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martedì 29 aprile 2014

IL PROFONDO E SCURO MARE SICILIANO DI PIOVENE


"Il mare siciliano è d'un colore profondo e scuro, quasi in blocchi massicci, su cui il bianco delle onde spicca come in un intarsio; così diverso dal mare napoletano, che invece è diafano, leggero, quasi sospeso, lunare anche di giorno.
Le apparizioni delle Eolie, giacché apparizioni bisogna chiamarle in senso quasi esoterico, accompagnano questa costa e le strade che salgono tra le montagne retrostanti...".
Sono queste alcune delle considerazioni espresse nel 1957 a proposito della Sicilia dallo scrittore e giornalista Guido Piovene nell'opera "Viaggio in Italia".
L'immagine di ReportageSicilia, raffigurante il mare di Finale di Pollina con la mole conica dell'isola di Alicudi, sembra confermare con il linguaggio della fotografia la visione letteraria di Piovene.
   

domenica 27 aprile 2014

GLI ULTIMI CASOLARI CEFALUDESI

Sorgevano fra gli uliveti, ora sopravvivono nell'area di un vasto parcheggio urbano: le immagini di ReportageSicilia documentano l'oblio di un pezzo di ambiente locale a Cefalù

Uno dei due edifici rurali
visibili nei pressi del lungomare.
Questi storici fabbricati insistono oggi
nella vasta area di un parcheggio a pagamento.
Le fotografie presenti nel post
sono di ReportageSicilia

Resistono ancora al rischio di una demolizione, ultimi esempi di un'edilizia agricola un tempo diffusa nell'immediata periferia occidentale di Cefalù, tra le colline dell'interno e la linea di costa sempre più rocciosa man mano che ci si allontana dalla spiaggia del paese.
I due casolari rurali fotografati da ReportageSicilia sono una testimonianza di quel passato lontano in cui - come scrisse il viaggiatore scozzese John Galt in "Voyages Travels in the years 1809-10-11" - "la campagna a ovest della città è ben coltivata e l'olio dei suoi oliveti ha fama di essere il migliore della Sicilia... Le case di campagna sono linde e decorose...".




Oggi quelle terre ed i ricchi oliveti che la rendevano famose sono quasi completamente scomparse, erose dalla crescita edilizia che ha cancellato parte della bellezza di quella Cefalù che agli occhi di Galt si presentava come una città "ben costruita, ma con le strade strette".
Le vecchie costruzioni rurali - adesso in malinconico stato di abbandono - sopravvivono su una vasta spianata di terra e polvere delimitata da via Maestro Pintorno e dal lungomare Giuseppe Giardina.





L'area - che un tempo doveva accogliere gli uliveti descritti dal viaggiatore scozzese - viene oggi utilizzata come parcheggio a pagamento. 
Dove un tempo lavoravano i contadini, stazionano ora automobili e camper delle schiere di turisti che affollano Cefalù: visitatori attirati dalle testimonianze artistiche e dal mare di una cittadina che dallo sviluppo del turismo trae buona parte dei suoi guadagni. 
Negli ultimi anni, il territorio è stato sempre più modellato per assecondare questo processo; non senza qualche rimpianto da parte di chi - sino a qualche decennio fa - ha potuto conoscere la genuina e silenziosa bellezza del paesaggio e degli scorci del centro storico cefaludese. 
Le campagne descritte da Galt sono state nel frattempo urbanizzate, e pochi turisti possono immaginare che lì dove ora parcheggiano i loro camper crescevano i migliori uliveti siciliani.
Le due vecchie costruzioni rurali ancora sopravvissute alla demolizione rappresentano così un segno di quell'ambiente agricolo perso per sempre; con esso, è scomparsa anche una parte dell'identità storica di Cefalù, meno appariscente ma certo altrettanto preziosa rispetto alle testimonianze artistiche di età normanna.
   


Casolari nella periferia Ovest di Cefalù
coltivata ad uliveti.
L'incisione venne pubblicata nel 1892
nell'opera di Gustavo Chiesi
"La Sicilia illustrata nella storia, nell'arte, nei paesi"
da Edoardo Sonzogno 

La stessa zona di Cefalù
in una fotografia attribuita a "Pasta, Milano"
pubblicata nell'opera di Gabriel Faure "En Sicile",
edita nel 1930 da B. Arthaud a Grenoble



