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mercoledì 28 agosto 2019

IMPRESSIONI SICILIANE DI DOMENICO REA

Il mare di Capo Zafferano,
nel palermitano.
Fotografie di Ernesto Oliva-ReportageSicilia

Per sua stessa ammissione persona "piuttosto sedentaria", lo scrittore napoletano Domenico Rea ebbe modo di visitare più volte la Sicilia.
Da questa frequentazione, Rea trasse lo spunto per descrivere il mercato palermitano della Vucciria per la rivista tedesca di viaggi e turismo "Merian"; ed un tour isolano, nel 1960, gli offrì in seguito l'occasione di pubblicare un articolo sulla rivista "Sicilia" dato alle stampe nel dicembre di tre anni dopo, con il semplice titolo "In Sicilia"
Quel viaggio, trasmise a Rea l'impressione di un'Isola in cui la lentezza delle trasformazioni sociali e culturali allontanava in parte l'illusione di massa suscitata dalla dorata ed omologante patina del boom economico italiano: 

"Abbiamo assistito in questi anni alla manomissione di piccole e grandi città, massime in Italia dove il legame con l'antico vien ritenuto un anacronismo reazionario, un indice di miseria da dimenticare.
Per questo motivo preferisco restare a Napoli, dove natura e passioni hanno ancora un peso e toccano momenti che riescono a far scattare forze meno anonime.
So invece cosa mi aspetta a Torino o a Milano.
Incombe sempre il pericolo di non ritrovare alcuni luoghi, forse i più cari, e di ritrovarsi in una città-esperimento, in una città-studio-progetto in cui il benessere è al limite del livellamento e a un più intenso livellamento corrisponde un benessere maggiore.
E' in questa delusione che spunta come un raggio di sole la Sicilia.
Rimando di giorno in giorno le mie andate a Milano e persino a Roma.
Un sapore amaro mi si diffonde in bocca.
Eppure, in un'ora e mezzo o in otto al massimo potrei raggiungere l'una o l'altra città.
Per raggiungere la Sicilia e i suoi principali punti di sbarco, Catania, via aerea, o Palermo, via mare, è necessario un impegno, una buona dose di volontà.
Non si può dire per la Sicilia come per Bari o Firenze:
'Vado un momento e torno'
Raggiungere l'Isola implica ancora l'idea di un viaggio, di un distacco piuttosto lungo.
Chi ha poi scarse simpatie per i voli e preferisce la strada ferrata, s'impegna a restare in treno una notte e un giorno e se sceglie la via del mare, una notte e un risveglio alquanto piscatorio.


Ostacoli quasi insormontabili per la mia natura delusa e tendente a una pigra contemplazione; ostacoli che, per motivi di simpatia e, direi, d'esaltazione - sollecitata dall'idea-Sicilia - si trasformano in una sorta di piacere, di pedaggio da pagare proprio per raggiungere l'altra sponda e i reali paradisi che si spera e che effettivamente si possono ammirare colà giunti..."

Poi Domenico Rea scrive della Vucciria e del Mercato di Catania.
Il primo, è allora al centro delle pressioni di quella speculazione edilizia che nella Palermo degli anni Cinquanta e Sessanta abbandonò il centro storico al degrado e all'abbandono:  

"La Vucciria di Palermo o il Mercato di Catania, per citare due punti di Sicilia di due città antagoniste e aspiranti al primato, sia pure in forme più modeste, partecipano di un medesimo spirito mediterraneo.
Vi si respira lo stesso odore di sedimentate spezie che spingono la memoria verso lontani usi di periodi forse infelicissimi della società umana, ma dal tempo resi affascinanti...
Una decina di anni fa a Palermo si dava per certo, per ragioni di scempio edilizio, l'abbattimento della Vucciria.
Qualche fiero uomo di sinistra la considerava una vergogna.
Qualche uomo di destra fantasticava sugli eventuali sacchi di marenghi che vi avrebbe potuto guadagnare.
Secondo me invece si sarebbe compiuto un vandalismo inutile.
Pochi altri Paesi come la Sicilia ( una specie di nazione nella Nazione; non sono un separatista; ma ritengo la Sicilia una terra italianissima al limite di essere anche qualche altra cosa d'italianamente diverso ) possono osare di mantenere efficienti usi e costumi, luoghi e paesi legati al suo passato..."




