maggio 2008
CASSIBILE, QUEL CIPPO SCOMPARSO
"Armistice / signed here / Sept.3. 1943 / Italy - Allies ".
Sino a qualche decennio fa, le campagne siracusane di Cassibile conservavano in questa scarna incisione su pietra la memoria di uno degli eventi cardine della storia d'Italia: la firma dell'armistizio tra Italia ed Alleati, siglata meno di due mesi dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia.
Il cippo commemorativo fu posto in un campo di ulivi, a poca distanza dalla tenda dove il generale Giuseppe Castellano, con un'impeccabile stilografica, firmò il documento di resa
Di quei momenti, a futura memoria degli storici, è rimasta oggi una nota documentazione fotografica: gli scatti delle firme dell'atto di armistizio, quella italiana di Castellano - vestito in borghese, fazzoletto che spunta dal taschino della giacca - e quella americana del capo di Stato Maggiore, Bedell Smith.
Meno documentato è invece il cippo commemorativo che avrebbe dovuto perpetuare il ricordo dell'evento, e che risulta essere andato disperso già molti decenni; REPORTAGESICILIA ne ha trovato però traccia in una fotografia pubblicata nel 1950 da uno dei primi numeri del settimanale 'EPOCA'.
Qualche anno fa, il giornalista e saggista Matteo Collura si mise alla ricerca di quel blocco di pietra, fra i resti di una vasta masseria in contrada San Michele, nelle campagne di Cassibile.
Ecco il suo reportage:'Preceduta da due piccoli cani che sembrano abbaiare per spirito di servizio - si legge ne 'In Sicilia', Longanesi & C., 2004 - una donna dall'età indefinibile si affaccia sulla soglia di un abituro che un tempo doveva far parte di un razionale complesso rurale. "Si, il posto è questo", dice asciugandosi le mani con un grembiule che tiene intorno ai fianchi.
"Ci dovrebbero essere gli ulivi", dico. "E la scritta che ricorda la firma dell'armistizio. L'ho vista in una fotografia stampata in un libro".
"Io sono qui da trentasei anni e non ho visto niente", replica la donna, cui il duro lavoro sembra aver cancellato la femminilità.
A suo modo è gentile, ma lascia intendere di essere distratta dalle sue occupazioni.
"Gli eredi degli antichi proprietari hanno tolto tutto", spiega. "C'erano gli ulivi? Sì, forse c'erano. Ma adesso ci sono le arance, e le stalle, dove teniamo le mucche. Noi viviamo di questo"'.
Resta il mistero, naturalmente, della sorte del cippo: oggetto di distruzione, di furto vandalico - e magari di futura asta su 'e Bay' - o magari di clandestina conservazione, all'interno di un salotto o di una cantina privata; in tutti questi casi, il cippo dell'armistizio del 1943 ha assolto fugacemente il compito commemorativo assegnatogli quello storico giorno.
( le foto delle firme dell'armistizio sono tratte da saggio 'Sicilia 1943', di Ezio Costanzo, Le Nove Muse Editrice Catania )
AGGIORNAMENTO
Nell'articolo 'Normandia d'Italia', pubblicato dal Corriere della Sera il 3 settembre del 2011, Maria Antonietta Calabrò ricorda che il cippo "venne a lungo chiamato 'la pietra della pace' ( 'a petra da paci' )". Secondo la Calabrò, fu rubato nel 1955, dopo l'originaria donazione fatta dallo stato maggiore di Eisenhower alla baronessa Aline Grande, proprietaria della tenuta San Michele in contrada Santa Teresa Longarini, a 3 chilometri da Cassibile.
