Nel 1953 un reportage di Leone Lombardi illustrò la contraddizione fra il dissoluto passato mitologico e l'attuale aspetto monastico del borgo trapanese
Una donna percorre una stradina di Erice. La fotografia è di Vincenzo Scuderi ed è tratta dal II volume dell'opera "sicilia", edita nel 1962 da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini |
"I turisti che girano la Sicilia in tre giorni, issati sui torpedoni come i soldati di Pirro sugli elefanti, fanno una corsa sola da Segesta ad Agrigento e anche i più dotti pensano che di Erice si sa abbastanza quando si sono letti Strabone e Cicerone, e che non vale la pena dell'arrampicata.
Taormina rappresenta per il turista la Mecca dei panorami e questa convinzione permette agli abitanti di Erice di vivere in santa pace, proprietari di quello che è forse il più bel panorama del mondo.
Nel recinto dell'antico tempio, fra le torri del castello medievale che si addenta alla terra con le fondamenta dell'antico fortilizio cartaginese, la gente di Erice gioca pacificamente a bocce".
Con queste ironiche notazioni, il giornalista Leone Lombardi arricchì uno dei più acuti e sensibili reportage mai scritti su Erice; era il 1953, e il suo articolo venne pubblicato sul numero di giugno della rivista "L'Illustrazione Italiana", con il titolo "Ricordo di Venere".
Della cittadina issata a ottocento metri sul mare trapanese in tanti hanno scritto, viaggiatori con il pallino della letteratura e cronisti di riviste e giornali; eppure, in pochi - e Leone Lombardi è uno di loro - sono riusciti a cogliere l'anima segreta che il mito e la storia hanno assegnato ad Erice.
Un cortile di una abitazione ericina. La fotografia venne pubblicata nel 1930 nell'opera di Gabriel Faure "En Sicile", edita a Grenoble da B.Arthaud |
Della cittadina issata a ottocento metri sul mare trapanese in tanti hanno scritto, viaggiatori con il pallino della letteratura e cronisti di riviste e giornali; eppure, in pochi - e Leone Lombardi è uno di loro - sono riusciti a cogliere l'anima segreta che il mito e la storia hanno assegnato ad Erice.
La bellezza del luogo è simile a quella di una pietra d'onice, severa nell'architettura delle vie strette, dei cortili chiusi alla vista e della pietra utilizzata per costruire palazzetti e chiese.
Questa architettura conventuale, aperta alla luce del sole da grate di ferro, nulla lascia immaginare dei tempi lontanissimi in cui Erice ospitava un santuario dedicato alla divinità chiamata Astarte dai fenici, Afrodite dai greci e Venere dai romani.
Un palazzetto nobiliare nel centro storico ericino. L'immagine è di Patrice Molinard ed è tratta dall'opera "La Sicile", edita a Parigi nel 1957 da Del Duca |
Sino alla fine del paganesimo, in quest'angolo della Sicilia oggi d'aspetto claustrale un gruppo di sacerdotesse avrebbe praticato la prostituzione sacra.
Sembra quasi che nei secoli successivi Erice abbia cercato espiazione assumendo l'aspetto penitenziale che colpì Leone Lombardi.
Sembra quasi che nei secoli successivi Erice abbia cercato espiazione assumendo l'aspetto penitenziale che colpì Leone Lombardi.
Qui non si trova la Sicilia solare e chiassosa nelle forme architettoniche e nel comportamento delle persone; piuttosto, Erice è il luogo del silenzio e del riserbo, sferzato dalle raffiche di vento e dalla corsa delle nuvole che riempiono di foschia le strette stradine del centro storico.
Un'immagine ericina firmata da Pedone e pubblicata nel 1965 nell'opera "Italgeo-Sicilia" edita da Bonetti editore Milano |
"Il paese issato sul vecchio monte sacro a Venere - si legge nel reportage di Lombardi - vive in amara penitenza, e, contro alle tentazioni del mare, innalza la difesa delle sue croci in ferro arrugginite in cima ai campanili incappucciati di monastica pietra grigia. Ha fatto di tutto per dimenticare.
Ha chiuso le sue donne in cortili inaccessibili: a parlare con chi?
Forse solamente con l'edera.
Cosa si viene a cercare ad Erice?
Il ricordo di Venere?
Si trova il silenzio estremo delle sue viuzze attorte, obbedienti al pendio di roccia originario: e non si trova una sola porta che non sembri quella di un eremo.
Si cammina a lungo sui selciati canori di piccole pietre disposte a intarsi quadrati.
Per piazza San Domenico, per via San Rocco, per via Hernandez, la strada si dipana fra nomi di santi e di piccola nobiltà locale. Vicoli lunghi dieci metri, venti, cinquanta, vigilati dai balconi barocchi di pietra tarlata dal vento, stretti fra le mura che chiudono nei giardini segreti il fiorire dei mandorli.
Sul ciglio deserto degli spalti, dove stavano i balestrieri di guardia, ridono le margherite gialle.
Le chiese, ai crocicchi, in vicoli larghi due metri, sembrano amiche ferme a confidarsi segreti.
Le donne chiuse nei loro scialletti neri portano la mano dei loro bambini alle labbra e alla fronte, per disegnare il gesto di un bacio benedicente, ogni volta che passano davanti ad un'immagine sacra".