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domenica 25 ottobre 2015

DISEGNI DI SICILIA


VEGETAZIONE DI SICILIA, da "Sicilia"
collana "Geografia dell'Italia", UTET, 1899

A SIRACUSA PER UN VIAGGIO DI MEDITAZIONE

Nelle fotografie di Lamberto Rubino la suggestione di una città che ha conservato un rapporto di intimità con le diverse tracce del suo passato millenario


La fontana di Artemide, in piazza Archimede, a Siracusa.
Le fotografie del post sono di Lamberto Rubino
e sono tratte dal volume "Siracusa, le pietre della memoria",
edito nel 1993 da Erre Produzioni


"Siete venuti almeno una volta in vita vostra a Siracusa, e ora vivete a Oslo, Stoccolma o a Copenaghen?
Non fa niente, chiudete gli occhi e rivedrete il Teatro greco e il Ginnasio, la Via delle tombe, le Latomie e l'Orecchio di Dionisio, il portale del Castello Maniace, il cortiletto del Palazzo Bellomo.
Li rivedrete inondati di quella luce diffusa che è propria della Sicilia.
E se siete in vena di malinconia, ripensate ai papiri del Ciane.
Ma se sono passati degli anni dal vostro viaggio, allora dovete tornare a Siracusa, per ammirare i tesori artistici oggi raccolti nel Museo Archeologico e, ad intender meglio come l'uomo sia stato sempre lo stesso, venite a rivedere le statuette di Tabagra che sembrano figurine del nostro tempo e ricordano le cere di Medardo Rosso; oppure, passando, date solo una sbirciata a quei vasi, pur bellissimi e vivacissimi, di cui la censura moderna vieterebbe la visione ai minori di 16 anni..."


Le latomie dei Cappuccini.
Fotografia di Lamberto Rubino, opera citata


Era il 1960 quando il geografo Ferdinando Milone invitò così i lettori del saggio "La Sicilia, la natura e l'uomo" ( Boringhieri ) a visitare o a tornare a Siracusa.
La città, nell'antichità una delle capitali del Mediterraneo - qui la flotta di Atene subì una rovinosa sconfitta - ha oggi un rapporto talmente intimo con la grandezza del suo passato e del suo patrimonio storico e architettonico da non identificarsi con un singolo monumento.
La città invoglia alla visita più che per la varietà sorprendente delle bellezze naturali e artistiche che per lo stupore provocato da uno dei suoi numerosi monumenti; il godimento del tutto è qui più forte dell'ammirazione del particolare. 
Siracusa è insomma un luogo che invita i visitatori ad un soggiorno di meditazione. 


Un monumentale ficus nell'area delle latomie di Santa Venera.
Fotografia di Lamberto Rubino, opera citata
 

La concentrazione e la varietà di luoghi e monumenti vantate dalla città è forse superiore a quella di Palermo.
Rispetto al capoluogo dell'isola, la singolarità di queste presenze ( oltre al teatro, il castello Eurialo, le latomie, il duomo metà chiesa e metà tempio, le catacombe cristiane, il barocco di Ortigia, il castello Maniace, i papiri del Ciane, i musei "Paolo Orsi" e di palazzo Bellomo ) supera per suggestione la sovrabbondanza architettonica palermitana.
Le fotografie di Lamberto Rubino riproposte da ReportageSicilia documentano questa caratteristica e sono tratte da uno dei più bei libri dedicati alla città un tempo protagonista della storia e del mito del Mediterraneo.
In "Siracusa, le pietre della memoria" ( Erre Produzioni, 1993, con introduzione di Nunziatella Saccà ), Rubino restituisce il volto di una Siracusa che non ha bisogno dei monumenti più celebri ( su tutti, il teatro ) per dimostrare la ricchezza del suo patrimonio artistico ed ambientale.
Nel testo che accompagna la raccolta delle immagini, Nunziatella Saccà scrive non a caso che "questo libro potrebbe essere considerato un contributo fotografico ad una fruizione di Siracusa come città-museo en plein air".


La tonnara di S.Panagia con i resti delle mura dionigiane.
Fotografia di Lamberto Rubino, opera citata

L'essenza unica di quest'angolo di Sicilia venne così colta da Guido Piovene nel suo celebre "Viaggio in Italia" ( Mondadori, 1957 ):

"Soltanto una mente parziale può dimenticare che questa città è nota nel mondo come regno degli dei e delle ninfe, ed importante soprattutto per altre cause, non meno oggi di ieri.
E' infatti il più complesso centro archeologico del mondo classico mediterraneo.
Ma è anche, Siracusa, una delle città in cui l'archeologia, la mitologia e la storia si sono spontaneamente disposte in modo da offrire riposi, passeggiate ed idilli.
Agli dei ed alle ninfe si è poi aggiunta la vita di un porto siciliano rivolto all'Oriente, rendendoli casalinghi come i re delle fiabe..."  