AGGIORNAMENTO
Nell'articolo 'Normandia d'Italia', pubblicato dal Corriere della Sera il 3 settembre del 2011, Maria Antonietta Calabrò ricorda che il cippo "venne a lungo chiamato 'la pietra della pace' ( 'a petra da paci' )". Secondo la Calabrò, fu rubato nel 1955, dopo l'originaria donazione fatta dallo stato maggiore di Eisenhower alla baronessa Aline Grande, proprietaria della tenuta San Michele in contrada Santa Teresa Longarini, a 3 chilometri da Cassibile.
mercoledì 14 maggio 2008
L'IMMOBILE POVERTA' DI CALTANISSETTA
"Questa è la storia di un articolo che non ho scritto, e di tre giorni di fine settimana. Dunque, dovevo visitare Caltanissetta: questa città chiusa dentro la Sicilia, lontana dai grandi centri, separata da Palermo, la capitale, da una rete antidiluviana di strade pessime, dove l'asfalto è tutto smangiato, e sono più le buche che i pezzi di strada sana; e scriverne un pò di colore, qualche notazione sugli alberghi, sui ristoranti, sui monumenti, sull'ospitalità della sua gente, sui suoi costumi più tipici, sui suoi dintorni. Così ero contento, perchè visitare una città in questo modo è piacevole. Basta comportarsi come turisti, andare in giro un pò pigri e un pò curiosi, osservare, scambiare dei discorsi qua e là. Ecco tutto, e poi mettersi a scrivere affidandosi ai ricordi, alle impressioni visive".
Un simile attacco - che è anche un perfetto manuale del mestiere giornalistico - ispirò l'articolo che Giuseppe Tarozzi scrisse nel settembre del 1962 sul mensile 'Le vie d'Italia' del TCI: a conclusione, appunto, del suo primo viaggio a Caltanissetta, oggetto di un reportage che non nascose la delusione suscitate dalle 'impressioni visive' del capoluogo nisseno.
Tarozzi arrivò a destinazione alle undici di un mattino ferocemente estivo, in treno: il peggiore dei viaggi possibili - oggi come allora - nella Sicilia interna, al termine del quale fu accolto da "un sole fortissimo e una luce violenta, abbacinante".
Il racconto racconta l'assenza di taxi, e l'impossibilità di fare una doccia, in un albergo con problemi di rifornimento idrico e con vista su "una sfilata di tegole grige, uniformi; e poi, interni di poveri cortili e vie strette", e su "un corteo di seminaristi, neri, silenziosi, guidati da un anziano e ossuto prete".
E analoga impressione "di una vita che batte lentissima, ad un ritmo cui non sono più abituato" - i ritmi di altre città di provincia italiane, Pavia, Reggio Emilia, Vicenza, "dove qualcosa di nuovo succede sempre" - la colse nel pomeriggio dello 'struscio' domenicale: la passeggiata delle famiglie lungo corso Umberto I, tra vetrine mal illuminate e muffite, e con la gente che "cammina lentamente, strascicando i piedi, guardandosi intorno con aria pigra, sfiorandosi, salendo e scendendo dal marciapiede, fermandosi ogni tanto a sottolineare una frase di quello che sta dicendo, a salutarsi".
Con Leonardo Sciascia - nella libreria dell'editore Salvatore Sciascia - Tarozzi cercò di confrontare le sue impressioni, di chiedere conto di quella povertà immobile, "di una città che non nasconde nulla, che sul proprio conto non racconta bugie, dove quello che è, lo si vede subito, al primo sguardo".
Dall'autore de 'Il Giorno della civetta', avrebbe raccolto risposte nette, riassunte senza alcuna possibilità di sfuggire alla laconica logicità sciasciana: "no, di qua non vado via. Qua ho le mie radici e le mie ragioni. Qui posso servire a qualcosa" .
A spiegare la logica dell'immobilismo nisseno, in quell'estate del 1962, il reportage offrì il sicuro anello d'approdo dei numeri, delle percentuali cui fissare i parametri oggettivi della povertà: 60.000 abitanti, 13.000 iscritti all'elenco comunale dei poveri, "un imprecisato numero di disoccupati ed il 23 per cento di analfabeti".
A rileggere quell'articolo - ed a riguardare le fotografie che lo corredano - ci si rende oggi conto della povertà antica di Caltanissetta, degli intoccati e colpevoli ritardi che ancori oggi relegano il capoluogo nisseno agli ultimi posti delle classifiche nazionali del reddito e della così detta 'qualità della vita'.
E se pure, da anni ormai, una sia pur ormai vecchia autostrada risparmia le sofferenze di un viaggio in treno, la visita di Caltanissetta trasmette ancor oggi l'impressione riportata dal reportage di Giuseppe Tarozzi.