Il viaggio del 1960 trasmise tuttavia a Rea l'impressione di un'Isola in piena trasformazione economica, frutto di uno sviluppo industriale che in quegli anni stava introducendo nel suo paesaggio i giganteschi impianti petrolchimici.
La rivoluzione tecnologica - che in seguito avrebbe rivelato tutti i suoi guasti ambientali e sociali - parve allo scrittore napoletano capace di cancellare dalla realtà siciliana il retaggio esistenziale dei temi sollevati dagli scrittori di un recente passato.
Una trasformazione della Sicilia che in Domenico Rea sembra provocare una  certa inquietudine:  

"Nel 1960 feci un lento viaggio da Messina a Siracusa, per Acicastello, Acitrezza, Lentini e Carlentini, fino a Regalbuto - un paese come un insetto folgorato dal sole - e a Enna.
Volevo rendere omaggio ai fantasmi di Verga e di Pirandello.
Volevo verificare da presso e fino a qual punto l'ossessione pirandelliana era una categoria della psicologia isolana e il miraggio verghiano una condizione permanente.
Devo confessare che via via finii per dimenticare lo scopo che mi aveva spinto al viaggio.
Ad Acitrezza e ad Acicastello non vi era traccia di Malavoglia.
Nel castello locale di notte si ballava a suon di jazz.
Un bellissimo pescatore, a cui era nota la storia della grande famiglia della letteratura italiana, la ricordò con un sorriso.
Un uomo piuttosto dimesso, alla mia ricerca di notizie sul romanzo verghiano, rispose di non saperne nulla.
Ricordo che quella sera stessa scrissi sul mio taccuino:

'La rassegnazione qui è di certo finita' 

Tutta quella fascia costiera fino a Siracusa o era entrata in una forsennata attività di lavoro o fremeva per entrarci e per diventarne protagonista.
Il mito del petrolio brillava sinistramente nell'aria..."

sabato 24 agosto 2019

SARDARE, ANCIUVARE E CONZI A SCOGLITTI

Pescatori e barche a Scoglitti.
La fotografia, accreditata "Scalone",
illustrò un reportage di Pietro Gulino pubblicato
dalla rivista "le Vie d'Italia" nel febbraio del 1951

Pescatori famosi di spugne nordafricane ma soprattutto di sarde ed acciughe, quelli di Scoglitti, nella prima metà del Novecento.
Ancora nel 1951, il giornalista vittoriese Pietro Gulino poteva scrivere in "Vittoria, città della Sicilia jonica" ( "le Vie d'Italia", TCI, febbraio 1951 ) che

"Particolare rilievo ha l'industria del pesce nella frazione di Scoglitti, che dista circa dodici chilometri da Vittoria.
E' un piccolo centro di pescatori, sul Mare Africano, che qui lambisce una piccola spiaggia sabbiosa"

Dieci anni dopo questa descrizione, il critico d'arte Enzo Maganuco avrebbe aggiunto altri oleografici dettagli sull'ambiente di Scoglitti, in seguito quasi del tutto stravolti dalla proliferazione di un'invadente edilizia turistica:

"Oltre i carri e le tavolette degli ex voto meritano particolare ricordo le decorazioni delle barche da pesca: le 'sardare', le 'anciuvare', le barche da 'conzo'.
Sono tutte barche snelle come gazzelle, fatte per la pesca di corsa, con vele triangolari, riflettenti nella sequenza delle decorazioni ora paganeggianti ora cristianeggianti sulla stessa chiglia, l'iconografia delle barche catanesi: solo nello schema compositivo, però.



