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domenica 31 luglio 2016

DISEGNI DI SICILIA


SANTO MARINO, "Faraglione ad Aci", 1961

giovedì 28 luglio 2016

LA CHIESETTA DI MARIA SANTISSIMA GUARNERI A CEFALU'

Solitario e perfettamente inserito nel paesaggio agreste da cui prese forma agli inizi del Novecento, l'edificio racconta un capitolo di storia devozionale delle comunità nelle Madonie

La facciata di Maria Santissima Guarneri,
ai margini di un bosco nel territorio di Cefalù.
La costruzione dell'edificio risale al 1909.
Le fotografie del post sono di ReportageSicilia

 Il territorio delle Madonie vanta un patrimonio storico, artistico e monumentale cresciuto nei secoli in stretto rapporto con le ricchezze ambientali ancora oggi presenti in quest'area della provincia di Palermo.
Accanto agli esempi più noti e preziosi dell'architettura dei centri urbani - da Castelbuono alle Petralie, da Gangi a Collesano, da Polizzi Generosa ad Isnello - esistono molti edifici così detti "minori", testimoni di quella civiltà agreste e pastorale che ha segnato sino a qualche decennio fa la vita quotidiana madonita.





Uno di questi esempi è la piccola chiesa di Maria Santissima di Guarneri, costruita a partire dal 1909 ai margini dell'omonimo bosco nel territorio di Cefalù.
La costruzione dell'edificio - con le sue linee razionali che poco concedono all'elemento decorativo - venne promossa dalla famiglia Di Francesca, proprietaria del terreno.
Lo stretto legame con le più "colte" matrici architettoniche cefaludesi è suggerito dalla presenza di due piccole torri campanarie, sul modello della chiesa-fortezza del Duomo di Cefalù ( un motivo presente anche nella chiesa del Santuario di Gibilmanna ).


  
La chiesetta - dipendente dalla parrocchia della frazione di Sant'Ambrogio - diventò all'epoca il luogo di culto per decine di famiglie di contadini, allevatori e pastori altrimenti tagliati fuori dalla possibilità di frequentare agevolmente un luogo di preghiera e devozione.




Maria Santissima di Guarneri - collocata ai margini di un bosco quasi integro e con una magnifica vista sul Tirreno e sul cono di Alicudi - si pone così come un modello di architettura religiosa siciliana nata e pensata agli inizi del Novecento in funzione dei bisogni di una piccola comunità di persone.




Questa vocazione coinvolge il visitatore che si imbatta nella chiesetta sia per mirata curiosità sia dopo un girovagare senza precisa meta; in entrambi i casi, difficilmente sarà possibile rinunciare ad una sosta ed al pensiero dello strettissimo legame fra l'edificio e l'identità paesaggistica e umana del suo territorio. 

   

mercoledì 27 luglio 2016

IL RELITTO "MALEDETTO" DELLA SECCA DI CAPISTELLO

Nel luglio del 1969, due studiosi tedeschi persero la vita a Lipari durante un'immersione su un relitto romano carico di anfore e vasellame. 
Un discusso reportage della "Domenica del Corriere" raccontò quella tragedia

Un gruppo di anfore sui fondali delle Eolie.
La scoperta di un sito archeologico
fra Lipari e Vulcano nel 1966 diede il via
ad una tragica vicenda di depredazione ed incidenti mortali.
Quello più grave, tre anni dopo, avrebbe coinvolto
un'equipe dell'Istituto Archeologico Germanico di Roma.
ReportageSicilia ripropone un articolo e le fotografie
pubblicate il 7 ottobre del 1969
dal settimanale "Domenica del Corriere"

Una verità non certificata indica nel 1966 l'anno della scoperta di una nave naufragata intorno al 300 avanti Cristo sul versante orientale dell'isola di Lipari.
Fu quello un rinvenimento destinato a scrivere una delle pagine più ambigue nella storia dell'archeologia sottomarina siciliana, ancor oggi fonte di scoperte di eccezionale valore storico-artistico.
Sparso su un fondale sabbioso ed inclinato sino alla profondità di 108 metri, su un'area stimata in 1200 mq, venne allora individuato il carico di anfore e ceramiche a vernice nera di un'imbarcazione colata a picco dopo avere urtato sulla Secca di Capistello.
La scoperta - attribuita ai sub Giovanni e Beppe Michelini, Enzo Sole e Santo Vinciguerra, in quegli anni cacciatori più o meno ufficiali di corallo e di reperti nei mari siciliani - avrebbe dato inizio ad una lunga serie di depredazioni ed a tragiche vicende di morte, tali da attribuire a quel relitto la qualifica di "maledetto".
Inizialmente, la definizione prese corpo dopo la morte di due sub:  il tedesco Pit Uwe Nungerhofer ed il milanese Giancarlo Pravettoni.