   




lunedì 19 ottobre 2015

VIOLENZA FRA LE STATUE NELLA PALERMO DEL DOPOGUERRA

Una fotografia pubblicata nel maggio del 1946 da "l'Europeo" testimonia il clima della città sconvolta dalle conseguenze del conflitto e dall'affermarsi del banditismo




"Ragazzi giocano davanti alla Fontana della Vergogna.
Adesso i ragazzi giocano spesso a fare i banditi e fingono inseguimenti, fughe ed arresti.
Talvolta si picchiano con violenza"

Poche informazioni, ma sufficienti a ricostruire il quadro delle tensioni nella Palermo del secondo dopoguerra, tra povertà e le pulsioni criminali ed ideologiche alimentate dal banditismo e dal separatismo.
La foto-notizia pubblicata da "l'Europeo" il 5 maggio del 1946 ritrae un uomo in divisa nell'atto di afferrare per i capelli un ragazzo; intorno - sul basamento della fontana monumentale di piazza Pretoria - altri tre giovani assistono alla scena.
Un rapporto dell'Ispettorato di Polizia redatto il 31 gennaio del 1946 descriveva il clima di violenza quotidiana a Palermo ben rappresentato da quell'immagine.
Il documento testimoniava l'alto numero di reati registrati in città e indicava Salvatore Giuliano e altri "47 malfattori" come responsabili di 8 omicidi, due tentati omicidi, conflitti a fuoco, rapine, estorsioni, furti ed aggressioni di caserme dei carabinieri.



I palermitani avevano poi ancora vivo il ricordo della strage compiuta il 19 ottobre del 1944 dinanzi palazzo Comitini, allora sede della Prefettura: quel giorno, soldati del  regio esercito lanciarono bombe a mano contro una folla inerme di dipendenti comunali, disoccupati e diseredati del centro storico.
Il bilancio di quell'eccidio - passato alla storia come "la strage del pane" - non fu mai reso noto ( le stime di allora indicano i morti in un numero variabile fra i 19 e i 30, oltre a parecchie decine di feriti ).
Una pagina di Sandro Attanasio così descrive un'altra oscura pagina di proteste e violenza vissuta in quegli anni a Palermo, due mesi prima della pubblicazione della fotografia su "l'Europeo":
"L'11 marzo una tumultuosa manifestazione percorse le strade della capitale dell'isola.
La folla - si legge nel saggio "Gli anni della rabbia, Sicilia 1943-1947, Mursia, 1984 -  chiedeva lavoro per i reduci disoccupati, lotta al caro vita, distribuzione straordinaria di generi alimentari.
Aldisio promise ai dimostranti la soddisfazione di queste richieste.
Il giorno dopo le manifestazioni ripresero imponenti.
Verso le 10 una folla di almeno diecimila dimostranti si mosse dalla Stazione Centrale e imboccò decisamente la via Roma.
La folla era eccitata, si vedevano molte persone che agitavano randelli.
V'erano anche autocarri stipati di gente vociante.
I primi tumulti si verificarono in via Roma davanti agli uffici comunali.
Presto tutto il centro della città si trasformò in una bolgia.
La Camera del Lavoro di via Maqueda, minacciata da una massa minacciosa, venne abbandonata dagli impiegati e fatta chiudere.
La folla irruppe nell'edificio distribuzione del Palazzo delle poste e mise tutto a soqquadro.



Un tentativo di invasione del Palazzo delle Finanze fu fortunosamente sventato da un forte presidio di Guardia di Finanza.  
Un formidabile schieramento di forza pubblica servì a tenere lontani i dimostranti dalla prefettura e dal municipio di piazza Pretoria.
La gente allora si riversò all'ufficio tasse comunali di via Maqueda, nei locali della scuola Gaetano Daita, e li mise sottosopra.
Dai balconi piovvero mobili e documenti che furono bruciati per strada.
Lo stesso avveniva alla pretura in piazza Ignazio Florio.
Poi la folla, più furiosa che mai, prese d'assalto l'esattoria comunale di Palazzo Venezia.
Porte e serrande furono sfondate con grosse travi usati come catapulte e la gente dilagò negli uffici.
Attrezzature, mobili e incartamenti finirono in un grande rogo stradale.
Anche pacchi di banconote furono bruciati al grido 'non siamo ladri!'
Soldati e forze di polizia s'erano prudentemente ritirati e assistevano a distanza alla scena.
All'ufficio Carte Annonarie di via Libertà, invece, avvenne la tragedia.
La forza pubblica aprì il fuoco sulla folla che si disperse in preda al terrore.
Sul terreno rimase una dozzina di feriti.
Vi furono anche due morti: il giovane disoccupato Salvatore Maltese di 19 anni e il commissario di PS Antonino Calderone che si trovava tra la folla e cercava di calmare gli animi.