L'immagine di "quella" Cefalù era ancora visibile alla fine del secolo XIX, come mostrato da una incisione pubblicata nell'opera di Gustavo Chiesi "La Sicilia illustrata nella storia, nell'arte, nei paesi", edita nel 1892 da Edoardo Sonzogno.
Ancora, traccia del volto agricolo si ritrova in una fotografia pubblicata nel 1930 in "En Sicile" di Gabriel Faure per l'editore B.Arthaud di Grenoble.
Un decennio dopo quella data - nel gennaio del 1940 - l'ingegnere ed architetto palermitano Edoardo Caracciolo, allievo di Ernesto Basile, avrebbe scritto parole oggi purtroppo dimenticate in Sicilia da molte attive "proloco".
"Credo che veramente profonda sia la gioia del turista - si legge nel reportage "L'edilizia popolare in Sicilia", pubblicato da "Le Vie d'Italia" del TCI - nel comprendere ad un tratto, o lentamente, la più intima essenza di un paese o di un popolo, nel vedere rivelati ai suoi occhi i caratteri del paesaggio e come esso si armonizzi con le opere dell'uomo e con l'indole della popolazione, creando quel profondo equilibrio nel tempo e nello spazio che i filosofi hanno intravisto e tentato di spiegare, ognuno a modo suo...".
   
  
    

SICILIANDO














"Sembra che la parola 'cristiano' sia spesso utilizzata in Sicilia semplicemente per indicare un essere umano, o in modo molto simile a quello in cui noi usiamo la parola 'people'.
Ricordo che la serva siciliana di un signore che conosco, entrò un giorno nella stanza a prendere la chiave della porta di servizio; quando le fu chiesto a cosa le servisse, rispose che faceva uscire le cristiane, intendendo solo due vecchie venute a farle visita"
William Irvine, 1813

mercoledì 16 aprile 2014

LO SCOMPARSO MARE DI TERMINI IMERESE

Due esempi di costa palermitana prima che infrastrutture viarie, industrie ed edilizia speculativa le rendessero irriconoscibili

La costa di Termini Imerese,
in una fotografia pubblicata nel 1930
nel volume di Gabriel Faure "En Sicile",
edito da B.Arthaud a Grenoble

Ci sono luoghi nell'isola quasi irriconoscibili rispetto ai decenni passati; località dove gli stravolgimenti del paesaggio e dell'ambiente non possono essere attribuiti al fisiologico "mutare dei tempi" o ai cambiamenti strutturali determinati dal progresso.
Uno di questi luoghi è la costa palermitana di Termini Imerese e la prova del suo stravolgimento - causato dalla soffocante mano dell'uomo - è la fotografia riproposta in apertura di post da ReportageSicilia.
L'immagine - attribuita a "Pasta, Milano" - dovrebbe risalire a poco meno di un secolo fa ed è tratta dall'opera di Gabriel Faure "En Sicile", edita a Grenoble nel 1930 da B.Arthaud.
Sullo sfondo di monte San Calogero, la costa marina che da Termini Imerese conduce sino alla piana di Buonfornello si presenta integra, ancora salva dalle profonde trasformazioni che sarebbero venute di lì a qualche decennio e che quasi ne avrebbero cancellato la vista. 
Le strutture artificiali sorte in seguito sono state molte e tutte invadenti: la centrale elettrica dell'Enel, lo stabilimento Sicilfiat e la vicina zona industriale, il tracciato dell'autostrada Palermo-Catania, quello della linea ferrata tra Palermo e Messina, la devastante lottizzazione edilizia della foce del fiume Imera e la ristrutturazione del porto di Termini.
Già nel 1962 - prima che l'opera di trasformazione del territorio potesse dirsi completata - lo storico dell'arte Giuseppe Bellafiore poteva così notare che "la ferrovia ha tolto a Termini il suo mare: un cavalcavia, compatto come una cortina, separa ed isola il suo porto. Sarà forse un paradosso: ma solamente Termini superiore possiede il mare e vi si apre...".
La fotografia pubblicata nel volume di Faure rivela solo la presenza della flotta peschereccia, attiva allora almeno sin dai primi decenni del secolo XIX.
Le imbarcazioni di Termini Imerese si spingevano sino alle coste dell'Algeria, a La Calle e Philippeville; in età borbonica i pescatori termitani si trovarono a fare i conti nel proprio mare con le "paranze" provenienti da Torre del Greco, in una delle innumerevoli contese del pesce che ancor oggi segnano la storia del Mediterraneo.
A partire dalla fine degli Sessanta dello scorso secolo, le profonde trasformazioni economiche del territorio hanno fatto segnare il declino delle attività ittiche locali.
Molti pescatori abbandonarono la dura vita del mare per lavorare nello stabilimento Fiat, attirati dalla prospettiva di un benessere economico oggi venuto meno dopo la chiusura dell'impianto.