Il gruppo di sub eoliano che avrebbe scoperto per primo
il relitto romano della Secca di Capistello.
Ne fecero parte Santo Vinciguerra,
Giovanni e Beppe Michelini ed Enzo Sole 

Secondo indicazioni mai confermate, alla fine degli anni Sessanta avevano tentato di strappare piatti ed altri oggetti da quel carico finito in fondo al mare delle Eolie.
Ad assegnare definitivamente la sinistra fama del relitto fu, l'8 luglio del 1969, l'incidente costato la vita a due componenti dell'Istituto Archeologico Germanico di Roma: il professore Helmuth Schlager, 45 anni, vicedirettore dell'Istituto, e il suo assistente Udo Graf, di 27, entrambi di Monaco di Baviera.
Un terzo studioso, Karl Preuss, studente di architettura poi indicato come inconsapevole responsabile della tragedia, sfuggì invece di un soffio alla morte.
L'incidente fu il drammatico epilogo di una caccia a quel prezioso carico, portata avanti in maniera clandestina prima e dopo le immersioni dell'equipe tedesca.



Fasi di un'immersione nei fondali delle Eolie
ed un'immagine di Santo Vinciguerra,
indicato come il sub che guidava all'epoca le attività
del gruppo di sommozzatori


Ad essere indicato come un trafugatore di anfore, piatti ed altro vasellame recuperato dal relitto della Secca di Capistello fu allora lo stesso capo riconosciuto dei sub locali, Santo Vinciguerra; una fama oggi contestata da Chico Paladino, figlio di Cecé, uno dei pionieri riconosciuti della subacquea siciliana, secondo cui dietro la vicenda accaduta a Lipari ci fu un intrigo ben più complesso.  
Vinciguerra era un personaggio allora assai conosciuto a Vulcano.
Legato sentimentalmente alla marchesa di Campolattaro - un'affascinante signora che aveva a lungo vissuto a Taormina - si occupava ufficialmente della gestione dell'Hotel Sables Noires.
In realtà, era più conosciuto per la sua abilità di cacciatore di cernie e di abile sub nelle profonde acque di Vulcano e di Lipari.




I tre componenti della spedizione tedesca
che l'8 luglio del 1969 furono protagonisti
della tragica immersione sul relitto della Secca di Capistello,
tutti studiosi dell'Istituto Archeologico Germanico di Roma.
Dall'alto in basso, Udo Graf, Helmuth Schlager e Karl Preuss,
unico sopravvissuto all'incidente



La vicenda - una drammatica "spy-story" degli abissi - venne così raccontata dal settimanale "Domenica del Corriere" il 7 ottobre del 1969, attribuendo a Vinciguerra ed altri sub locali il ruolo di razziatori:

"Il relitto maledetto - scrisse Giorgio Bensi nel reportage intitolato "La maledizione del tesoro sommerso"è suo e del suo gruppetto di amici, tutti subacquei di un'esperienza da far invidia ai reparti di sommozzatori di qualunque marina del mondo.
A Vulcano, Santo Vinciguerra, che ha sposato una ricca signora della nobiltà palermitana, la marchesa di Campolattaro, ha aperto un albergo ma è più facile trovarlo in acqua - o meglio sott'acqua - che non nell'amministrazione del suo hotel.
Non c'è nessuno che conosca i fondali delle Eolie come li conosce lui.
Il suo hobby, quasi più della pesca subacquea, è il recupero di qualsiasi cosa abbia un certo valore e si trovi sul fondo del mare.
i suoi amici hanno la stessa 'malattia': insieme formano il cosiddetto gruppo dei 'piranha' di Vulcano, noto per vari exploit nel campo dei ritrovamenti.
Il primo periodo della rapida opera di prelievo dal relitto di Capistello è stato da loro fatto senza alcun controllo scientifico e senza nemmeno le più elementari precauzioni legali.
Non avevano fatto sapere nulla per evitare di essere fermati da una qualsiasi autorità, ma contemporaneamente vendevano piatti ed anfore al migliore offerente dopo avere lavato ogni cosa sulla spiaggia, senza nemmeno nascondersi.
Se sono vere le indiscrezioni sono parecchie le autorità e gli uffici che possiedono piatti ed anfore regalo dei sub di Vinciguerra.
Proprio autorità e uffici che avrebbero dovuto intervenire a nome dello Stato per vedere di quale portata scientifica fosse il ritrovamento.