Nel pomeriggio una colonna di dimostranti marciò di nuovo verso la prefettura, ma venne bloccata da un imponente schieramento di forza pubblica.
Un reparto di carabinieri a cavallo si esibì alla cosacca e caricò ripetutamente la folla, disperdendola a sciabolate e travolgendola con i cavalli.
Allora un tale salì su un autocarro, lo mise in moto, e puntò sui carabinieri.
Travolse uomini e cavalli, sfondò lo schieramento di truppa e aprì un varco verso l'ingresso dell'edificio.
La folla si fece sotto saettando sassi e pezzi di legno, ma dovette ripiegare sotto una fitta sparatoria aperta dai militari.
La giornata si chiuse con un pesante bilancio di sangue.
Oltre ai due morti vi furono moltissimi feriti.
Quelli 'ufficiali' furono: nove militari, fra questi un tenente del 39° fanteria, tale Lucio Siluri.
Fra la popolazione civile si ebbero una trentina di feriti, di cui due donne. Tutti colpiti da colpi d'arma da fuoco o da sciabolate.
Ma bisogna tener conto che molti cittadini, per paura di altri guai, non si fecero curare presso gli ospedali e i pronto soccorso.
Le tracce dei disordini furono fatte scomparire in gran fretta.
Autoblindo, carri armati e camionette pattugliarono tutta la notte le strade della città; di tanto in tanto i militari sparavo raffiche intimidatorie.
La città rimase per parecchi giorni sotto la morsa dei reparti militari..." 



giovedì 15 ottobre 2015

L'ABBACINANTE STROMBOLI DI ALFREDO CAMISA

Immagini dell'architettura isolana nei decenni  della fuga degli stromboliani verso lontanissime terre d'oltre oceano


Un'anziana donna di Stromboli
tra la bianca edilizia dell'isola delle Eolie.
Le fotografie del post sono di Alfredo Camisa
e vennero pubblicate nell'opera
"Lo Stretto di Messina e le isole Eolie",
edita nel 1960 da Editrice dell'Automobile
per la collana "Italia nostra"

"Il sole estivo rende abbacinante questo mosaico di piccoli cubi contro l'azzurro cupo del mare.
Molte delle porte di Stromboli sono sprangate, e le case disabitate; dall'inizio del secolo la popolazione dell'isola si è ridotta, da 5.000 a 500 abitanti.
L'Australia, la Nuova Zelanda, gli Stati Uniti sono i paesi di emigrazione degli stromboliani, lontano dalla loro terra perennemente ballerina.
La maggiore percentuale della corrispondenza smistata all'ufficio postale di Stromboli giunge o è destinata oltre oceano.
Le case bianche, i tabernacoli, qualche mulino a vento, i fichidindia, Strombolicchio, la lava costituiscono gli elementi ricorrenti dello scarno paesaggio dell'isola"


Era il 1960 quando il fotografo bolognese Alfredo Camisa http://www.alfredocamisa.it  commentò così in una didascalia le fotografie scattate a Stromboli e pubblicate nel volume "Lo Stretto di Messina e le Eolie", edito da Editrice dell'Automobile per la collana "Italia nostra".
Ancora lontana dagli sbarchi estivi in massa dei turisti, in quegli scatti Stromboli appare un luogo in cui l'uomo deve completamente adattarsi alla natura aspra e alla forza incontrollabile del vulcano e del mare.
Nelle immagini di Camisa, l'isola non appare troppo diversa da quella descritta nel 1951 da Fosco Maraini nell'opera "Volto delle Eolie" ( S.F. Flaccovio, Palermo ):



"Il nero di Stromboli è profondo, desolato, quasi sontuoso talvolta; specialmente la sera con le nuvole color rosa e madreperla.
Per contrasto ogni casa è bianca, bianchissima.
L'architettura è la stessa di quella delle case di Panarea, ma l'insieme, non so come, è triste.
Viene da pensare a degli ossi: ossi fra tizzoni smisurati di pietra.
E poi l'isola va lentamente ma sicuramente spopolandosi.
Dalle parecchie migliaia di abitanti di alcuni anni fa si è scesi alle poche centinaia di oggi.
Intere borgate sono deserte; ogni casa appartiene a qualcuno che sta in Australia od in America e che forse ha dimenticato questa proprietà sulla terra riarsa dell'isola.
Infatti uno degli spettacoli più impressionanti di Stromboli ( e di tutte le Eolie ) è quello della Città Morta.