"Mi accorgo - confessò a se stesso ed ai lettori, 46 anni fa - che non potrò scrivere un articolo di colore su questa città. Un articolo del genere, qui, non avrebbe senso, sarebbe una bugia. Fra l'altro, non sarei neppure capace di scriverlo. Si fa presto a dire, ma alla fine è sempre la realtà che vince".
( le fotografie, dall'alto in basso, sono accreditate - le prime due - a Publifoto e Quiresi; la terza e la quarta ad Anfosso)
venerdì 9 maggio 2008
FLORIOPOLI: DOPO L'OBLIO, L'AGONIA
Tutte le più importanti guide turistiche - dalla famosa 'rossa' italiana del Touring Club, alla internazionale 'Lonely Planet', edita in Australia - citano le tribune di 'Floriopoli' come il ricordo materiale della 'corsa automobilistica più antica del mondo'; talchè, è da immaginare l'aspettativa del turista che abbia la ventura di recarsi a Cerda per conoscere lo storico tracciato della Targa Florio: la gara che ha regalato alla Sicilia, dal 1906 al 1973, decenni di notorietà internazionale.
Già nel 2006, REPORTAGESICILIA documentò nella rubrica di RAI3 'Mediterraneo' lo stato di abbandono di Floriopoli ( filmato visibile su 'YouTube' ); a distanza di due anni, una nuova visita ripropone il totale abbandono delle strutture create da Vincenzo Florio.
Gli edifici più antichi - la 'torre-tribuna' riservata alla direzione gara, ai cronometristi e ai giornalisti - è ormai prossima al crollo, mal nascosta da un telo pubblicitario allestito negli anni passati dall'Alfa Romeo ( da allora oggetto di una grottesca contesa amministrativa, sorta sulla titolarità del pagamento dei balzelli pubblicitari ).
Il tempo e l'incuria non hanno ancora cancellato una scritta che indica l'accesso alla sala stampa, in elegante caratteri 'liberty'; e una volta entrati all'interno del locale - iniziativa a forte rischio personale, viste le profonde crepe delle strutture - lo si scopre ormai come un semplice rifugio di piccioni e deposito di materiale edilizio di risulta.
Pericolante è anche il doppio ponte pedonale in ferro che collega la 'torre-tribuna' alla zona a monte di Floriopoli, qualche metro al di sopra dell'asfalto un tempo segnato dalla linea del traguardo.
Meno degradata - e tuttavia anch'essa lasciata in stato di completo abbandono - è l'area dei box; qui, i locali hanno già perso il momentaneo lustro acquistato in anni recenti grazie ad una nota casa automobilistica tedesca, che li ristrutturò in occasione della presentazione stampa dei suoi nuovi modelli di autovetture.
Le speranze di salvare Floriopoli, al momento, sembrano un'amara illusione.
L'Automobile Club di Palermo - proprietario degli immobili - da anni, vive un'oscura stagione di agonia gestionale; e a far disperare coloro i quali hanno a cuore le sorti di Floriopoli - patrimonio e memoria della migliore 'sicilianità' - vi sono recenti eventi che vedono l'area al centro di un'asta giudiziaria.
Un silenzioso busto bronzeo di Vincenzo Florio, così, è rimasto l'unico, vero custode dello sfascio che oggi rende omaggio al ricordo 'della corsa più antica del mondo'; e pochi siciliani si indignano per l'ennesimo esempio di noncuranza e ignoranza che guida le azioni degli amministratori e della irredimibile politica isolana, capaci di concedere finanziamenti e patrocinii a manifestazioni rievocative e 'centenari' che offendono solo la virtù della buona coscienza.