Le due spiagge di cala Sciabica e capo Grosso,
ad Ovest di Termini Imerese.
Anche questa fotografia è tratta
dall'opera "En Sicile", citata in precedenza

La seconda fotografia presente nell'opera di Gabriel Faure e riproposta da ReportageSicilia ( anch'essa attribuita a "Pasta, Milano ) - ritrae invece un angolo di costa da Ovest di Termini Imerese, ancora una volta dominato dalla presenza di monte San Calogero.
Lo scatto ritrae le spiagge di cala Sciabica e di capo Grosso, fra Altavilla Milicia e San Nicolò l'Arena.
Anche in questo caso, le trasformazioni dell'uomo hanno cambiato volto a quello straordinario angolo di costa palermitana, oggi aggredita da un'avvilente sequenza di ville, villette e residence a schiera.             

martedì 15 aprile 2014

DISEGNI DI SICILIA


CATANIA E L'ETNA, 
tratto dall'opera "Antidotario" di Nicolao Catanuto, secolo XVII, in Biblioteca Comunale di Catania 



lunedì 14 aprile 2014

I PAESAGGI ISOLANI DI GIUSEPPE LEONE

Le visioni paesaggistiche della Sicilia in nove immagini del fotografo ragusano, già esposte a Palermo nel 1998
     
Paesaggio delle zolfare ( non datata )

I paesaggi isolani riproposti nel post da ReportageSicilia portano la firma del fotografo Giuseppe Leone http://www.giuseppeleone.it/ e vennero esposti a Palermo dal 18 al 31 marzo del 1998 all'interno della chiesa di Santa Maria dello Spasimo, nell'ambito della mostra intitolata "Scritture di paesaggio".

Castelluccio, sulla piana di Gela ( non datata )

Paesaggio ibleo a Chiaramonte ( non datata )


Giuseppe Leone ha sempre legato la sua opera fotografica alla Sicilia, partendo dal racconto della realtà della sua Ragusa: terra di luci piene e radenti, capaci di donare alle pietre dell'architettura barocca ed al paesaggio agricolo caratteri incisivi e ricchi di evocazione di tempi millenari.

Paesaggio verghiano a Vizzini ( non datata )

Trapanese ( non datata )


Nell'opera "Il matrimonio in Sicilia" ( Sellerio, 2003 ), Leone ricordava le sue prime esperienze con la fotografia - tra il 1951 ed il 1959 - raccontando di avere fatto apprendistato nella sua città nei reportage di matrimoni; occasioni per riflettere anche sui mutamenti sociali e storici della Sicilia di quegli anni.
"Ricordo i matrimoni dei nobili, fieri del proprio rango - scrive Leone nella prefazione del libro - con quei tight che da vicino sapevano di naftalina. 
Si erano sempre sposati tra di loro, superando anche l'ostacolo della parentela di primo grado, e adesso si offrivano agli imprenditori, ai ricchi professionisti, alla nuova borghesia. 
In alcuni casi alla pomposa cerimonia nel Duomo seguiva il ricevimento al Circolo di Conversazione, un santuario di frivolezze e mondanità che mettevano in soggezione chi entrava a far parte della cerchia nobiliare".

Serre a Scoglitti ( non datata )

Lago Pozzillo ad Agira ( non datata )


Dalla più convenzionale forma di utilizzo dello strumento fotografico e della camera oscura, Leone sarebbe maturato ad altre forme di reportage, sino a far scrivere di lui da Leonardo Sciascia:
"Si può dire di Leone quel che Luigi Natoli diceva di Giovanni Meli: 'medico per necessità di vita, poeta per elezione di natura'. Solo che Leone riunisce nell'essere fotografo la necessità di vita e l'elezione di natura: fotografo da bottega a Ragusa, valentemente lavora a sequenze matrimoniali, di cerimonie familiari e pubbliche, ma il suo tempo devolve a fotografare, è il caso di dire di tutto".

Dune costiere presso Pozzallo ( non datata )

Selinunte ( non datata )


Nella prefazione del catalogo delle fotografie ora riproposte da ReportageSicilia, Giuseppe Leone spiegava così la genesi di questi paesaggi:
"Ho esordito con il paesaggio degli Iblei, "La Pietra Vissuta ( Sellerio 1978 ) con l'introduzione di R.Assunto che sull'estetica del paesaggio ha scritto pagine indimenticabili.
Successivamente nel 1978 ho affrontato il paesaggio siciliano con un testo di G.Bufalino nell'"Isola Nuda" ( Bompiani ).
Autori diversi mi hanno dato moltissimo, e ciascuno con diversa lettura del paesaggio mi hanno stimolato a una ricerca più metodica che non ho mai interrotto...
... Attualmente lavoro ad alcuni progetti di lettura del paesaggio della memoria e del paesaggio agrario in trasformazione e di questi temi alcune immagini sono presenti in questo volume". 