La cartina della "Domenica del Corriere"
con l'indicazione del luogo della scoperta del relitto
carico di anfore e vasellame

Tutto ciò avverrà però soltanto in un secondo tempo quando, nella storia dello sfruttamento della miniera sottomarina, si inserisce un altro gruppo di "piranha", quelli di Lipari.
Il loro servizio di spionaggio piazza alcuni uomini con cannocchiale sulle rocce e alla fine è in grado di sapere dove è il tesoro privato dei sub di Vinciguerra.
Si immergono anche loro, si verificano i primi screzi, poi, come è come non è, un giorno Santo Vinciguerra si trova bloccato dalla Guardia di Finanza mentre sbarca anfore e piatti antichi sul suolo di Milazzo.
Contemporaneamente i finanzieri irrompono, armi in pugno, nell'isola di Vulcano, accerchiano l'albero di Vinciguerra e scoprono un deposito da fare invidia a un museo.
E' la roba, appunto, che oggi colma una delle sale del museo di Lipari.
L'irruzione porta come conseguenza una denuncia: Santo Vinciguerra dovrà affrontare un processo per questo furto ai danni dello Stato.
Con lui è imputato uno dei suoi amici"

La prova del traffico di reperti archeologici in corso fra Vulcano e Lipari, secondo il settimale milanese, spinse chi avrebbe dovuto vigiliare sulla razzìa a trovare un rimedio alle depredazioni degli oggetti sui fondali battuti dai "pirahna".



Fu così che il professore Luigi Bernabò Brea, Soprintendente alle Antichità della Sicilia Orientale e studioso della civiltà delle Eolie, decise di promuovere una campagna di ricerca scientifica.
Dopo avere respinto l'offerta spropositata di una ditta americana - 100 milioni di lire per svolgere il lavoro - Bernabò Brea accetta quella del prestigioso Istituto Archeologico Germanico di Roma.
Il suo vicedirettore Schlager è stato pilota di aerei ed è un buon sommozzatore; una certa esperienza hanno anche Graf e Preuss che, con altri, saranno al fianco di Schlager nelle ricerche che l'Istituto Germanico si offre di patrocinare. 

"Al gruppo tedesco - scrive ancora Giorgio Bensiil professore Barnabo Brea affianca i sub di Vulcano.
Insieme italiani e tedeschi costruiscono le attrezzature.
Tutto è pronto per le immersioni quando il relitto maledetto, dopo Pit Nungerhofer, colpisce ancora con una vittima un giovane subacqueo milanese, Giancarlo Pravettoni.
Senza troppa esperienza, tenta anche lui di strappare qualche anfora alla nave sommersa.
Non si accorge che l'ossigeno del respiratore lentamente si esaurisce.
Passa dalla vita alla morte senza avvedersene.
Poi, come una tragica catena, ecco anche Santo in persona, con tutta la sua esperienza, rischiare la morte per embolia.
Lo salvano quando nessuno ci sperava più.
E' un drammatico avviso, quasi un avvertimento.
La leggenda del relitto maledetto lascia però indifferenti i tedeschi.



Schlager è troppo un uomo di scienza per impressionarsi di una superstizione del genere.
Udo Graf meno che mai.
Invece l''avvertimento' tocca anche loro la mattina del 6 luglio, quando Karl Preuss scende e si trova subito a mal partito per un improvviso guasto al suo respiratore.
Riemerge e cerca di capire cosa possa aver causato l'inconveniente.
E' lui il responsabile del materiale; è lui che deve preoccuparsi.
A questo punto una spiegazione su come siano questi respiratori s'impone.
Hanno un tubo che arriva alla bocca e che parte da una valvola, la quale, indossato l'apparecchio, viene a trovarsi sul petto del subacqueo.
A questa valvola arrivano due tubi, uno da ognuna delle bombole.
Questi tubi sono fissati alla valvola con delle fascette metalliche le quali si stringono ognuna con una vite in plastica.
Una di queste viti è saltata nel respiratore di Karl.
Si è spanata, ecco tutto.
Karl controlla gli apparecchi dei suoi compagni e trova le viti lente.
Decide di stringerle al massimo.
Non pensa che la pressione può deformare la plastica della vite.
Non pensa che ormai quelle viti possono cedere.
E' purtroppo quello che succederà l'indomani.