A questi politici, REPORTAGESICILIA dedica queste righe dello storico Santi Correnti, in 'Storia della Sicilia come storia del popolo siciliano', Longanesi & C., 1972:
"Con Ignazio Florio junior, che fu una delle figure più note dell'alta società internazionale del suo tempo, Palermo diventò veramente 'Floriopoli', non soltanto perchè nel 1892 egli creò i cantieri navali di Palermo, dotandoli dei più aggiornati ritrovati tecnici, quali i trapani radiali, i motori idraulici e le presse da 250 tonnellate; ma anche perchè creò il turismo isolano, con la 'Targa automobilistica' che porta il suo nome dal 1906 e con le manifestazioni della 'Primavera siciliana', del 'Corso dei fiori', del giro ciclistico e del giro aereo della Sicilia, cui si affiancarono quella della società ippica, dell'Automobil Club e del teatro Massimo di Palermo, del quale i Florio tennero una memorabile gestione... L'opera dei Florio rimane ancor oggi esemplare, perchè essi dimostrarono che cosa significhi coraggio imprenditoriale e saggezza amministrativa, anche in una terra che non aveva mai creato una fortuna economica così colossale".
( Foto REPORTAGESICILIA e di Carmelo Oliva )
lunedì 5 maggio 2008
SICILIA DI IERI
venerdì 2 maggio 2008
LA BREVE EPOPEA DEL COTONE
Piantagione di cotone nelle campagne siciliane
Soltanto i più anziani abitanti della borgata palermitana di Partanna-Mondello ne conservano oggi ancora la memoria: "lo stabilimento del cotone? Si trovava dove c'è la grande concessionaria di automobili Wolkswagen. La troverà più avanti, della vecchia fabbrica però non c'è più nulla...".
Così inizia e termina la ricerca di REPORTAGESICILIA del 'Cotonificio Siciliano', la struttura industriale costruita fra il 1951 ed il 1952 in quella che all'epoca era piena campagna palermitana. Il Cotonificio - progettato dall'architetto Pietro Ajroldi con una pianta costituita da una serie di volte, aperte alla luce naturale - è uno dei tanti esempi abortiti di sviluppo produttivo della Sicilia. Lo stabilimento rimase in funzione solo una ventina d'anni, dando lavoro - nel periodo di massimo fulgore - a oltre 300 operai, in prevalenza donne.
Il destino dell'area industriale, del resto, non nacque sotto i migliori auspici.
Gli impianti furono infatti edificati sui resti di una necropoli dell'età del rame: alle polemiche delle voci più colte della cultura cittadina si affiancarono i presagi di 'cattiva sorte' degli abitanti di Partanna-Mondello.
La coltura del cotone, allora, era in forte sviluppo in molte aree della Sicilia: nel 1957, la si praticava su una superfice totale di quasi 35.000 ettari, di cui 14.500 nell'agrigentino ed il resto quasi completamente nella piana di Gela.
Proprio la cittadina nissena, durante la guerra di secessione americana, ospitò le prime piantagioni dell'isola; nel 1864 le distese di cotone superavano i 12.000 ettari, e non pochi produttori gelesi esportavano il prodotto sino a Malta.
Dopo una prima crisi produttiva tra le due guerre mondiali, la breve epopea del cotone siciliano - complice la diffusione delle fibre sintetiche - si avviò verso il tramonto agli inizi degli anni Sessanta; alla vigilia del decennio successivo - nel 1969 - gli ettari destinati a coltivazione si erano ridotti a 6.800, con una produzione di 18.500 quintali di fibra e 27.000 quintali di semi, per altro di cattiva qualità.
Fu in quel periodo che il 'Cotonificio Siciliano' chiuse i battenti, relegando questa lavorazione industriale negli archivi della storia manifatturiera dell'isola.
Oggi, l'unica testimonianza dell'epopea del cotone siciliano è affidata ai relitti di alcune attrezzature di lavoro, tristemente abbandonate - ironia della sorte - proprio all'interno di un'area dell'Ente Sviluppo Agricolo, adiacente al luogo dell'ex Cotonificio.
( le foto a colori sono di REPORTAGESICILIA, quelle in bianco e nero sono tratte dal volume 'Sicilia', UTET, 1974, a cura di A.Pecora )
giovedì 1 maggio 2008
SICILIA DI IERI
1967, QUEI LUOGHI DEL VERGA
Vizzini, il palazzo della famiglia Verga
Panoramica della cittadina verghiana
"Ma in un'epoca come la nostra, frettolosa di allinearsi in ogni campo con le piccole e grandi conquiste del progresso tecnico, non abbiamo certo da rinfacciare a nessuno il rispetto delle cose antiche, la discrezione con la quale ci pare di veder protetto in vari paesi e borghi dell'isola - e particolarmente nella provincia del Verga - il carattere tradizionale, l'incantevole semplicità e grazia di certi luoghi rustici che l'autore di 'Vita dei campi' fece suoi, e che difendono contro il tempo il patrimonio della sua arte".