Proseguendo oltre San Vincenzo si raggiunge Piscità, un lungo borgo di casette cubiche e bianche costruite su delle rocce nere e aguzze e che, a suo tempo, doveva ospitare tre o quattrocento persone.
Oggi ne restano una decina: dei vecchi, qualche ragazza, alcuni bambini.
Il posto degli uomini è preso dai gatti e dal silenzio.
Il dramma tellurico di Stromboli non è solo boati e fiamma ossidrica, è qualcosa di umano; gli uomini, le loro case, le loro vicende sono legate indissolubilmente ai vecchi carboni neri del monte..."   


SICILIANDO














"Io non vedo l'ora di smontare questa baracca: sono stanco di Roma, del cinema, del senato, delle discussioni ( ... ).
Ho tanta nostalgia della Sicilia, del mare ancora caldo, dei mille sapori che la vita intima ha laggiù"
Vitaliano Brancati,
in una lettera inviata nel novembre del 1948 ad Anna Proclemer dopo le polemiche politiche per l'adattamento del racconto "Il vecchio con gli stivali" al film di Luigi Zampa "Anni difficili" 

mercoledì 14 ottobre 2015

L'IDENTITA' GENOVESE DI CALTAGIRONE

"Scaltri e parsimoniosi": così nel 1959 il giornalista Felice Chilanti definì la natura dei calatini, ricordando i loro legami storici con i mercenari liguri che liberarono la cittadina dall'occupazione araba

Ragazzi sulla scalinata di Santa Maria del Monte.
La fotografia del post è di Josip Ciganovic ed è tratta
dal I volume dell'opera "Sicilia" edita nel 1962
da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini 

"Silvio Milazzo, ventenne,     abbandonò la vita politica militante e 'mise 'u scagnu',       aprì cioè il suo ufficio d'amministrazione e d'affari.
Anche a Caltagirone, come a Genova, quei piccoli uffici si chiamano 'scagnu' e, come a Genova, nella cittadina siciliana i vicoli vengono chiamati 'carugi'.
Qualcosa è rimasto, nei calatini, dell'influenza genovese: la severità amministrativa, la tenacia negli affari, un tipo speciale di saggezza che si confonde con la scaltrezza, la parsimonia"

Così nel 1959 il giornalista Felice Chilanti in un saggio dedicato a Silvio Milazzo "Ma chi è questo Milazzo?", Parenti Editore Firenze ) tratteggiò il carattere mercantile degli abitanti di Caltagirone, retaggio della millenarie vicende della conquista normanna della Sicilia.



Vuole la storia infatti che mercenari provenienti da Genova o dal Ponente ligure tra il 1030 ed il 1040 abbiano contribuito dopo un lungo assedio e un aspro combattimento alla liberazione di Caltagirone dalle truppe arabe.  

"A quella battaglia presero parte anche dei genovesi, chissà come capitati a Caltagirone.
Nello stemma della cittadina siciliana, un'aquila che afferra con l'artiglio la tibia di un gigante mostra sul petto l'insegna del comune di Genova.
Sorge inoltre, a Caltagirone, un'antica chiesa di San Giorgio eretta dalla comunità dei genovesi"

Secondo la tradizione locale, furono proprio i genovesi a consegnare al Conte Ruggero le chiavi della città, ricevendo in cambio titoli e feudi.
Da Caltagirone, alcuni di loro si mossero col tempo verso Sciacca, Palermo e Messina.
Qui, i genovesi tornarono ad alimentare la loro vena commerciale nel Mediterraneo, grazie anche alla creazione di associazioni fra mercanti liguri e siciliani.
A queste lontane vicende del suo passato, Caltagirone deve forse la vocazione ad un certo attivismo finanziario e politico: una capacità  sconosciuta in molti altre cittadine della Sicilia.
Di Caltagirone - comune che agli inizi del Novecento era fra i più ricchi d'Italia, possedendo feudi vastissimi, estesi sino a Catania -  furono originari fra gli altri, oltre a Silvio MilazzoLuigi Sturzo e Mario Scelba.



