VITTORIO URSO, "Pescatori di Acitrezza", disegno a china, 1965
ReportageSicilia è uno spazio aperto di pensieri sulla Sicilia, ma è soprattutto una raccolta di immagini fotografiche del suo passato e del suo presente. Da millenni, l'Isola viene raccontata da viaggiatori, scrittori, saggisti e cronisti, all'inesauribile ricerca delle sue contrastanti anime. All'impossibile fine di questo racconto, come ha scritto Guido Piovene, "si vorrebbe essere venuti quaggiù per vedere solo una delle più belle terre del mondo"
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venerdì 26 ottobre 2018
TRISTI RICORDI E POSSIBILE FUTURO DEL FORTE DI SANTA CATERINA
Il forte di Santa Caterina, sovrastante il centro abitato di Favignana. Le fotografie sono di ReportageSicilia |
Ad ogni svolta della strada lastricata di pietre che a Favignana traccia un esteso "zig zag" sulle pendici dell'omonimo monte, il forte di Santa Caterina appare sempre più austero e incombente sui versanti dell'isola.
L'edificio - da tempo in stato di abbandono - racconta una storia secolare, iniziata in età angioina e proseguita sino ad una cinquantina di anni fa per usi militari: sulla sua sommità, arrugginiti dal vento salmastro delle Egadi, resistono ancora scheletri di tralicci e di attrezzature radar.
La fama del forte - la cui libera visita impone prudenza, per le numerose aperture verso l'interno e per l'altezza delle terrazze - è legata alle sofferenze qui subite da migliaia di detenuti politici durante il Regno delle Due Sicilie.
Sino al 1860, i Borboni vi rinchiusero i condannati alla pena capitale che avevano ottenuto la grazia.
Qui scontavano un ergastolo durissimo, tale da provocare comunque atroce morte per gli stenti e le malattie.
I favignanesi presto ebbero conoscenza delle sofferenze patite in cima alla loro montagna, coniando l'espressione "cu trasi c'a parola, nesci mutu" ( "chi entra parlando, esce senza più parole" ).
In quegli anni, la durezza del carcere della maggiore della Egadi divenne nota in tutta Italia, come testimoniato da una pagina di Pietro Colletta in "Storia del Reame di Napoli" ( Napoli, 1860 ):
"Dal castello, per una iscala tagliata nel sasso, lunga nello scendere quanto è alto il monte, si giunge ad una grotta, da scalpello incavata, che per giusto nome chiamano 'Fossa'.
Qui la luce è smorta, raggio di sole non vi arriva; è grave il freddo, l'umidità densa; vi albergano animali nocevoli: l'uomo, comunque sano e giovane, presto vi muore"
Fra i molti detenuti della fortezza - che nel 1860 si rivoltarono ai loro carcerieri, devastando la cappella di Santa Caterina - si ricorda il nome di Giovanni Nicotera, arrestato nel 1857 dopo la fallita spedizione di Sapri.
Durante un viaggio a Favignana, lo scrittore e saggista toscano Leopoldo Barboni ( trapanese di adozione dopo anni di esperienze didattiche nelle scuole cittadine ) raccolse dal farmacista Andrea Livolsi una testimonianza sull'orgoglio di Nicotera durante la durissima detenzione all'interno della 'Fossa' del forte.
Pare che il patriota avesse ricevuto la visita di un funzionario borbonico; e che all'offerta del ritorno in una cella meno angusta come segno di benevolenza del re, Nicotera rifiutasse con sdegno, spiegando che "il vostro sovrano è un tiranno della patria, ed io non chiedo grazia ad un tiranno...".
Oggi la fortezza di Santa Caterina è un luogo di forte suggestione, nel ricordo delle sofferenze che vi si consumarono e della magnifica vista a 360° sul mare delle Egadi e su parte della provincia di Trapani.
Da qualche anno è in discussione un possibile recupero strutturale dell'edificio: iniziativa incoraggiata nei mesi scorsi da un concorso internazionale di idee promosso dal Comune e da "Young Architects Competitions".
Il progetto prevede di destinare gli ambienti interni ed esterni della costruzione a Museo di Arte Contemporanea del Mediterraneo: una "art prison" dove gli artisti, nella solitudine del forte, possano trovare ispirazione per le proprie opere.
Negli anni passati è invece fallita una proposta di asfaltare la storica strada di accesso al forte: ipotesi avanzata durante una campagna elettorale basata sull'aberrante idea di uno sviluppo dell'isola che non tenga conto delle sue non comuni bellezze ambientali.
Sino al 1860, i Borboni vi rinchiusero i condannati alla pena capitale che avevano ottenuto la grazia.
Qui scontavano un ergastolo durissimo, tale da provocare comunque atroce morte per gli stenti e le malattie.
I favignanesi presto ebbero conoscenza delle sofferenze patite in cima alla loro montagna, coniando l'espressione "cu trasi c'a parola, nesci mutu" ( "chi entra parlando, esce senza più parole" ).