Con queste accorate parole, Giovanni Centorbi arricchì un reportage pubblicato nel giugno 1967 dalla rivista 'Le vie d'Italia' del TCI e dedicato ai luoghi che hanno fatto da scenario all'opera letteraria di Giovanni Verga: volti di contadini e pescatori, paesaggi di campagne, di paesi barocchi e del mare ionico della Sicilia orientale, colti dall'obiettivo del fotografo palermitano Nicola Scafidi.
I 'luoghi del Verga' di allora appaiono ancora carichi di quella sicilianità rurale oggi sempre meno identificabile; quasi un mutar pelle che Centorbi colse dinanzi agli scogli di Acitrezza, scenario assoluto dell'opera verghiana.
"La fortuna turistica di Acitrezza - denuncia quel reportage, non immaginando lo stravolgimento di quei luoghi, oggi - si è presa un pò troppo generosamente la sua parte, a spese del paesaggio antico, sicchè nel retroterra non pochi olivi, fichidindia e casette di contadini hanno dovuto lasciare il posto all'edilizia nuova, e perfino un 'night club' si è insinuato nel quartiere residenziale, lungo la strada litoranea per Messina"
martedì 29 aprile 2008
lunedì 28 aprile 2008
GIULIANO, FALSI SCOOP E MENZOGNE
Un presunto autografo di 'canzone separatista' attribuito a
Salvatore Giuliano e pubblicato da EPOCA nel gennaio 1961
Salvatore Giuliano e pubblicato da EPOCA nel gennaio 1961
Ha destato interesse la recente ripubblicazione fatta da REPORTAGESICILIA di quello che il settimanale EPOCA presentò come uno 'scoop', nel gennaio del 1961: un 'memoriale' di Salvatore Giuliano, il bandito di Montelepre al centro dell'ambigua stagione del separatismo siciliano e della strage di Portella delle Ginestre.
REPORTAGESICILIA pubblica adesso con molto piacere l'intervento del professore Giuseppe Casarrubbea, ricercatore e storico di Partinico, autore di autorevoli saggi su uno dei periodi più complessi della storia siciliana nel secondo dopoguerra:
"Che la storia d'Italia sia stata falsificata, o, comunque, deviata verso interessi di parte (a destra come a sinistra) è dimostrabile ed è una questione che non vale neanche la pena di sollevare, tanto è scontata. Non per questo, tuttavia, il cosiddetto "memoriale di Giuliano" che la rivista ‘Epoca’ cominciò a pubblicare nel lontano 29 gennaio 1961, è l'ennesimo falso costruito a tavolino, come molte vicende italiane, anche recenti, e siciliane in particolare.
Giuliano era un grafomane. Scriveva veramente molto e malissimo commettendo errori di ogni sorta ad ogni parola. Quasi tutti i suoi scritti (sull'atlantismo, sui 'rossi', sulle maree, sull'universo e chi più ne ha più ne metta) riflettono questa sua condizione di spirito, tipica degli esaltati che pensano di avere le chiavi di lettura del mondo. Naturalmente si tratta di soggetti deboli, facilmente condizionabili, che non possono fare altro che ricorrere alla pistola non potendo utilizzare il cervello. Per lo più sono affascinati da personalità forti di cui frequentano gli ambienti familiari e forse anche i salotti incipriati.
E’ più facile premere il grilletto che spremersi il cervello e per chi ama il denaro ed è rapito da ragazzo dal mondo dei miti, come lo fu a modo suo Giuliano, è facile montarsi la testa, vivere di questi miti e diventare, alla fine, una sorta di “very strong man” artefatto e ben costruito per conto terzi.
Il memoriale che EPOCA pubblica, con un'accattivante fotografia del bandito in copertina, non va fuori dall'originale operazione di maquillage del pessimo bandito, truccato alla perfezione a cui hanno creduto in molti e persino uno storico come Eric Hobsbawm.