Qui lo stesso Sturzo fondò la Cassa di San Giacomo, che praticò una tutela dei prezzi dei prodotti agricoli mai applicata dalle grandi banche; e calatini sono i nomi di personaggi come Paolo Ciulla ( l'abilissimo falsificatore di banconote ) e Salvatore Zaffarana ( il sensale di matrimoni che trovò moglie a clienti sparsi in mezza Europa ).
Così, l'identità genovese o ligure di questa cittadina ha reso Caltagirone una delle molte isole nell'isola che è la Sicilia: alla curiosità e all'acume dei visitatori è affidata la possibilità di scoprirne le diverse anime della sua storia e delle sue genti.

( La riproduzione della stampa di Caltagirone del secolo XIX è tratta dal saggio di Felice Chilanti, opera citata )


domenica 11 ottobre 2015

CATANIA, L'ANTICAPITALE SICILIANA DI GIUSEPPE FAVA

In una pagina de "I Siciliani", l'analisi del giornalista sulla realtà sociale e sui vizi mentali della città che dietro l'ironia e l'attivismo nasconde il fallimento della sua volontà di grandezza

Immagini del porto di Catania.
Le fotografie del post sono di ReportageSicilia

Giuseppe Fava ( Palazzolo Acreide, 1925 Catania, 1884 ) è stato uno dei più sferzanti e lucidi osservatori dei vizi e dei malaffari siciliani del Novecento.
Per queste doti è stato ucciso a Catania, dove aveva scelto di vivere e lavorare con la piena consapevolezza della sua natura di città mistificatoria: una Catania insieme "avida, impaurita, intelligentissima", capace di irretire il giornalista di origini siracusane con la sua inquieta natura da meretrice:

"Io amo questa città - spiegò Fava nel saggio "I Siciliani" ( Cappelli editore, 1980 con un rapporto sentimentale preciso: quello che può avere un uomo che si è innamorato perdutamente di una puttana, e non può farci niente, sa che è puttana, è volgare, sporca, traditrice, si concede per denaro a chicchessia, è oscena, menzognera, volgare, e però è anche ridente, allegra, violenta, conosce tutti i trucchi e i vizi dell'amore e glieli fa assaporare, poi scappa subito via con un altro; egli dovrebbe prenderla mille volte a calci in faccia, sputarle addosso 'al diavolo, zoccola!', ma il solo pensiero di abbandonarla gli riempi l'animo di oscurità"






Nello stesso libro - testimonianza di passione civile e umana, frutto di un amore non retorico per la Sicilia e per i siciliani - Giuseppe Fava ha analizzato con lucidità il ruolo di anticapitale dell'isola rivestito da Catania rispetto a Palermo

"Catania è l'anticapitale per eccellenza come poteva essere Cartagine con Roma, Sparta contro Atene, come oggi Leningrado con Mosca, Barcellona con Madrid, Milano con Roma.
Della città anticapitale Catania ha tutte le caratteristiche sociali e mentali: anzitutto il complesso di inferiorità che tende a mascherarsi con l'ironia, l'attivismo febbrile con cui giustifica la sua pretesa alla supremazia, quindi l'amore per il denaro nel quale, in mancanza di un assoluto potere legislativo o esecutivo, identica il supremo potere della potenza, infine una concezione quasi gloriosa delle virtù che possiede e il disprezzo per tutte quelle altre virtù che invece le mancano.
Per completare: una costante vocazione alla disubbidienza, cioè una voluta ignoranza di tutte le regole, che essa contrabbanda per libertà...






E perciò accade che Catania non vive più in proiezione storica, il suo spirito non guarda al passato per misurarlo, e nemmeno all'avvenire per anticiparlo, ma semplicemente al presente, che è il suo presente, senza cioè nemmeno volgersi intorno per scrutare il presente degli altri, e quello che gli altri fanno, patimenti, errori, fallimenti, trionfi.
Al catanese non gliene frega niente.
Il catanese ha solo il suo presente, ineguagliabile, dentro il quale vive col respiro corto, centoventi pulsazioni al minuto come fosse scosso continuamente dalla febbre, dalla impazienza di avere tutto e subito.
Ecco perché, nel fallimento di uno splendido destino civile, il sogno e la possibilità d'essere il cuore del Mediterraneo, il denaro diventa la regola essenziale della vita e la violenza il suo stile.
In fondo, che il teatro sia l'unica, straripante, genuina forza di cultura popolare a Catania, significa proprio che il catanese è costretto ogni giorno a recitare se stesso, a giocare con se stesso, e soprattutto a rappresentarsi per potersi ridere in faccia!"

  

venerdì 9 ottobre 2015

DISEGNI DI SICILIA


Autore sconosciuto
manifesto ENIT di promozione turistica in Sicilia, 1957?