Rilievo dell'area di studio del relitto
realizzato nel 1977 e pubblicata da
"Il mare come museo diffuso", opera citata

Il primo respiratore a guastarsi la mattina dell'8 luglio è quello di Udo graf.
Graf è a 75 metri di profondità.
Helmuth Schlager è a 70 metri, Karl Preuss una decina di metri più su.
Stanno compiendo delle misurazioni sul relitto.
Graf si porta le mani sul boccaglio, dà un colpo di reni, si precipita verso Schlager non appena si rende conto che l'aria non gli arriva più.
Schlager lo vede e gli va incontro per soccorrerlo.
Vuole passargli il suo boccaglio, fare in modo che, in due, possano respirare dalle stesse bombole.
Ma Graf è terrorizzato.
La mancanza di esperienza ad una simile profondità si sta infatti rivelando decisiva.
Quando Graf e Schlager sono l'uno accanto all'altro ormai Graf è un uomo impazzito.
Strappa il tubo dalla bocca del professore e lo guasta irrimediabilmente.
Preuss riemerge, racconta.
Schlager muore in quegli stessi secondi.
Morto Graf, morto Schlager la spedizione tedesca rientra.
Preuss, interrogato dal pretore, mette a verbale quello che sa, ma senza dilungarsi troppo.
Gli altri tedeschi ripartono.
Per ordine della Capitaneria di Porto, la 'base' si chiude e la zona diventa vietata.
Ultimo, parte Preuss: è un uomo distrutto.
A Vulcano intanto i 'piranha' attendono.
Ogni tanto vanno fino alla base nonostante il divieto.
Girano, rientrano.
Ma che non scendano non c'è uno, a Vulcano, disposto a giurarlo.
Nonostante il divieto, nonostante la maledizione"


Un'anfora tratta dal relitto della nave romana
chiusa da un tappo in sughero.
L'immagine è tratta dall'opera "Il mare come museo diffuso",
opera citata


Nel 1976 - sette anni dopo i tragici fatti ricostruiti dalla "Domenica del Corriere" e contestati da Chico Paladino  - una completa esplorazione sul relitto "maledetto" venne compiuta dall'Institute of Nautical Archaeology e dalla Sub Sea Oil Service, con uomini e attrezzature d'eccezione.
La ricerca di vasellame ed anfore e delle strutture lignee del relitto, concluse nel 1978, diede questi risultati:

"Il fasciame - si legge nell'opera "Il mare come museo diffuso", a cura di Alessandra Nobili, Assessorato dei Beni Culturali ed Ambientali Regione Siciliana ( 2004 ) -  appariva semplice e non aveva nessun rivestimento protettivo in piombo; i madieri e le ordinate risultavano alternate.
Alcune parti del carico conservavano la posizione di stivaggio, con gruppi di anfore disposte verticalmente e pile di ceramica a vernice nera riposte negli interstizi.
Il carico risultava formato essenzialmente da anfore del tipo cosiddetto greco-italico per il trasporto del vino, contrassegnate da bolli e trattate internamente con resina.
Molte delle anfore erano ancora chiuse da un tappo di sughero sigillato con resina.
I bolli impressi sulle anfore riportano nomi greci come "Eùxenos" e Dìon".
Diverse centinaia i vasi a vernice nera di varie forme.
Per lo più si tratta di piatti, coppe decorate e lucerne su alto piede"


Anfora greco-italica della Secca di Capistello
e particolare del bollo alla base dell'ansa.
Anche questa immagine
è tratta dall'opera "Il mare come museo diffuso",
opera citata


Ancora ai nostri giorni, i fondali della Secca di Capistello restituiscono millenari tesori archeologici, come un braciere commemorativo di epoca romana recuperato nel 2015 dalla Soprintendenza del Mare di Sicilia.
Malgrado i 47 anni trascorsi dalla tragica immersione costata la vita ai due ricercatori tedeschi, quel tratto di mare eoliano continua tuttavia a godere di una fama sinistra tra i sub.
Ne fa fede anche la stessa pubblicazione scientifico-divulgativa di Alessandra Nobili, che ancor oggi ricorda come quel sito archeologico sottomarino sia denominato il "relitto maledetto".