Giuliano era un grafomane. Scriveva veramente molto e malissimo commettendo errori di ogni sorta ad ogni parola. Quasi tutti i suoi scritti (sull'atlantismo, sui 'rossi', sulle maree, sull'universo e chi più ne ha più ne metta) riflettono questa sua condizione di spirito, tipica degli esaltati che pensano di avere le chiavi di lettura del mondo. Naturalmente si tratta di soggetti deboli, facilmente condizionabili, che non possono fare altro che ricorrere alla pistola non potendo utilizzare il cervello. Per lo più sono affascinati da personalità forti di cui frequentano gli ambienti familiari e forse anche i salotti incipriati.
E’ più facile premere il grilletto che spremersi il cervello e per chi ama il denaro ed è rapito da ragazzo dal mondo dei miti, come lo fu a modo suo Giuliano, è facile montarsi la testa, vivere di questi miti e diventare, alla fine, una sorta di “very strong man” artefatto e ben costruito per conto terzi.
Il memoriale che EPOCA pubblica, con un'accattivante fotografia del bandito in copertina, non va fuori dall'originale operazione di maquillage del pessimo bandito, truccato alla perfezione a cui hanno creduto in molti e persino uno storico come Eric Hobsbawm.
Lo studioso inglese pensava - scrivendo dei banditi - che essi sono una forma primitiva di ribellismo sociale e pertanto l'espressione di una condizione pre-politica del mondo pastorale e contadino. Umilmente devo dire che si sbagliava di grosso quando pensava in questi termini a Giuliano.
Ma andiamo per ordine.
Ma andiamo per ordine.
Al processo di Viterbo furono esibiti due memoriali. Il primo non piacque a Ciro Verdiani, l'ispettore di polizia al cui indirizzo privato il bandito aveva fatto pervenire la sua proposta di lettura sulla strage di Portella della Ginestra. Il monteleprino allora ne scrisse un altro che, questa volta, dovette apparire accettabile alla mente a dir poco diabolica dell'ispettore. Il testo ha parecchie correzioni ed è chiaramente scritto sotto dettatura. E’ un'autoaccusa; scagiona tutti da ogni responsabilità tranne lui, il capobanda. E’ perfetta e una settimana dopo averla scritta il "re di Montelepre" è ammazzato.
Giova ricordare che due avvoltoi girano attorno a questo morto. Il primo è, appunto, Verdiani, il secondo il capitano dei Carabinieri Antonio Perenze. Il primo già questore fascista in Croazia, al tempo dell'occupazione italiana della Jugoslavia, il secondo l’autore materiale del falso rapporto sulla morte del capobanda, avvenuta, come si sa, la notte tra il 4 e il 5 luglio 1950. Il primo ha conosciuto le organizzazioni anti-titine (nazifascisti, cetnici e ustascia di Ante Pavelic) che già nel '41 avevano avviato una feroce lotta contro la resistenza; il secondo è lo stesso personaggio sorpreso col mitra ancora fumante, per sua stessa ammissione, accanto al corpo del bandito morto. Ammazzato mentre dormiva.
Quanto detto non è marginale rispetto a questo ennesimo memoriale. Bisogna però avere l'accortezza di dare rilievo e significato a ciò che appare come in filigrana, nel sottofondo o che è appena accennato. Come in un thriller, in un "noir" senza fine. Il testo è corretto con una penna di colore verde. Verdiani usava scrivere con penne a inchiostro verde perchè a quanto pare richiamavano il suo nome. Ognuno ha le sue piccole manie, e chi ne è affetto senza saperlo spesso ne piange le conseguenze. Ciò non basta per affermare che anche questo terzo 'memoriale' sia stato dettato o ampiamente corretto da quell'anima previggente che col fascismo aveva fatto carriera. Anche lui finì male perché, ultimato il processo di Viterbo e dovendosi preparare l’appello, un brutto giorno fu trovato morto. Come Pisciotta e un numero indescrivibile di morti che Portella si tirò dietro.
