“Come è potuto accadere? Cosa ha nascosto a chi aveva occhi per vedere, orecchie per ascoltare, menti per ragionare, trecento milioni di metri cubi di cemento, centinaia di chilogrammi di asfalto che, tra il 1955 ed il 1975, ogni anno hanno soffocato un milione di metri quadrati di suolo e preso il posto di oltre un milione di alberi? Perché non è stato possibile impedire che il paesaggio della Conca d’oro giungesse all’agonia, con il suo millenario carico di fatiche, sogni, sentimenti da allora cancellati, negati alle speranze del futuro?”
Sono le domande ed insieme il grido di dolore che al termine del saggio 'Conca d’oro' ( edito recentemente da Sellerio ) l’autore Giuseppe Barbera lancia ai lettori.
Il libro di Barbera – professore di Colture Arboree nell’Università di Palermo, già collaboratore del FAI ed erede di una famiglia che nella Conca d’oro ha visto cancellare i giardini della propria villa – ripercorre senza tecnicismi e con una scrittura attenta alle vicende storiche, economiche e politico-mafiose palermitane i fasti ambientali e la sostanziale scomparsa dell’area.
Barbera la definisce come “un’esigua porzione di mondo che l’uomo, cogliendo nella natura le opportunità offerte dalla storia, ha reso laboratorio perenne di diversità biologiche, moltiplicandola in tutte le forme possibili, favorendo e guidando l’incontro tra le specie, le razze, le varietà e le forme originarie con quelle provenienti da luoghi lontani”.
Il saggio di Barbera individua sia l’origine della definizione “Conca d’oro” – presente per la prima volta in un poemetto del XV secolo del mazarese Angelo Callimaco – sia l’evolversi della ricchezza agricola della pianura esaltata da Ugo Falcando, sino all’invasiva e speculativa diffusione degli agrumi, ed in primo luogo del limone.
“L’importanza del limone – spiega l’autore, arricchendo il saggio di un'altra curiosa notazione – cresce dal 1795, quando la marina militare inglese ne rende obbligatorio l’uso come antiscorbutico e viene esportato sotto forma di frutto fresco o in salamoia o di derivati, come olii essenziali, scorze e agrocotto (succo concentrato)”.
Sorprendente è poi l’elencazione delle varietà indigena di piante da frutto che sono state quasi del tutto cancellate dalle ruspe dei cantieri edili e stradali: “il susino di Cuore, il Rapparino e l’Occhio di bue, la pesca Spaccarella, l’albicocco Majolino, i peri Iazzolo, Moscatello e Butirra, il ciliegio Cappuccia, il melo Limoncella, sorbi, mandorli e melograni, fichidindia Sanguigni, Sufrarini e Muscareddi”.
A quella che è stata la devastazione cementizia della Conca d’oro – ed è questa una considerazione suggerite dalle pagine di Giuseppe Barbera - bisogna così aggiungere la perdita di un’eccezionale ed irripetibile ricchezza regalata dai frutti della terra, grazie al clima della città e dal lavoro di generazioni di contadini e braccianti; pochi decenni di quello che è passato allo storia come “sacco edilizio” – i voraci interessi di qualche decina di imprenditori mafiosi e di politici loro servitori - hanno così distrutto secoli di cultura agraria palermitana.
Giuseppe Barbera, in una foto tratta da http://www.unipa.it/arbor/curriculum_docenti/barbera.htm |
RS
Professore Barbera, riprendendo un passo del suo saggio, RS Le chiede come sia stata possibile la silenziosa devastazione della Conca d'oro nel dopoguerra...
GB
"E' una domanda che mi sono posto sin dall'inizio del mio lavoro di ricerca. Le colpe furono certamente degli imprenditori di pessimo livello, dei politici del tempo e della mafia.
La distruzione della Conca d'oro è stata però anche il frutto dei tempi, degli anni che seguirono il secondo dopoguerra e delle spinte economiche che dettarono i tempi del saccheggio edilizio del territorio palermitano, senza alcun controllo.
Anche gli uomini di cultura in teoria più preparati non seppero opporsi a quelle spinte; l'unica voce dissonante, di denuncia, fu quella del giornale "l'Ora": troppo poco per fermare l'avanzata del cemento"
RS
La ricchezza arborea della Conca d'oro è oggi persa del tutto o rimane ancora qualche traccia di quel patrimonio botanico?
GB
"In termini percentuali, possiamo ritenere che ne sopravvive ancora il 20 per cento, soprattutto nella zona di Ciaculli.
Ci sono poi due importanti ambienti che testimoniano quella antica ricchezza: il parco della Favorita - con i suoi agrumeti - e la zona di Maredolce, dove l'ambiente naturale ed i resti architettonici rimandano alla Palermo di età islamica e normanna."
RS
E' possibile immaginare la tutela di ciò che rimane dell'originaria Conca d'oro ed una sua valorizzazione produttiva e turistica?
GB
"Da poche settimane a Palermo è nato un Comitato Civico Conca d'oro che vuole portare avanti tutte le proposte ed i progetti che potrebbero valorizzare le aree residue.
Occorre azzerare il consumo del suolo e credere nella valorizzazione delle attività agricole urbane, secondo una tendenza già presente in molte fra le maggiori città europee. Palermo potrebbe ospitare numerosi orti urbani, venendo incontro alla cultura del consumo di prodotti naturali a 'chilometro zero'.
Gli orti urbani soddisfano in maniera ideale l'idea di tutela dell'ambiente e le ragioni economiche, più di quanto non possano farlo i parchi o le aree protette.
La Conca d'oro, del resto, fornisce già un esempio di questa prospettiva: i 200 ettari di agrumeti dell'area di Ciaculli dove è attivo il Consorzio di produttori del mandarino Tardivo.
E' un esempio di agricoltura che crea economia, partendo proprio dalla valorizzazione di una specie arborea indigena"