  



    

venerdì 22 luglio 2016

LEONFORTE, PANNI STESI ED ARCHITETTURA IN UN'IMMAGINE DEL TCI

Scena di vita quotidiana a Leonforte
nei pressi della chiesa di San Giuseppe.
La fotografia venne pubblicata dal TCI
nell'opera "Attraverso l'Italia", edita nel 1961


Si devono alle pubblicazioni del Touring Club Italiano numerose fotografie del paesaggio siciliano, spesso in grado di fissare scorci e punti di vista non usuali dei luoghi dell'isola.
E' il caso dell'immagine di Leonforte riproposta da ReportageSicilia, tratta dall'opera "Sicilia" del TCI per la collana "Attraverso l'Italia", edita nel 1961.
La fotografia - firmata "Stefani, Milano" - mostra una parte del centro storico della cittadina ennese dominata dalla mole della settecentesca chiesa di San Giuseppe.
La scelta del soggetto offre così un'alternativa a quella ricorrente della Granfonte a 24 cannelle costruita nel Seicento da Nicolò Branciforte.  
La presenza di numerosi passanti in strada e soprattutto le lenzuola sciorinate al sole aggiungono all'immagine il valore di una testimonianza di vita quotidiana a Leonforte, databile alla metà degli anni Cinquanta.


martedì 19 luglio 2016

SICILIANDO












"A bordo di un treno ho incontrato un signore che mi ha raccontato di avere iniziato a viaggiare dopo essere rimasto vedovo. 
Era un pensionato; i figli erano adulti e lui non aveva problemi economici, né limiti di tempo per rimanere lontano da casa.
Mi spiegò di essere stato in Austria, in Francia ed in Germania; aveva visto molti luoghi diversi e assai interessanti.
Poi, aveva deciso di visitare la Sicilia.
'Basta percorrere 200 chilometri e quell'isola - mi disse - dimostra di essere un continente ricchissimo di cose e persone sorprendenti.
Solo in Sicilia - aggiunse - sono davvero cominciati i miei viaggi'"
Luca Doninelli

SEMENZARI ED ALTRI AMBULANTI DEL FESTINO

Un "semenzaro" dietro la sua bancarella
di semi e dolciumi nei giorni del Festino di Santa Rosalia.
Le fotografie del post sono di ReportageSicilia

Spingendo carrettini costruiti con l'ingegno dell'improvvisazione, c'è chi grida con ironia e con la promessa di trasparenza commerciale "pollanche, belle sono le pollanche: un euro, una pollanca"; e chi urla invece in faccia ad uno stranito turista inglese "mandorle: no dure, no dure", portando alla bocca indice e pollice e mimando il morso dei frutti ancora ricoperti dalla buccia verdolina. 


I venditori di mandorle

Poco distante, l'erede di generazioni palermitane di "semenzari" vende coppi di "càlia" ( ceci tostati ), "favi caliati" ( fave abbrustolite ), "nuciddi" ( nocciole ) e altre chincaglierie dolciarie, dall'aspetto e dai sapori antichi.


La grande pentola di "pannocchie o pollanche"

Dinanzi la Cattedrale, intanto, lo storico chiosco di bibite e gelati è il punto di ritrovo di avventori che lungo corso Vittorio Emanuele attendono l'arrivo del carro di Santa Rosalia, ancora fermo poco dopo Porta Nuova; la donna che serve i clienti - occhi scuri e sguardo che fissa severo il fotografo - ha acconciato la nerissima capigliatura con una coroncina che ricorda la secolare iconografia della "Santuzza".