Le 'sardare' di Scoglitti portano trecce e ramature, sirene e genietti, cuori trafitti dal pugnale e un occhio sul bordo di prua come nelle barche della Grecia classica; tutto è espresso con una tavolozza a toni gridellini e verdini, con accordi in cremisi che fanno sembrare la barca, nelle mattinate trasparenti del mare africano, fra Scoglitti, Punta Secca e Marina di Ragusa, un grande codice miniato sospeso e riflesso sulle acque iridescenti e serene" 

lunedì 19 agosto 2019

IL "FAVOLOSO" CIMITERO DI PALAZZOLO ACREIDE

Il cimitero monumentale
di Palazzolo Acreide.
La fotografia venne pubblicata nell'estate del 1959
dal settimanale "Tempo"

La sua bellezza monumentale ha meritato l'inserimento fra i luoghi dell'Isola da non perdere che il professore, scrittore e giornalista 
Enzo Di Pasquale ha descritto nel 2014 in "Il giro della Sicilia in 501 luoghi" ( Newton Compton Editori ).
Il cimitero di Palazzolo Acreide è infatti un sorprendente esempio di giardino di fiori e piante scolpite nella pietra calcarea iblea, a corredo di sontuose cappelle gentilizie costruite agli inizi del Novecento.
Tale grandiosità architettonica colpì il settimanale "Tempo", che nell'estate del 1959 pubblicò la fotografia del cimitero ora riproposta da ReportageSicilia.
Nella didascalia si legge:

"Il favoloso cimitero di Palazzolo Acreide, situato su un poggio, domina la vallata con le sue cuspidi alte sino a 18 metri.
Questa è la terra dove la morte è sempre grandiosa, in tutto il suo apparato scenico, ed il profondo culto che se ne ha giustifica cappelle funerarie gigantesche, in un centro di soli undicimila abitanti"


venerdì 16 agosto 2019

NOTORIETA' E MISTERO DELL'ARCHITETTO STUALKER A MONDELLO

Una vista dall'alto
dell'Antico Stabilimento Balneare di Mondello.
Fotografia di Ernesto Oliva-ReportageSicilia

Austriaco per alcuni; belga - più giustamente, forse - per altri.
Intorno al nome di Rudolph Stualker - altrove Rudolf o Rodolfo - si sviluppa un piccolo mistero nella ben studiata ed approfondita storia dell'architettura siciliana del primo Novecento.
A Stualker viene comunemente attribuita la progettazione, nel 1910, del notissimo Antico Stabilimento Balneare di Mondello: una costruzione diventata un caratteristico elemento edilizio del paesaggio palermitano. 
All'opera avrebbe contribuito un secondo architetto di nazionalità belga, Lucien Francois, del quale almeno si conoscono le date di nascita e morte ( 1894-1983 ) e l'intervento in alcuni villini del "liberty" cittadino.
Poco si sa invece di Stualker, il cui nome pure viene storicamente legato ad un'opera che Ettore Sessa ha definito "una delle più estreme materializzazioni in Italia dell'ideale di sedi fantastiche deputate ai rituali mondani della civilisation du plaisir".
Nel documentato saggio "L'Antico Stabilimento Balneare di Mondello", scritto da Massimiliano Marafon Pecoraro e Gaetano Rubbino ( Krea, 2009 ), il mistero sulla figura di Rudolph o Rudolf o Rodolfo Stualker viene rilanciato con indicazioni che ne mettono anche in dubbio una relazione con la progettazione dell'edificio:

" ( A Stualker ) tradizionalmente sono attribuiti il viadotto per la variante alla linea tramviaria di Pallavicino, l'edificio dei servizi igienici pubblici adiacente allo Stabilimento e lo stesso Stabilimento balneare, secondo alcuni cultori della storia mondellana risultato dell'adattamento di un progetto originariamente per Ostenda.
Ma proprio sulla paternità di Stualker carente è la documentazione che potrebbe consentire di attribuirgli con certezza tali realizzazioni..."


  

lunedì 12 agosto 2019

IL PIU' MEDITERRANEO DEI PORTI SICILIANI SECONDO GUIDO PIOVENE

Il porto di Trapani.
La fotografia è tratta dalla rivista "Sicilia",
edita dall'assessorato regionale al Turismo
nel luglio del 1956

"Nata dalla raccolta di gente eterogenea dal mare e dall'interno, che in antico convenne tra le paludi prosciugate, ponte tra l'Europa e l'Africa, tra l'Europa e il vicino Oriente - ha scritto Guido Piovene in "Viaggio in Italia" ( Arnoldo Mondadori Editore, 1957 ) - Trapani conserva nonostante gli edifici nuovi e i rifacimenti vistosi l'aspetto quasi senza tempo del porto mediterraneo; è anzi il più mediterraneo di tutti i porti siciliani...
Questa città mediterranea, dove i segni esteriori dell'Oriente sono molto meno cospicui che in altre parti dell'isola, conserva forse nell'intimo della vita caratteristiche orientali come nessun'altra città siciliana..." 