domenica 13 aprile 2014

COLORI AD ERACLEA MINOA

Una fotografia di Gaetano Armao ripropone le solari tonalità della costa agrigentina che accoglie i resti dell'antica colonia greca
  
Ruderi di Eraclea Minoa
sullo sfondo del canale di Sicilia
e della costa agrigentina.
La fotografia di Armao è tratta
dal II volume dell'opera "Sicilia",
edita nel 1962 da Sansoni
e dall'Istituto Geografico De Agostini

"E' la Sicilia aperta verso l'Africa.
Dominata dalla solitudine e dal silenzio. Vi si giunga da Trapani o da Siracusa, ci si accorge, quasi improvvisamente, che i colori, le forme sono mutati, la vegetazione arborea si è ancora più rara, talora raccolta in piccole oasi.
Una terra ferita da erosioni, consumata e nutrita da un sole feroce, fortemente ondulata, ma senza risentimenti...".
Così nell'aprile del 1956 Giuseppe Carpi descrisse il paesaggio dell'isola affacciata sul canale di Sicilia, aperta per secoli alle barche di coloni, pirati e invasori ed ai venti caldi del Nord Africa e del Levante.
In questo paesaggio - colto dalla fotografia di Gaetano Armao in una giornata di primavera avanzata, con i toni saturi del giallo, del verde e degli azzurri - si collocano le rovine di Eraclea Minoa, la meno nota fra le colonie greche siciliane delle province di Agrigento e Caltanissetta.
Qui gli scavi iniziarono nel 1907. La zona era allora totalmente deserta e con una sola rovina che segnalava la località; l'archeologo torinese Angelo Mosso, reduce da una campagna di scavi nell'isola di Creta, riscoprì i friabili resti del teatro, oggetto di un recente reportage di Gian Antonio Stella http://www.corriere.it/cronache/14_marzo_17/eraclea-teatro-gioiello-si-sbriciola-prigioniero-acciaio-vetroresina-6f9d25ae-ada5-11e3-a415-108350ae7b5e.shtml.
"Qui il terreno, costituito per la maggior parte da materiale calcareo-argilloso, è franato a tal punto che la topografia originaria della zona dell'antica città sarebbe appena riconoscibile da uno degli antichi coloni", scrisse Margaret Guido nel 1967 ( opera tradotta nel 1978 da Sellerio con il titolo "Guida archeologica della Sicilia" ). 
Oggi il paesaggio di Eraclea Minoa trasmette ancora il senso di un secolare abbandono e la visione di una costa ventosa e abbracciata dalle onde di un mare celeste; l'immagine resa più di cinquant'anni fa da Gaetano Armao e riproposta da Reporta geSicilia poco si discosta dalla realtà dei nostri giorni.       

venerdì 11 aprile 2014

SICILIANDO














"Maledetta isola dove la luce irridente nasconde la morte, dove sono numerosi, tra i più numerosi nella mappa dell'universo, i bambini che muoiono prima della pubertà perché sono venuti al mondo con la malattia ereditaria chiamata anche anemia mediterranea, nome dal morbido suono, che gli ha avvelenato il sangue. 
Accade anche che un uomo possa sentire con angoscia e con violenza di appartenere a una mezza patria che uccide e che, proprio per la forza del male, capisca di essere come una zolla inestirpabile, attratto da un forzoso fatale legame, non per la catena dei beni e dei saperi trasmessi dalla vita, ma proprio per ciò che di più malefico esiste in quella terra ripudiata, ma amata"
Corrado Stajano   

PIONIERISTICHE ESCURSIONI SULL'ETNA

Ascensioni sul cratere tra la fine del secolo XIX e lo scorso secolo nelle fotografie di una monografia edita nel 1907 dall'Istituto Italiano d'Arti Grafiche di Bergamo

Escursionista sulle nevi perenni
dell'Etna nei pressi del cono centrale.
Lo scatto è attribuito ad Alinari
e venne pubblicato nella monografia
"Etna" edita dall'Istituto Italiano d'Arti Grafiche
di Bergamo nel 1907.
Il volume faceva parte della collana "Italia Artistica"
e contiene un testo del geologo e naturalista
Giuseppe De Lorenzo

Fu nel 1907 che l'Istituto Italiano d'Arti Grafiche di Bergamo dedicò il numero 36 della collezione "Italia Artistica" all'Etna.
Il volume faceva parte di una collana che aveva già visto la pubblicazione delle monografie illustrate dedicate a Girgenti, Catania, Taormina - e, in unico numero - Nicosia-Sperlinga-Cerami-Troina ed Adernò.
Il libro dedicato all'Etna conteneva 150 fotografie e tre tavole, oggi piuttosto interessanti per gli appassionati di vulcanologia e di storia locale perché documentano alcune eruzioni avvenute tra il 1883 e gli inizi del secolo XX.