Venditrice nel chiosco di bibite
dinanzi la Cattedrale

Così, in uno spazio compreso fra l'angolo meridionale di villa Bonanno e l'incrocio con la via Matteo Bonello, l'ultimo Festino di Santa Rosalia ha riproposto le figure dei venditori ambulanti che da 391 anni fanno parte a pieno titolo - insieme al carro ed ai figuranti - dell'ambientazione di questo evento popolar-religioso.
La presenza di questi ambulanti, infine, è il segno sia pure colorito dell'antica arte di arrangiarsi che garantisce ancor oggi il sostentamento di migliaia di famiglie palermitane: "miracoli" di vita quotidiana ai margini dei fasti nei giorni del Festino.




venerdì 15 luglio 2016

UN RITRATTO DI VITA USTICESE NEL 1955

La disagiata vita quotidiana e la sofferta convivenza dei 1255 isolani con i 130 detenuti al confino in un reportage di Flavio Colutta pubblicato dalla rivista "Le Vie d'Italia"

Sguardi di viaggiatori verso il profilo di Ustica.
Le fotografie dell'isola al largo della costa palermitana
riproposte da ReportageSicilia illustrano un articolo
pubblicato 61 anni fa dalla rivista "Le Vie d'Italia"

Nel dicembre del 1955 la rivista mensile del TCI "Le Vie d'Italia" pubblicò un reportage su Ustica.
L'isola 36 miglia al largo di Palermo non era allora ancora diventata una località turistica; i suoi 1255 abitanti - in gran parte contadini e pescatori - vivevano lontani da quel modello di evoluzione dei costumi e dei consumi che all'epoca stavano per cambiare il volto di gran parte dell'Italia.
Il resoconto del giornalista Flavio Colutta è così un documentato e dimenticato quadro delle condizioni di vita degli usticesi di sessant'anni fa, quando l'isola ospitava 130 confinati ed una cinquantina fra poliziotti e carabinieri.
Il cronista de "Le Vie d'Italia" diede subito conto delle suggestioni naturali dell'isola e della sua natura vulcanica, sulla quale l'uomo non ha potuto neppure imporre una qualche significativa opera architettonica:

"Le acque, chiare e profonde, a loro volta vi assumono colorazioni stupende, sembrano sprigionare fumo.
A stento si supera il primo momento dell'angoscia, e quello della meraviglia...
... Ustica selvatica lo è, da alcuni versanti; insomma, è un'isola ora di travolgente bellezza, ora impervia e primordiale; e sui cui dardeggia una luce candida e perpetua, che definisce le cose con precisione geometrica.
Spesso i venti la investono creandovi il diavolo a quattro. Opere d'arte non ve ne sono...
... Risalendo per le stradine che percorrono il paese, s'incontrano casette amabili dipinte di colori tenui con un aspetto tra idilliaco e abbandonato, dai tetti di battuto o coperte di tegole giallastre, scalette esterne e alcune ville signorili, basse e bene abitabili, come isole circondate da freschi giardini pieni di fiori.

Il vecchio piroscafo "Ustica"
getta l'ancora nella cala piccola di Santa Maria

La campagna appare disseminata di casette, piccoli dadi bianchi nello stile appreso dalle fogge eoliane, dalle finestre piccole e dagli spessi muri.
Serbano queste una fattezza idilliaca.
Davanti sorgono da un ripiano in muratura, che sostiene poca terra, la vite a pergolato, e il loggiato a colonne cilindriche.
Ve ne sono esempi bellissimi...
... Su questo atollo, ora rossastro, ora nero, ora bianco come di calce, placidi ripiani, contrade pianeggianti verdi di grano e di siepi di fichidindia, prati, qualche boschetto, coltivi cinti da muretti a secco, campi di vite bassissime, ci hanno accompagnati lungo tutto il cammino.
S'incontrano olivi, alberi da frutta, mandorli, salici, qua e là fiori stranissimi fanno ressa, i contadini lavorano ogni giorno a respingere la vegetazione invadente.
Quando si giunge alla Fortezza, in vetta all'altura del Capo Falconara, è un colpo di scena, si spalanca un panorama ridente, e siccome la natura non fa scorgere gli uomini che l'abitano, una grande visione di pace e di serena bellezza premia chi è salito lassù e si è arrestato un attimo prima di scendere fra le basse casette del paese.
Quattro volte alla settimana ci va, da Palermo, una nave veneranda, l'"Ustica", un bastimento di 550 tonnellate ( velocità oraria miglia 12 ) costruito nel 1905 da un cantiere inglese.
Lo scorbutico braccio di mare che separa l'isola dalla Sicilia è di quelli che fanno tremare i polsi, ma la vecchia carretta tiene ancora benissimo.