LE BICICLETTE DI PIRAINO DIVENTATE SCULTURE ALL'APERTO

Le biciclette di Piraino,nel messinese.
Fotografie Ernesto Oliva-ReportageSicilia

Si salgono i gradini tra silenziose case in pietra con giardini verdi di rigogliose piante grasse e fiori dalle tonalità accese: un piccolo universo urbano dove la percezione dello scorrere del tempo è ancora affidata al naturale sorgere e tramontare del sole.
La parte alta del paese messinese di Piraino - quasi a picco sulla distesa di mare che lo separa dalle isole Eolie - ha la stessa forza di attrazione di un fossile di conchiglia perfettamente incastonato su una roccia; in questo luogo le tracce della presenza quotidiana dell'uomo sono complementari alle forme di un paesaggio poco o nulla cambiato nei secoli.



Il labirintico cammino sui gradini che conducono da una casa all'altra si ferma ai piedi di un'alta torre che anche qui - come in altre parti della Sicilia - non è sfuggita alla romantica denominazione di "saracena".
Al suo fianco, su una terrazza arredata con oggetti frutto di un recupero collettivo - panchine di assi di legno, innaffiatoi in ferro, vasi crepati in coccio pesto, attrezzi per il lavoro agricolo in disuso - qualcuno ha trasformato due vecchie biciclette in un'installazione di arte contemporanea all'aperto.



Esposte da anni ai raggi del sole ed all'azione delle intemperie, sono diventate sculture inamovibili di metallo arrugginito e gomma rinsecchita; e questa trasformazione in fossili della meccanica umana fa ora di queste biciclette parte integrante dello storico paesaggio di Piraino.    
  

sabato 10 agosto 2019

L'IMPOSSIBILE APPUNTAMENTO A PALERMO

Mercato delle pulci a Palermo.
La fotografia è di Melo Minnella
e venne pubblicata dalla rivista "Sicilia"
nel marzo del 1962

Qualche anno fa incontrai nel mese di maggio un professore palermitano molto conosciuto in città per le sue ricerche sulla psiche dei mafiosi.
Dovevamo discutere la bozza di un documentario che avrebbe richiesto un lungo periodo di preparazione; nel frattempo, avrei potuto approfondire i contenuti di un paio di saggi da lui scritti sull'argomento.
Conclusa la discussione e prima dei saluti di rito, chiesi quando ci saremmo potuti rivedere.
Il professore prese un'agenda, cominciò a sfogliarne le pagine piene di appuntamenti scritti con un inchiostro rosso e arrivato quasi al termine dei fogli mi disse:

"Ci vedremo martedi 12 dicembre.
Facciamo alle 18.30"

Rimasi impietrito per quell'appuntamento fissato con irrevocabile precisione ben sette mesi prima.
Pensai che durante quei 200 giorni di attesa avrei potuto non aver più voglia di realizzare quel documentario, o che quel giorno di dicembre potevo essere ammalato, in balia dei sudori della febbre; oppure, che avrei potuto desiderare di prendermi proprio quel pomeriggio qualche ora di totale relax.
Spiazzato dalla proposta del professore, non trovai modo di rispondere che un laconico "va bene".
Pronunciato il mio assenso e salutato quell'uomo dalla penna rossa, pensai istintivamente ad una scusa grazie alla quale avrei fatto in seguito saltare l'appuntamento estortomi con un anticipo che mi era apparso intollerabile.
L'intenzione trovò piena applicazione e la pretesa di un impegno preso con tanto anticipo venne così punita.
Questa storiella mi è tornata alla mente leggendo una pagina scritta dalla giornalista inglese Gay Marks nel libro di memorie palermitane "Le mie isole. Divagazioni semiserie di un'inglese in Sicilia", pubblicato da Edizioni La Zisa nel 1988.
La Marks - residente a Palermo per oltre vent'anni e conduttrice di programmi radiofonici per la RAI e la BBC - sottolineò con un certo humor la ritrosia dei palermitani alla puntualità:
   
"Non ho mai conosciuto nessuno a Palermo - dico nessuno - che sia stato capace di arrivare puntuale e sto parlando di gente di ogni ceto sociale e di ogni età.
E' quasi come se la precisione fosse una cosa della quale vergognarsi, un atteggiamento da cafone; colui o colei che arriva puntuale all'appuntamento ( io per esempio ) è un pò da compatire e comunque da non prendere troppo sul serio.
Più affascinanti ancora però sono le scuse che vengono escogitate per giustificare il perenne ritardo; scuse fra l'altro che entrambe le parti riconoscono come delle bugie.