LA PROCESSIONE DEI BRONTESI CONTRO LA LAVA DELL'ETNA

Una fotografia pubblicata nel dicembre del 1949 dal settimanale "l'Europeo" documenta la mobilitazione religiosa di Bronte contro un'eruzione che mise allora a rischio il paese etneo



In tanti ricordano quando fra l'autunno del 1992 ed i primi mesi del 1993 l'eruzione dell'Etna - un fronte lavico pericolosamente diretto verso Zafferana - venne fronteggiata con l'uso di esplosivo e blocchi di cemento.
Fu uno spettacolo essenzialmente alimentato dai media televisivi, che documentarono con telecamere ed inviati l'assalto militare messo per la prima volta in atto dai vulcanologi contro le colate di lava.
Fino ad allora, la popolazione dei paesi che vivono all'ombra dell'Etna aveva in qualche caso affidato la salvezza delle case all'opera di bulldozer ed escavatori. 
Più frequentemente, la lotta contro la violenza naturale del vulcano è stata combattuta con l'arma della fede: preghiere e processioni spintesi sino ai margini del fronte lavico.
Un esempio di questa pratica religiosa è documentato dalla fotografia riproposta da ReportageSicilia.
L'immagine - tratta dal settimanale "l'Europeo" del 4 dicembre del 1949 - ritrae un gruppo di abitanti di Bronte in preghiera con due sacerdoti il 2 o il 3 dicembre.



In quei giorni- dopo una violenta scossa avvertita in paese alle 5.25 del giorno 2 - un fronte lavico si mosse in direzione di Bronte, distruggendo un bosco di pini.
Quell'eruzione riaprì vecchie paure e il ricordo di antiche tragedie: nel 1843, l'azione distruttiva dell'Etna era costata la vita ad oltre 50 brontesi.   

"Don Luigi Longhitano, parroco di Bronte, circondato da un gruppo di fedeli e con in mano una reliquia - si legge nella didascalia che accompagnava la fotografia de "l'Europeo" -  va incontro alla colata dell'Etna per fermarne la marcia.
L'eruzione è stata preceduta da una forte scossa sismica verso quota 3000 del versante Sud-Ovest del cratere centrale.
Si è prodotto un vasto squarcio, mentre tre altre bocche si sono aperte nella stessa direzione, alcune centinaia di metri più in basso.
Il paese di Bronte era direttamente minacciato, ma la lava non l'ha raggiunto" 



FONTI ON LINE
http://www.bronteinsieme.it/2st/eruzioni_etna.html

Si ringrazia "La Bottega del Libro" di via Antonio Tempesta 63, a Roma, per la preziosa consultazione e l'utilizzo della collezione delle passate annate de "l'Europeo" 

giovedì 8 ottobre 2015

ELOGIO DELLE MODICANE

La presenza nel paesaggio e nella cultura contadina iblea di una razza di mucca spesso ricordata nella saggistica dedicata alla Sicilia


Mucche della razza Modicana a Palazzolo ( 1986 ).
Le fotografie del post sono di Giuseppe Leone
e sono tratte dal saggio "il Ragusano,
storie e paesaggi dell'arte casearia",

edito nel 1999 da Federico Motta Editore

"Sembra che tirando una linea tra Avola e Gela si abbia, dalla parte del mare, una terra anche geologicamente diversa, terra sassosa, in cui le valli diventano precipizi.
I muriccioli a secco, simili a un geroglifico, rigano la campagna, per dividere la proprietà o una cultura dall'altra.
Intorno a Modica, graziosa città col suo bel San Giorgio barocco, si scorgono superstiti proprietà signorili, case colore dell'argilla o del sasso isolate tra ciuffi di palme nella campagna.
Qui si coltiva il mandorlo, che produce una qualità speciale di frutti detti pizzuti, ottimi per i confetti; e qui ebbe origine la razza di buoi da fatica, alti, color del rame, chiamata modicana, caratteristici in Sicilia come i buoi bianchi nell'Umbria"

Così Guido Piovene nel suo celebre "Viaggio in Italia" ( Mondadori, 1957 ) rese omaggio alla mucca Modicana: un animale che ancor oggi connota con la sua presenza il paesaggio e la stessa cultura rurale della provincia ragusana.


Ritorno dalla fiera,
San Giacomo ( 1980 ),
fotografia di Giuseppe Leone,
opera citata

Prima di Piovene, altri autori avevano elogiato le qualità di questa mucca, diffusasi soprattutto nel territorio di Modica alla fine del secolo XIX, in coincidenza con la progressiva scomparsa della coltura del frumento.
Nel 1808, l'abate Paolo Balsamo nel suo "Giornale del viaggio fatto in Sicilia e particolarmente nella Contea di Modica" sottolineò "la bontà dei bestiami di Modica"; nel 1877, il barone pisano Sidney Sonnino in "Contadini di Sicilia" ricordò la "bella specie bovina conosciuta come razza Modicana".  