Giuliano e Verdiani erano in ottimi rapporti, La cosa è assodata da una mole inoppugnabile di documenti: una fitta corrispondenza epistolare tra il bandito e il "caro commendatore", i banchetti tra i due alla vigilia del Natale del '49 con panettone e marsala, e cosa peggiore l'invio all'indirizzo romano dell'ispettore di uno dei memoriali del bandito esibiti in tribunale. E' quindi legittimo ritenere che il falso dei primi due memoriali (che ho pubblicato nel 1997 nel mio libro su Portella della Ginestra per i tipi di Franco Angeli) si sia perpetuato anche nei giorni che precedettero la morte di Turiddu, perchè il depistaggio su quanto accaduto fosse completo.
Nel mezzo ci sono almeno tre stragi di vaste proporzioni. Nel '47 Portella della Ginestra e il 22 giugno; nel '49 Bellolampo in cui muoiono parecchi carabinieri. C’é quanto si sta tramando nell'Italia di allora, ancora occupata dagli Usa, e fortemente inquinata dalle attività golpistiche di generali e colonnelli senza scrupoli e pronti a tutto, pur di bloccare il cammino della nascente democrazia.
Altro elemento su cui vale forse la pena soffermarsi è che quando sbarcano gli americani il 10 luglio ’43 essi si trovano a lavorare gomito a gomito con spie e doppi agenti, con forze dell’ordine che non sanno a chi credere e Carabinieri i cui capi, da Perenze al generale Ugo Luca saranno dentro le trame di monarchici e fascisti, agenti filoamericani e doppiogiochisti filonazisti o fascisti"
Quanto detto non è marginale rispetto a questo ennesimo memoriale. Bisogna però avere l'accortezza di dare rilievo e significato a ciò che appare come in filigrana, nel sottofondo o che è appena accennato. Come in un thriller, in un "noir" senza fine. Il testo è corretto con una penna di colore verde. Verdiani usava scrivere con penne a inchiostro verde perchè a quanto pare richiamavano il suo nome. Ognuno ha le sue piccole manie, e chi ne è affetto senza saperlo spesso ne piange le conseguenze. Ciò non basta per affermare che anche questo terzo 'memoriale' sia stato dettato o ampiamente corretto da quell'anima previggente che col fascismo aveva fatto carriera. Anche lui finì male perché, ultimato il processo di Viterbo e dovendosi preparare l’appello, un brutto giorno fu trovato morto. Come Pisciotta e un numero indescrivibile di morti che Portella si tirò dietro.
Giuliano e Verdiani erano in ottimi rapporti, La cosa è assodata da una mole inoppugnabile di documenti: una fitta corrispondenza epistolare tra il bandito e il "caro commendatore", i banchetti tra i due alla vigilia del Natale del '49 con panettone e marsala, e cosa peggiore l'invio all'indirizzo romano dell'ispettore di uno dei memoriali del bandito esibiti in tribunale. E' quindi legittimo ritenere che il falso dei primi due memoriali (che ho pubblicato nel 1997 nel mio libro su Portella della Ginestra per i tipi di Franco Angeli) si sia perpetuato anche nei giorni che precedettero la morte di Turiddu, perchè il depistaggio su quanto accaduto fosse completo.
Nel mezzo ci sono almeno tre stragi di vaste proporzioni. Nel '47 Portella della Ginestra e il 22 giugno; nel '49 Bellolampo in cui muoiono parecchi carabinieri. C’é quanto si sta tramando nell'Italia di allora, ancora occupata dagli Usa, e fortemente inquinata dalle attività golpistiche di generali e colonnelli senza scrupoli e pronti a tutto, pur di bloccare il cammino della nascente democrazia.
Altro elemento su cui vale forse la pena soffermarsi è che quando sbarcano gli americani il 10 luglio ’43 essi si trovano a lavorare gomito a gomito con spie e doppi agenti, con forze dell’ordine che non sanno a chi credere e Carabinieri i cui capi, da Perenze al generale Ugo Luca saranno dentro le trame di monarchici e fascisti, agenti filoamericani e doppiogiochisti filonazisti o fascisti"
venerdì 25 aprile 2008
FIUME, UNA CARTOLINA DAL GIAPPONE
(Salvatore Fiume, 'Poema giapponese numero 9')
"Pittore, scultore, architetto, scrittore e scenografo".