Si cita per esempio il traffico, il lavoro, gli impegni di famiglia e così via.
Diventa una specie di gioco di inventiva e di fantasia...
Ormai sono persuasa che sia molto difficile inchiodare il siciliano e pressoché impossibile strappargli un orario o una data precisa.
'Ci vediamo alle sei?' per esempio, pur essendo una proposta del tutto innocua ed innocente, lo metterà subito in crisi.
'No, no' ti risponderà in preda al panico, 'non so gli impegni.
Guarda, ti telefono dopo pranzo, così ci mettiamo d'accordo'..."

mercoledì 7 agosto 2019

IL CIMITERO DEI FEROCI CANI DI VILLA PICCOLO

Il cimitero dei cani
di villa Piccolo di Calanovella,
a Capo d'Orlando.
Fotografie Ernesto Oliva-ReportageSicilia

"Sono tutti da guardia, e troppe volte, per avere dimenticato questa formalità, arrivando qui ad accogliere i miei ospiti, non riuscivo a vederli.
Eran tutti arrampicati sugli alberi, compreso qualche vecchierello con l'artrite: i miei cani avevano fatto il miracolo..."

Con queste parole la giornalista e saggista Camilla Cederna venne accolta dal poeta Lucio Piccolo di Calanovella durante la visita della villa di famiglia sulle colline messinesi di Capo d'Orlando che guardano le Eolie.
Il racconto di quell'incontro fra la Cederna ed il cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa venne pubblicato nel 1966 in "Signore & Signori", edito da Longanesi.
Del rapporto fra i cani di famiglia ed il barone autore di "Canti barocchi" si trova traccia nelle cronache di molti altri scrittori e viaggiatori che hanno visitato la villa di Capo d'Orlando, da tempo sede di una Fondazione.
Al suo interno, un cartello avvisa oggi che i cani sono ben accolti nel vasto giardino che ospita il singolare cimitero dei meticci che un tempo terrorizzavano i visitatori di casa Piccolo.



Dentro un recinto rettangolare costruito con mattoni si contano 36 tombe ricoperte da aghi di pino e sovrastate da piccole lapidi in marmo; in ognuna, è scolpito il nome dei cani defunti sino alla morte di Lucio Piccolo.
La visita di questo singolare camposanto - insieme a quella della villa e del resto del vastissimo giardino - permette di avvicinarsi al mondo del fantastico e dell'esoterico che accompagnò l'esistenza di Lucio Piccolo e dei fratelli Casimiro e Agata Giovanna: un universo un pò opprimente, intriso di riferimenti poetici ed extrasensoriali molto lontani dalla luce mediterranea che avvolge la villa di Capo d'Orlando.
Del cimitero dei feroci cani di casa Piccolo ha così scritto Stefano Malatesta in "Il cane che andava per mare e altri eccentrici siciliani" ( Neri Pozza Editore, 2000 ):
  
"Il cimitero dei cani, una delle tappe obbligate per i visitatori continentali che venivano a trovare gli eccentrici fratelli, ha preso un aspetto nobilmente abbandonato.
Ma si leggono ancora sulle lapidi storte i nomi mediorientali degli animali, Alì, Mustafà, Emir, Muhammed, Pascià, insieme con quelli occidentali di Puck, Tock e Crabb.



Erano bestie enormi, incroci tra razze selezionate in base al peso e alla robustezza, che di notte venivano lasciate libere, e andavano a sgozzare le pecore nei dintorni, ritornando con i musi sporchi di sangue.
Allora niente pane fritto nell'origano, il loro pasto preferito.
Quando morivano, si celebrava un tenero funerale e i Piccolo s'inginocchiavano a pregare su degli inginocchiatoi.
Uno di questi inginocchiatoi me l'ha mostrato Calogero Bellini che è stato cameriere per vent'anni nella villa.
I cani avevano importanza smisurata nella vita affettiva e psichica dei fratelli.
Casimiro confessò a Vanni Roncisvalle, un giornalista siciliano venuto a girare un documentario sulla famiglia, di aver visto consecutivamente tre volte un cane morto da nove anni.
Due volte in carne ed ossa, la terza in trasparenza.
Poi il cane aveva fatto il giro della villa bussando a tutte le porte: "E' stato visto anche dallo chauffeur".