Un gruppo di usticesi nel 1955,
composto per lo più' da contadini e pescatori.
Il reportage di Flavio Colutta
mise in luce le difficili condizioni economiche
degli isolani

Rare sono le volte che l'"Ustica" non esce dal porto di Palermo per il maltempo, ce lo dissero in molti all'isola, buttando là la notizia con l'aria di poco conto.
La nave entra come in punta di piedi nella piccola cala di Santa Maria, e getta l'ancora a qualche centinaio di metri dalla costa.
Il porticciolo si presenta ameno.
Subito le barche degli isolani si avvicinano per venire a prendere i passeggeri.
Il paese, chiaro se non proprio bianco, sta poco sopra il molo, e per raggiungerlo si percorre una strada a rampe dal fondo bitumato che si svolge tra due file di casette.
Il piano dell'abitato, con al centro una lunga piazza rettangolare, e con le vie ad angolo retto, è organico e simmetrico.
Sulla piazza si ammassano le botteghe dei generi diversi, il cinema, l'ufficio postale, due rivendite di tabacchi, qualche caffè.
In fondo sta la chiesa moderna, di architettura pretenziosa, di fianco alla chiesa emerge il palazzo municipale..."

Lo sguardo del cronista esamina quindi a fondo le disagiate condizioni economiche degli isolani.
Il frazionamento della proprietà terriera e l'assenza di adeguate attrezzature per l'agricoltura e la pesca costringevano decine di famiglie - notò Colutta - "ad una vita ben grama, una miseria crescente e spaventosa".
"Veramente si vorrebbe che il Paese - scriverà ancora il giornalista del TCI - cui gli usticesi diedero nelle guerre la loro parte di morti, si facesse una buona volta perdonare un abbandono che dura da decenni, interessandosi subito, e a fondo, dell'esistenza di quei 1200 italiani sperduti in mezzo al mare, a sessanta chilometri da Palermo.
L'emigrazione ha svuotato l'isola.
Tutto andò bene fino alla metà del secolo scorso.
Allora la popolazione era di 3600 abitanti.
Poi cominciò l'esodo.
I dati del 1931 indicavano una popolazione di 2171 anime.
Ora gli abitanti sono 1255, e sembra prevedibile che entro qualche decennio l'isola si faccia deserta.
La colpa è della scarsezza dei mezzi di sussistenza.
La popolazione può dividersi in due categorie: contadini e pescatori.

Una strada interna dell'isola,
con i muretti a secco a dividere
la frazionata proprietà terriera

Il territorio è coltivato per il cinquanta per cento ( 450 ettari ); l'altro cinquanta per cento è costituito da zone improduttive.
Il frazionamento della proprietà è straordinario; la media è di due tre ettari a famiglia, un boccone di terra.
Che cosa ricava una famiglia?
Sette quintali di grano, un pò di uva, fave, lenticchie, orzo, un asino, un bue.
Può vivere con questo una famiglia?
L'ottanta per cento dei contadini ha debiti con i bottegai.
Tanti quanti siamo riusciti a interrogarne, a mezzogiorno mangiano un pezzo di pane e una manciata di fichi, la sera un piatto di pasta.
Le tasse li opprimono.
La terra è sfruttata fino all'inverosimile; i metodi agricolo sono antiquati, l'aratura si fa ancora con il vomere a chiodo; l'uso dei fertilizzanti è stato introdotto da appena un anno.
Alle 250 famiglie di contadini ( coltivatori diretti e affittuari ) si debbono aggiungere i braccianti agricoli, una trentina in tutto, che qui si pagano dalle 500 alle 800 lire al giorno.
La parte più infelice è però costituita dai pescatori.
Il mare di Ustica è ricchissimo, raramente le reti vengono su vuote, abbiamo udito dire.
Ma i pescatori di Ustica non sono attrezzati meglio dei contadini.
Non c'è un solo motopeschereccio, né una barca a motore.
Pochissime le barche armate di reti, le reti costano molto, e soldi non ce ne sono.
Fatti i conti, un pescatore, in una stagione di buona pesca, riesce a guadagnare in media 300 lire al giorno.
Ma sono da calcolare le tasse e i periodi d'inazione, quando il mare è cattivo ( d'inverno s'incrociano le braccia per mesi ).
La situazione è poi aggravata dalla concorrenza dei motopescherecci che vengono dalla Sicilia e setacciano il mare, e dai pescatori di frodo che catturano il pesce con le bombe.
Una vita ben grama, una miseria crescente e spaventosa..."