Sopra e sotto, due fotografie
realizzate sul ciglio del cratere centrale,
a circa 3300 metri di quota.
Gli scatti vennero realizzati da Carlo Brogi

Non meno singolari sono poi quelle fotografie in cui vengono ritratti ricercatori o semplici escursionisti impegnati nello studio o nella visita del vulcano.
La monografia contiene inoltre un lungo testo di Giuseppe De Lorenzo, geologo e naturalista lucano ( 1871-1957 ), che studiò da vicino l'Etna a partire dal 1891. 
Le sue osservazioni scientifiche e le numerose citazioni storiche e mitologiche arricchirono un volume che seguì di qualche decennio la descrizione del vulcano fatta dal geografo francese Elisée Reclus nell'opera "La Sicilia e la eruzione dell'Etna nel 1865".



Sopra e sotto,
escursioni in località Montagnola sul piano del Lago.
Entrambe le fotografie sono attribuite ad Alinari


Al contrario di Reclus, che nel suo reportage racconta l'ascensione sino alla bocca del cratere centrale ( "raggiunsi infine la sommità del cratere... è impossibile immaginare spettacolo che disgradi in bellezza e maestà quello offerto dai tre mari Jonio, Africano e Sardo, che colle loro onde più azzurre del cielo circondano il vasto triangolo delle montagne Sicule sparse di città e di fortezze... La massa immensa del vulcano, il cui diametro non è minore di quindici leghe, si dispiega largamente sotto al cratere sovrano colle sue zone concentriche di nevi, di scorie, di verzura, di villaggi e di città...)   De Lorenzo non fa cenno alle escursioni da lui compiute sulle pendici vulcaniche.


Sopra e sotto,
escursione con muli sul vulcano
e fumarole della colata del 1892.
Gli scatti sono attribuiti a Riccò


Lo studioso di Lagonegro indulge piuttosto sulla citazione delle opere letterarie in cui l'Etna è stato nel corso dei secoli protagonista - da Eschilo a Pindaro, sino ai latini Lucilio, Orazio, Virgilio ed Ovidio - per arrivare alle pagine di Goethe.
De Lorenzo, infine, offre anche una complessa ricostruzione filologica del nome Etna:

"Deriva dalla radice indoeuropea 'idh=aidh', che significa ardere, da cui deriva il latino 'aestus' e l'indiano 'indhas', che significa il legno per far fuoco, e 'indra', il fiammeggiante. 
Il nome si è formato con l'elemento verbale 'aidh' ed un suffisso nominale primario, anch'esso indoeuropeo, 'na', che originariamente aveva significato di participio perfetto. 
Così che, se si assume 'aidhna' come la forma fondamentale di Etna, tale parola significa arso, oppure ardente, come ben si conviene ad un vulcano, e come è avvenuto pure per altri vulcani, come il Vesuvio, il Fuji, i cui nomi hanno il medesimo significato di fuoco e di fiamma.
Non è possibile però dire, se un tale nome derivi da un popolo italico o da uno greco, e se quindi lo abbiano trovato i primi navigatori greci, o se questi lo abbiano ricevuto in retaggio dagli antecessori Siculi o Sicani...".



Sopra e sotto,
l'osservatorio etneo
danneggiato dalle esplosioni del 1899
e la cantoniera sotto la Montagnola, a 1182 metri di quota.
La prima fotografia è attribuita a Matteucci,
la seconda a Carlo Brogi



Notazioni filologiche a parte, l'opera di De Lorenzo si distingue appunto per il suo apparato fotografico, che ReportageSicilia ripropone parzialmente nel post.
La selezione delle immagini ha preferito puntare l'attenzione sulla presenza di quegli escursionisti che tra la fine del secolo XIX e gli inizi del XX, per studio o per passione, si cimentavano nella pionieristica ascensione del vulcano.
A questo proposito, qualche anno dopo la pubbicazione della monografia, la Guida Rossa del TCI della Sicilia edita nel 1919 forniva queste preziose indicazioni:

"L'ascensione all'Etna, una delle più grandi attrazioni non solo sicule ma italiane, non deve essere tralasciata da nessun turista, che possa fisicamente affrontarla.
Ben preparata, essa non presenta affatto, da Nicolosi e col mulo, fatiche particolari e può essere fatta anche da signore svelte.
Essa non presenta alcuna difficoltà nella stagione estiva, da luglio a metà ottobre, salvo s'intende quanto è in dipendenza dalla sua lunghezza e dall'altitudine.
Ma, quasi tutti gli anni, lunghi periodi di bel tempo permettono di fare l'ascensione, non solo in primavera ed autunno molto avanzato, ma anche durante l'inverno.
Il CAI sezione Catania ha un corpo di guide, poche sono adatte per l'ascensione invernale. D'inverno le difficoltà inerenti alla neve sono aumentate dalla lunghezza del percorso, che rende l'impresa molto faticosa e talora impossibile. I muli, d'inverno, arrivano ordinariamente da Nicolosi solo alla Cantoniera.