Bisogna dire che il barone dormiva di giorno e di notte girava per le stanze con un ingombrante macchina fotografica nella speranza di riprendere spiriti, anime vaganti di scomparsi, apparenze di umani e di animali defunti da tempo.
Di animo gentile, si preoccupava di lasciare bacinelle ricolme d'acqua lungo i corridoi, nel caso che le presenze, affaticate nello sforzo di materializzarsi, avessero avuto sete"

domenica 4 agosto 2019

UNA PAGINA DI SCIASCIA SULLA DIFFIDENZA DEI SICILIANI VERSO IL MARE

Pescatori della borgata palermitana
di San Nicola l'Arena.
La fotografia è tratta
dalla rivista "Siciliamondo"
pubblicata nel marzo del 1959

Molti anni prima che le coste ed i mari dell'Isola diventassero lo scenario di un epocale fenomeno di migrazione, Leonardo Sciascia sottolineò il rapporto di diffidenza fra i siciliani e l'ambiente marino che ne circonda le loro esistenze.
L'osservazione di Sciascia può trovare almeno due riscontri di carattere architettonico e letterario: la presenza nell'Isola di un articolato sistema di torri costiere difensive - costruite per lo più nel Cinquecento e nel Seicento - e la tematica del romanzo "I Malavoglia", sviluppata intorno all'idea della natura matrigna del mare nei confronti delle speranze degli uomini.
Il pensiero di Sciascia trovò espressione nell'introduzione scritta nel 1968 per l'opera di Errico Ascione ed Italo Insolera "Coste d'Italia, la Sicilia", edita dall'ENI

"1039 chilometri di coste, 440 sul mare Tirreno, 312 sul mare d'Africa, 287 sullo Jonio: ma questa grande isola del Mediterraneo, nel suo modo di essere, nella sua vita - si legge nell'introduzione - sembra tutta rivolta all'interno, aggrappata agli altipiani e alle montagne, intenta a sottrarsi al mare e ad escluderlo dietro un sipario di alture o di mura, per darsi l'illusione quanto più è possibile completa che il mare non esista ( se non come idea calata in metafora nelle messi di ogni anno ), che la Sicilia non è un'isola.
Che è come nascondere la testa nella sabbia: a non vedere il mare, e che così il mare non ci veda.
Ma il mare ci vede.



E sulle sue onde porta alle nostre spiagge i cavalieri berberi e normanni, i militi longobardi, gli esosi baroni di Carlo d'Angiò, gli avventurieri che vengono dall'avara povertà di Catalogna, l'armata di Carlo V e quella del duca di Vivonne, gli austriaci, i garibaldini, i piemontesi, le truppe di Patton e Montgomery.
E porta, continuo flagello per secoli, i pirati algerini che devastano, depredano, rapiscono.
Il mare è la perpetua insicurezza della Sicilia, l'infido destino; e perciò anche quando è intrinsecamente parte della sua realtà, vita e ricchezza quotidiana, il popolo raramente lo canta o lo assume in un proverbio, in un simbolo; e le rare volte sempre con un fondo di spavento più che di stupore.



'Lu mari è amaru' ( il mare è amaro ).
'Loda lu mari, e afferrati a li giummarri' ( loda il mare, ma afferrati alle corde ).
'Cui pò jiri pri terra, nun vaja pri mari' ( chi può andare per terra, non vada per mare ).
'Mari, focu e fimmini, Diu nni scanza' ( mare fuoco e donne, Dio ci salvi ).
'Cui nun sapi prigari, vaja a mari' ( chi non sa pregare, vada a mare ).
E non è, quest'ultimo proverbio, dettato dalla meraviglia e dal rapimento: chi andrà a mare non apprenderà a pregare nel senso della lode, ma nel senso della paura e superstizione..."