Modicane, San Giacomo ( 1982 )
fotografia di Giuseppe Leone,
opera citata

In passato, l'allevamento delle mucche Modicane ha rappresentato per la provincia iblea un esempio prezioso di antica cultura contadina, capace di trovare soluzioni alla gestione quotidiana di un mondo non ancora regolato dall'utilizzo delle tecnologie meccaniche o digitali.

"Più studiamo il mondo rurale del passato, più ne restiamo affascinati - ha scritto lo studioso e docente universitario catanese Giuseppe Licitra in "il Ragusano, storie e paesaggi dell'arte casearia" ( Federico Motta Editore, 1999 ), opera da cui ReportageSicilia ripropone alcune straordinarie immagini del fotografo Giuseppe Leone  - proprio perché riscopriamo, oltre che l'infinità di sacrifici affrontati dai contadini, in silenzio, giorno dopo giorno, l'incredibile competenza tecnica che ha permesso di affrontare problematiche anche più grandi di loro, con assoluta serenità, basandosi sull'esperienza fatta di piccoli gesti maturati in decenni, a volte in secoli di tradizioni..."

Spiega quindi Giuseppe Licitra, con un racconto che sorprende chi concepisce il lavoro oggi come la digitazione sulla tastiera di un computer:

"In media le 15-20 vacche della classica masseria iblea consentivano il nascere di un'intensa e diretta interazione tra il massaro e la singola vacca.
A ogni vacca, dopo il primo parto, veniva assegnato un nome e un posto in stalla; era cura del massaro legarle, mattina e sera, ognuna al proprio posto.


Modicane in contrada Castiglione ( 1956 ).
Fotografia di Giuseppe Leone, opera citata

Così come le operazioni di mungitura spesso con il vitello, prevedevano il blocco degli arti posteriori e delle coda con delle corte, 'nngarrunati', per motivi igienici e per evitare che la vacca, infastidendosi per qualsiasi motivo, rovesciasse il secchio del latte.
In sintesi, l'allevatore in tutte queste occasioni di contatto diretto chiamava la vacca per nome sia per imporre un ordine e anche per avvisarla ci ciò che si accingeva a effettuare.
L'animale non solo ubbidiva, ma riconosceva perfettamente anche l'umore del massaro manifestando lo stato di stress sia durante la mungitura sia nelle diverse occasioni di contatto.
Il massaro sceglieva la vacca 'leader', in realtà quella che tra tutte si era dimostrata tale, e le affidava un collare con la 'campana dominante'.
A più vacche venivano assegnate delle campane di qualità e dimensioni diverse, capaci di emettere suoni particolari accuratamente scelti dai massari più attenti.


Il rientro in stalla
nella masseria Musso a San Giacomo (1982 ).
Fotografia di Giuseppe Leone, opera citata

Gli anziani raccontano che dall'armonia dei suoni degli animali al pascolo il massaro riusciva a percepire il loro stato di benessere.
Era la vacca 'leader' a fare da guida, sia quando venivano mandate al pascolo sia al rientro.
Il massaro, per riportare le vacche in stalla dopo il pascolo, se le chiuse erano molto lontane andava a cavallo, ma quando così non era, poteva permettersi di gridare, sopra il muro a secco più in vista, nella direzione del pascolo, il nome della vacca dominante per far sì che questa si rimettesse in cammino verso il rientro, seguita in fila indiana da tutte le altre..."





lunedì 5 ottobre 2015

SICILIANDO














"Ci vado spesso in Sicilia.
L'impatto visivo è sostanziale per come scrivo e quel paesaggio mi sembrava perfetto.
Cose meravigliose accanto all'abusivismo più sconfinato, posti perfetti accanto a posti abbandonati.
Se avessi dovuto fare un film non avrei dovuto toccare nulla.
Poi la Sicilia è un'isola: se non puoi muoverti, immaginerai qualsiasi cosa al di là del mare"
Niccolò Ammaniti 

LA FONDAZIONE DEL VILLAGGIO DI PERGUSA

Cinque immagini del borgo rurale ennese pubblicate nell'aprile del 1938 dalla rivista mensile "l'Ingegnere"


Una veduta panoramica del Villaggio Pergusa,
costruito dopo la bonifica delle zone paludose del lago, a partire dal 1935.
Il progetto originario, redatto dal Genio Civile di Enna,
prevedeva la costruzione di alloggi per un totale di 1500 residenti