Scene di vita quotidiana
fra i confinati per reati comuni di Ustica.
Le finestre dei loro alloggi
erano protette da inferriate,
ma gli era concesso di muoversi
all'interno del centro abitato
durante le ore diurne


Agli occhi di Flavio Colutta, l'Ustica della metà degli anni Cinquanta è un'isola con gravi disagi infrastrutturali, che la isolano ancora di più dal resto dell'Italia:

"Ustica ha avuto l'edificio scolastico, poi l'ospedale, poi cinque chilometri di strade carrozzabili, poi dodici case dell'INA.
Ma le strade attendono nuovi fondi per essere completate, la costruzione di un pontile da sbarco è ritenuta a ragione indispensabile, occorre un acquedotto, l'energia elettrica per tutte le ventiquattro ore al giorno, l'armadio farmaceutico aspetta da tempo una dotazione di medicinali.
Il paese ha fognatura, luce elettrica, limitatamente però alle ore serali e notturne; quasi ogni casa è fornita di cisterna, in più ci sono sei cisterne comunali alimentate dall'acqua potabile che viene da Palermo e da Messina coi mezzi della Marina Militare.
L'acqua di cisterna è purissima, ci ha detto il medico condotto, dottor Fazio.
La proporzione fra natie morti è generalmente di 25 nati e 15 morti.
Le scuole sono ben frequentate; presentemente gli allievi delle elementari sono 160.
Poche sono le famiglie che non posseggono un apparecchio radio; alla sera i giovani si danno convegno nelle stanzette del Circolo della Cultura, fondato nel 1954..."

Colonia di confinati sin dai tempi dei capi abissini di Dogali e di Adua, poi dei prigionieri di Cirenaica e, fra il 1930 ed il 1932, di alcuni notabili libici, nel 1955 Ustica viveva il recente ricordo dei confinati politici qui raccolti dal fascismo.


L'isola continuava ancora ad ospitare una colonia di detenuti per reati comuni, quasi tutti alloggiati in affitto nelle abitazioni degli usticesi.
Le regole permettevano loro di vivere nel centro del paese e imponevano di non allontanarsi verso il mare o le zone interne, tramite l'indicazione lungo le strade di nere strisce di catrame.
La loro parziale libertà di movimento era limitata alle ore diurne; al tramonto e sino alle sette del mattino, i detenuti avevano l'obbligo di rimanere nei loro alloggi.

"Pochi sono quelli che lavorano: uno fa il calzolaio, un altro il sarto, qualche sardo mena le greggi al pascolo - documenta il reportage di Flavio Colutta - tuttavia i più passano la giornata senza far nulla.
Le baruffe sono all'ordine del giorno. Non si sa che cosa mangino.
La fetta più vistosa della 'mazzetta', le 350 lire che lo Stato corrisponde loro, la lasciano dai due tabaccai e al bar della piazza.


Gli usticesi, unanimi nel negare che i 130 confinati, con 30 carabinieri e 18 agenti di polizia, portino un valido contributo all'economia dell'isola, d'altra parte attribuiscono alla zona di confine i guai che l'affliggono e ne ritardano il progresso"

Al termine del suo racconto, Colutta affronta il tema dello sviluppo del turismo, all'epoca quasi del tutto inesistente ad Ustica.
Il cronista incontrò la baronessa Anna Notarbartolo di Sciara, all'epoca da nove anni sindaco dell'isola e personaggio ancor oggi qui ricordato per avere allora guidato l'accesa protesta di una delegazione di pescatori usticesi a Roma.

"La baronessa Anna Notarbartolo di Sciara è chiamata da tutti la Sindaco.
E' una donna energica, dalle risorse infinite, piena di entusiasmo, che non sta certo chiusa nella sua casa, ma combatte quotidianamente per il suo paese, scrive lettere, spedisce telegrammi, tempesta Palermo e Roma con domande e proposte appassionate.
Parlandoci della sua isola, quasi si commuove..."