Così il bel sito http://www.fiume.org/ - da cui REPORTAGESICILIA ha tratto informazioni per questo post - riassume e ricorda la personalità artistica di Salvatore Fiume.
Nato a Comiso nel 1915 e morto a Milano undici anni fa, Fiume - a differenza del compaesano Gesualdo Bufalino - è stato capace di alimentare la propria ispirazione da culture ed ambienti lontani dagli umori ragusani e della Sicilia.
Grazie ad una borsa di studio, a 16 anni era già ad Urbino; quindi si trasferì a Milano, iniziando una carriera artistica che lo avrebbe visto frequentare New York, l'Etiopia, Montecarlo, Londra, Gerusalemme, la penisola iberica, il Libano, la Polinesia ed il Giappone.
Proprio durante il viaggio aereo verso il Paese asiatico - da lui visitato a partire dal 1967 - Salvatore Fiume confessò in una cartolina privata la sorpresa di essere riuscito a liberarsi dal legame con Comiso, paragonata a "l'immensa tenda o una immensa cupola impossibile da scucire o da bucare...".
Destinario dell'ammissione fu Raffaele Carrieri, critico d'arte, poeta e amico di Fiume; e REPORTAGESICILIA propone lo scritto nel quale Carrieri - dalle colonne del settimanale 'EPOCA', il 20 aprile 1969 - fornì testimonianza di quella amicizia e dei pensieri del comisano:
"Da qualche anno ricevo dalle più diverse e lontane regioni del mondo bellissime cartoline a colori: me le manda Salvatore Fiume. Per un certo tempo arrivavano tutte le settimane da Londra e dintorni; poi da più distante. A Londra, Fiume si tratteneva quindicine intere per dipingere, nei locali notturni, i 'beats'. Ma a Gerusalemme, o nelle frazioni del Libano, le sue soste erano incomprensibili. Gli asini di Gerusalemme non erano tanto diversi da quelli che aveva dipinto a Comiso, in Sicilia. A parte il suo luogo natale e qualche luogo della Spagna, Fiume non si interessava molto al paesaggio: il maggiore interesse era per le persone, specialmente donne. I 'maschi' del Fiume, quando non appartenevano a epoche remote - Mitologia, Tavola Rotonda, Teatri Equestri - erano cavalieri o toreri, senza parlare dei suoi Numi di pietra dislocati, simili a fari, lungo le coste siciliane. Ma le celebri 'Isole', dipinte da Fiume a centinaia, si vedono assai meno nelle ultime mostre. In questa, appena inaugurata alla 'Galleria del Cigno' in via Manzoni, a Milano, ce ne sono pochi esemplari, e di modeste proporzioni. Le sue statue di Numi svaniscono dall'orizzonte marino: non sono castelli, nè fari, nè monumenti equestri, nè fortezze. L'invasione delle donne occupa tutti gli spazi geografici e prospettici. Si vedono donne del Portogallo cavalcare ciuchini neri, si vedono interni di harem, romitaggi del matriarcato balcanico, camere mobiliate di Londra e di Parigi con ragazze in attesa su letti e divani. Nelle precedenti esposizioni non si erano mai viste, fra i drappelli delle sue Frine, modelle giapponesi. Ed ecco le prime protagoniste del Celeste Impero fare il loro ingresso nella sua pittura. Ora dovrei svelare il contenuto di certe grandi cartoline che Fiume spediva dal Giappone lo scorso semestre":
"Non si dice nulla di straordinario con la notizia che un pittore italiano sia andato per un mese in Giappone.
La cosa è stata straordinaria per me, nato a Comiso, piccolo paese in provincia di Ragusa, l'ultimo sulla discesa dell'Appennino siciliano che sfuma a breve distanza dal mare.
Da quel paesino pochi si avventurarono ad andar fuori perchè sembra, guardando l'orizzonte, che il cielo sia cucito tutto intorno ai confini del mare e della terra, come una immensa cupola impossibile da scucire o da bucare...
Ed invece, eccomi un bel giorno su un aereo, fuori dalla cupola, in alto, a sorvolare il Polo Nord per andare in Giappone. Lassù ebbi la sensazione di non essere più cresciuto dai giorni della mia infanzia".
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