"Il Duce ha trovato sulle rive del lago un paesino tutto nuovo, con una folla di contadini dalla numerosa figliolanza, ai quali Egli ha dato le chiavi delle case, che ora essi andranno ad abitare; ed ha trovato una folla di giovani spose, alle quali ha dato l'anello in acciaio in cambio di quello d'oro che esse diedero alla Patria in un giorno indimenticabile, quando il Popolo italiano mostrò, al pari della sua forza, il suo grandissimo cuore che palpitava d'orgoglio e di amore.
Tutte le giovani spose avevano l'abito bianco, le donne più anziane avevano indossato il costume paesano, e tutte avevano doni da offrire a Mussolini, piccoli doni che erano degni, per il modo come erano offerti, di essere graditi dal Duce.


Un altro scatto del Villaggio,
dominato dalla mole di una chiesa e di un alto campanile

Mussolini, mentre la folla lo acclamava con una indicibile passione, ha visitato gli edifici pubblici del paese o due o tre case di contadini; poi ha assistito alla benedizione nuziale, durante la quale sono stati dati alle donne gli anelli in acciaio; infine, ha chiesto le più minute informazioni sugli uomini e sulle cose, suscitando, come sempre, fra gli ascoltatori la più profonda meraviglia per la perfetta conoscenza delle varie questioni.
Poi è giunto a Enna, accompagnato dalla gratitudine dei contadini di Pergusa, ai quali ha dato la buona terra e la linda casa e, soprattutto, il pegno del suo vigile amore..."

Così la stucchevole retorica giornalistica che racconta le vicende dei regimi dittatoriali guidò la prosa di Alfio Russo nella cronaca dell'arrivo di Benito Mussolini nel Villaggio Pergusa.


Uno scorcio della piazza principale del Villaggio Pergusa.
Si riconoscono la facciata della chiesa
e l'edificio adibito a scuola.
Il borgo nacque per accogliere i contadini della zona
e gli abitanti di decine di grotte della periferia ennese

La sua presenza in quest'angolo di Sicilia - oggetto di un lungo reportage sulla prima pagina de "La Stampa" del 15 agosto 1937 - fu legata all'inaugurazione del villaggio rurale costruito l'anno precedente a poca distanza dal lago, a circa 12 chilometri da Enna.
Le zone lacustri del bacino salmastro erano state bonificate a partire dal 1935, eliminando i focolai di malaria e favorendo le attività di pascolo e cerealicole. 
La costruzione del nuovo centro rurale di Pergusa fu realizzata dall'Ufficio del Genio Civile di Enna, che vi destinò - oltre ai contadini della zona - decine di famiglie fino ad allora alloggiate in centinaia di grotte alla periferia del capoluogo.


Una veduta dell'area del lago di Pergusa
sottoposta alla bonifica

Le fotografie e le notizie sul borgo di Pergusa ora riproposte da ReportageSicilia sono tratte dalla rivista mensile "L'Ingegnere", edita nell'aprile del 1938 dal Sindacato Nazionale Fascista Ingegneri.

"I lavori vennero eseguiti dal locale Ufficio del Genio Civile - scriveva l'ingegnere C. Roccatelli - con una rapidità eccezionale: in soli sei mesi si è costruito il nuovo centro con i suoi edifici principali ed un primo nucleo di abitazioni ( nucleo che dovrà estendersi sino a comprendere una popolazione di 1500 abitanti ); si è eseguita la bonifica del lago, mediante colmate, banchinamenti, piantagioni e strade e si sono messe a coltura nuove terre.
Il nuovo abitato, a carattere estensivo, si snoda intorno alla piazza principale sulla quale si raccolgono i più importanti edifici: la chiesa, la Casa delle Organizzazioni Fasciste e della delegazione Podestarile, le scuole, la stazione sanitaria e l'infermeria, la caserma dei RR.CC.
Le abitazioni, a tipo rurale, sono disposte in casette isolate di un sono piano.
Queste comprendono due alloggi ciascuna e, separate da portici, la stalla e gli accessori.
Ogni alloggio ha un appezzamento di 1000 mq. di terreno, oltre a quelli che le singole famiglie hanno già ottenuto in coltivazione"


Sistemazione stradale e piantagione di alberi
lungo le sponde sino a pochi anni prima paludose


La crescita demografica del Villaggio Pergusa non fu in linea con le aspettative dei suoi progettisti; secondo le Guide Rosse della Sicilia del TCI, nel 1953 i residenti erano infatti 278, saliti ad appena 548 nel 1968.