Sopra e sotto,
il fianco occidentale e quello orientale
del cratere centrale dell'Etna.
Le fotografie sono attribuite
ancora una volta a Carlo Brogi


Sulla montagna, specie verso la cima, spirano di frequente fortissimi venti, specialmente da Ovest; la temperatura si mantiene molto bassa anche nei mesi più caldi, talora scende sotto lo zero nelle notti estive; è necessario perciò equipaggiamento adatto. 
Le calzature, debbono essere forti, per le lave aspre e taglienti: munirsi di occhiali da auto contro la cenere vulcanica assai molesta, specialmente sul cratere, e che, talora, rende penosissima l'ascensione del gran cono. 
In inverno ed in primavera, gli occhiali siano colorati per le nevi; l'equipaggiamento deve allora essere come per una ascensione alpina...". 


          

martedì 8 aprile 2014

LE SCONTATE SUGGESTIONI TAORMINESI

L'oleografica rappresentazione delle bellezze costiere messinesi in tre fotografie di Alfredo Camisa 


L'abbraccio fra due correnti d'acqua
sull'istmo sabbiosa dell'isola Bella,
tra capo Sant'Andrea e capo Taormina.
Le fotografie di questo post sono di Alfredo Camisa
e vennero pubblicate nel volume
"Lo Stretto di Messina e le Eolie",
edito nel 1961 dall'Automobile Club d'Italia

Fra i tanti aspetti della realtà paesaggistica dell'isola, c'è anche quello che offre ancor oggi una visione oleografica di certi paesaggi marini, specie quelli lontani dalla disordinata realtà metropolitana propria delle città costiere.
Il rischio di una descrizione calligrafica di questi scorci costieri siciliani - che da qualche anno privilegia luoghi come i faraglioni di Scopello - ha riguardato in passato soprattutto Taormina e le località ad essa vicine.


In questa e nella fotografia che segue,
barche di pescatori nel piccolo golfo di Mazzarò

Gli scatti riproposti da ReportageSicilia sono una testimonianza di quella preferenza, e di quella bellezza un pò "di maniera" colta dal fotografo Alfredo Camisa http://www.alfredocamisa.it/ nella rappresentazione del piccolo golfo di Mazzarò, di capo Sant'Andrea e dell'isola Bella:
magnifiche immagini comunque quelle di Camisa, e specie quella che coglie l'attimo dell'abbraccio di due lievi correnti marine sull'istmo sabbioso dell'isola Bella.



La suggestione dei luoghi - soprattutto quella avvertibile più di cinquant'anni fa, all'epoca degli scatti - e la descrizione in immagini di Camisa rimandano ad una considerazione di Guido Piovene espressa nel 1957:

"La costa che scende a Sud di Messina - si legge in "Viaggio in Italia" ( Mondadori ) - è famosa per i paesaggi, e culmina con Taormina, sospesa sul mare in altura.
E su Taormina non vi è molto da dire, non si descrivono i luoghi troppo eccezionali, in cui la fantasia non trova nessun motivo di scontento, nessuna dissonanza, nulla da aggiungere di suo.
Quanto più belli sono nella realtà, tanto più nella descrizione rifiutano ogni impressione soggettiva e ci imprigionano nei più vieti luoghi comuni...".






  
      

sabato 5 aprile 2014

DISEGNI DI SICILIA


PIERO GAULI, Paesaggio dal castello di Caccamo

venerdì 4 aprile 2014

LA CAMPAGNA AL TEMPO DELLE 'MASSERIE'

Nelle pagine del geografo Aldo Pecora, storia e funzioni degli edifici che hanno accompagnato lo sviluppo dell'economia rurale siciliana nell'età del latifondo
 
Una 'masseria' nelle deserte campagne agrigentine.
La fotografia di Gaetano Armao è tratta dal volume "Sicilia",
edito nel 1961 dal TCI per la collana "Attraverso l'Italia"

"Questo Roccella," disse il commissario "è un diplomatico, console o ambasciatore non so dove. Non viene qui da anni, chiusa la casa di città, abbandonata e quasi in rovina quella di campagna, in contrada Cotugno appunto... Quella che si vede dalla strada: in alto, che sembra un fortino...".
"Una vecchia masseria," disse il brigadiere "ci sono passato sotto tante volte".
Così Leonardo Sciascia inserì l'elemento architettonico della masseria nella breve ed abilissima trama de "Una storia semplice" ( Adelphi, 1989 ); un lustro letterario procuratogli anche da altri scrittori e narratori dell'isola.


Altro esempio di 'masseria'
sulle pendici del monte Erice, nel trapanese.
La fotografia è attribuita a "Stefani-Milano"
ed è tratta dall'opera "Sicilia" del TCI
citata in precedenza

Piuttosto diffuse sino a qualche decennio fa nelle campagne siciliane, le masserie sopravvissute all'abbandono dell'economia agricola latifondistica e al degrado causato dal tempo e dagli uomini vennero così descritte nel 1973 dal geografo Aldo Pecora:

"A me pare opportuno limitare il termine 'masseria' a quelle forme complesse di dimora rurale, che rappresentano il tipico frutto del latifondismo fondiario.
Sorta al centro dei feudi, in posizione rilevata e dominante, da cui lo sguardo liberamente e largamente spazia all'intorno, essa rappresenta il simbolo di una struttura agricola particolare, che in parte è stata distrutta, in parte ancora resiste ma in modo sempre meno tenace, e che comunque si mostra, dove costituisce un nucleo di più fervida attività agricola, protesa alla ricerca di un nuovo equilibrio.


Altra tipologia di 'masseria'
nelle campagne agrigentine.
Sullo sfondo, il rilievo di monte San Calogero.
La fotografia è attribuita a "PGS"
ed è tratta dal volume "Sicilia"
edito da UTET nel 1974 con testo di Aldo Pecora

Elemento distintivo della masseria è il cortile, che appare ben delimitato, quasi sempre, sui suoi quattro lati, da costruzioni dalle funzioni originariamente ben definite, ad un solo piano.
Solo su un lato la fabbrica mostra un secondo piano, oltre al terreno: è la parte riservata al proprietario, che via abita solitamente per un breve periodo durante il raccolto.
Accanto a questa - denominata villa o casa di campagna - cioè sullo stesso lato o su quello direttamente opposto, il giro delle costruzioni trova una breve soluzione di continuità nella porta, alta e ad arco leggermente svasato, che immette nel cortile.


Esempio di 'masseria'
nei pressi di Magazzinazzo,
nelle campagne nissene.
La fotografia è di Italo Zannier
e venne pubblicata nel 1975
nell'opera "Sicilia e Sardegna"
per la collana "Monti d'Italia" edita dall'ENI

La fabbrica massiccia, la relativa ristrettezza del cortile rispetto alla superficie occupata, dimostrano in modo chiaro che il cortile della 'masseria', a differenza di quello della 'cassina' lombarda, ha costituito un'area libera destinata al disbrigo di alcune faccende domestiche e al sicuro abbeveraggio degli animali stabulati. 
In questo cortile, cioè, come capita oggi, non si doveva effettuare alcuna operazione agricola: tutto si svolgeva nei campi, e i prodotti arrivavano qui già pronti per essere immagazzinati. Del resto, il cortile della masseria è quasi sempre in ombra, e troppo stretto per un agevole movimento dei carri: il fieno stesso e la paglia dovevano essere riposti nei fienili ( 'pagghialore' ), come avviene ancora oggi nelle 'masserie' degli altipiani, per mezzo di asini che ne curavano il trasporto a soma dei campi.
Così considerata, la 'masseria' si presenta come una forma complessa, le cui caratteristiche dominanti sono da una parte l'area relativamente notevole occupata dal corpo edile, dall'altra la presenza di uno spazio racchiuso o cortile...".


Una 'masseria' di più recente costruzione
nelle campagne di Cammarata, nell'agrigentino.
La fotografia è di Italo Zannier,
opera citata in precedenza

"La 'masseria' - analizza infine Pecora - è sorta - e si è sviluppata soprattutto nei secoli dal sedicesimo al diciottesimo - come una manifestazione del capitale, come centro di direzione e di coordinamento della produzione: cioè come centro di sfruttamento, che delle piantagioni di tipo coloniale presentava alcuni dei più peculiari e negativi aspetti sociali, senza mostrarne la stessa intensità e perfezione di coltura.
La 'masseria' non era, e non è, in genere, un centro permanente di abitazione: come oggi, i contadini vi si portavano giornalmente al lavoro dai centri abitati, dove risultava più facile tenerli soggetti, imbrigliarne la volontà, ostacolarne il miglioramento economico e sociale, tenerli in uno stato di passività culturale le cui conseguenze sono tuttora palesi nel diffuso analfabetismo della classe contadina.


Scena di vita campestre,
strettamente legata all'attività agricola
delle 'masserie' siciliane
nell'età del latifondo.
La fotografia di Ezio Quiresi è tratta dal I volume
dell'opera "Sicilia" edita nel 1962
da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini 

Il disgregamento del latifondo, iniziato in forma timida dall'inizio del secolo scorso ( il XIX, ndr ), doveva ovviamente comportare la decadenza di questo tipo di insediamento, così strettamente legato a forme economiche e sociali sorpassate ed anacronistiche.
Molte 'masserie' sono pertanto decadute con l'estinzione o la quotizzazione dei feudi, e rimangono nell'aperta campagna come il simbolo o testimonio di una struttura agraria opportunamente, anche se tardivamente, venuta meno: lo stato di abbandono e di diroccamento non impedisce tuttavia di afferrare il senso della decaduta potenza dei signori feudali...". 



   

giovedì 3 aprile 2014

BARCHE A GELA, IL MARE PRIMA DEL PETROLIO

Pubblicate nel 1930 dall'opera del francese Gabriel Faure intitolata "En Sicile", tre fotografie ricordano l'attività marittima nella cittadina oggi stravolta dal petrolchimico


Ci sono vecchie fotografie dell'isola che restituiscono l'immagine perduta di un territorio e delle attività umane che un tempo vi si svolgevano. 
Il dato riguarda soprattutto quelle zone della Sicilia che hanno subìto radicali trasformazioni ambientali, legate alla creazione di aree industriali; luoghi come Augusta, Priolo, Termini Imerese o Gela, nei tempi remoti scelti dai colonizzatori greci per la loro naturale feracità e lo scorso secoli devastati dalle aziende del petrolio e della chimica.
Le tre fotografie riproposte da ReportageSicilia offrono così un sorprendente volto di Gela, oggi neanche immaginabile a causa del permanente ( e nauseabondo ) impatto del petrolchimico, sorto dal 1960 al 1965.
Le immagini rivelano il mondo perduto delle attività ittiche e navali gelesi, che ancora nei primi decenni del secolo XX sostentavano l'economia locale.
La flotta di Gela comprendeva allora sia barche da pesca - soprattutto "paranze" e vascelli per la raccolta delle spugne - che velieri mercantili diretti con grano, cotone, vino e scope nei porti di Malta, della Tunisia e della Libia http://www.gelacittadimare.it/pesca.html.


Di quell'attività commerciale rimane una traccia statistica nel II volume dell'opera di A.Brunialdi e S.Grande "Il Mediterraneo" ( UTET, 1922 ), secondo cui a Gela "nel 1914, 438 navi stazzanti 81.075 tonnellate ne importarono 4.927 e ne esportarono 9.004 di merci diverse". 
Gli scatti delle imbarcazioni tirate in secca sulla spiaggia di Gela portano la firma "Pasta Milano" e vennero pubblicati nell'opera dello scrittore francese Gabriel Faure ( 1877-1962 ) "En Sicile", edita da B.Arthaud-Grenoble nel 1930.
Nel volume - che faceva parte di una collana intitolata "Les beaux pays", dedicata a Paesi e regioni del Mediterraneo - gli unici riferimenti alle vicende locali sono quelli di natura storica ( "Terranova, qui vient de reprendre son antique nom de Gela, était, jadis, après Syracuse et Agrigente, la plus florissante des villes grecques..." ). 
Durante il suo reportage, Faure non poteva immaginare che quel territorio siciliano assai simile ad un pezzo di costa africana sarebbe diventato un luogo la lavorazione del petrolio e gli incancellabili guasti ambientali avrebbero garantito poche decine d'anni di sviluppo.


Le tre fotografie riproposte da ReportageSicilia aggiungono così qualche altro dubbio circa le conseguenze a lungo termine del cieco sviluppo delle attività petrolchimiche in Sicilia.
"Si assiste oggi al risultato evidente di due diverse politiche rivolte alla soluzione dei problemi, ognuna con i mezzi a sua disposizione.
Da una parte - scriveranno nel 1968 Errico Ascione e Italo Insolera -  le soluzioni chiare ed organiche dettate dalla necessità della efficienza industriale, affrontate con la esperienza e i mezzi disponibili ed acquisibili, dall'altra il disperato tentativo condotto dagli individui e dalla collettività locale senza mezzi e senza esperienze, e, soprattutto, con la incapacità di trovare interessi comuni.
La città con la sua disordinata espansione, conseguenza dello sviluppo economico e demografico provocato dalla presenza della grande industria, è stretta da ogni lato da strutture efficienti e funzionali che la costringono quotidianamente ad un mortificante confronto, aggravato ancora più dal fatto di non potere partecipare, socialmente ed economicamente, ai processi di rinnovamento messi in moto dall'industria.
Gela è paradossalmente diventata la periferia dei suoi dintorni".