In quegli anni, la durezza del carcere della maggiore della Egadi divenne nota in tutta Italia, come testimoniato da una pagina di Pietro Colletta in "Storia del Reame di Napoli" ( Napoli, 1860 ):
"Dal castello, per una iscala tagliata nel sasso, lunga nello scendere quanto è alto il monte, si giunge ad una grotta, da scalpello incavata, che per giusto nome chiamano 'Fossa'.
Qui la luce è smorta, raggio di sole non vi arriva; è grave il freddo, l'umidità densa; vi albergano animali nocevoli: l'uomo, comunque sano e giovane, presto vi muore"
Fra i molti detenuti della fortezza - che nel 1860 si rivoltarono ai loro carcerieri, devastando la cappella di Santa Caterina - si ricorda il nome di Giovanni Nicotera, arrestato nel 1857 dopo la fallita spedizione di Sapri.
Durante un viaggio a Favignana, lo scrittore e saggista toscano Leopoldo Barboni ( trapanese di adozione dopo anni di esperienze didattiche nelle scuole cittadine ) raccolse dal farmacista Andrea Livolsi una testimonianza sull'orgoglio di Nicotera durante la durissima detenzione all'interno della 'Fossa' del forte.
Pare che il patriota avesse ricevuto la visita di un funzionario borbonico; e che all'offerta del ritorno in una cella meno angusta come segno di benevolenza del re, Nicotera rifiutasse con sdegno, spiegando che "il vostro sovrano è un tiranno della patria, ed io non chiedo grazia ad un tiranno...".
Da qualche anno è in discussione un possibile recupero strutturale dell'edificio: iniziativa incoraggiata nei mesi scorsi da un concorso internazionale di idee promosso dal Comune e da "Young Architects Competitions".
Il progetto prevede di destinare gli ambienti interni ed esterni della costruzione a Museo di Arte Contemporanea del Mediterraneo: una "art prison" dove gli artisti, nella solitudine del forte, possano trovare ispirazione per le proprie opere.
Negli anni passati è invece fallita una proposta di asfaltare la storica strada di accesso al forte: ipotesi avanzata durante una campagna elettorale basata sull'aberrante idea di uno sviluppo dell'isola che non tenga conto delle sue non comuni bellezze ambientali.
martedì 23 ottobre 2018
LA VITA DI CIRCOLO A GRAMMICHELE
Fotografia tratta dall'opera "Sicilia" di Pepi Merisio e Fortunato Pasqualino, edita nel 1980 da Zanichelli |
In questi locali - arredati con tavoli per il gioco della scopa, più raramente di un vecchio tavolo da biliardo - si commentano fatti e comportamenti dei compaesani, oppure gli eventi lontani raccontati dalla televisione ( in questi circoli, internet egli smartphone non hanno ancora soppiantato lo schermo di un televisore ).
La fotografia riproposta da ReportageSicilia è tratta dall'opera di Pepi Merisio e Fortunato Pasqualino "Sicilia", edita nel 1980 da Zanichelli.
L'immagine di Merisio ritrae l'ingresso del "Circolo degli Autisti" e della "Sezione Artigiani" di Grammichele, la cittadina fra le province di Catania e Ragusa che accoglie decine di circoli e associazioni civiche: da quella degli autisti, a quella dei giovani operai, dei cacciatori e degli ex emigrati.
Ciascun gruppo si distingue così dall'altro con propri statuti e regole, rappresentando così la tendenza all'individualismo e la scarsa capacità di aggregazione della società siciliana.
Nella didascalia che accompagna la fotografia si legge
"Mestieri, classi sociali, professioni, titoli e interessi vari sono il cemento che riunisce in uno stesso luogo gli appartenenti al circolo.
C'è il circolo dei tifosi di una squadra di calcio e quello dei coltivatori diretti; quello dei laureati e quello degli ufficiali; dei nobili e dei proletari: un inventario senza fine della società siciliana"
Ciascun gruppo si distingue così dall'altro con propri statuti e regole, rappresentando così la tendenza all'individualismo e la scarsa capacità di aggregazione della società siciliana.
Nella didascalia che accompagna la fotografia si legge
"Mestieri, classi sociali, professioni, titoli e interessi vari sono il cemento che riunisce in uno stesso luogo gli appartenenti al circolo.
C'è il circolo dei tifosi di una squadra di calcio e quello dei coltivatori diretti; quello dei laureati e quello degli ufficiali; dei nobili e dei proletari: un inventario senza fine della società siciliana"
lunedì 22 ottobre 2018
LA SEVERA QUIETE DELL'AMENA ISOLA DI MOZIA
Stele funebri di pietra arenaria a Mozia. Fotografia di ReportageSicilia |
"'Diva solitudo' avrebbe scritto Tacito davanti a questo paesaggio di acque basse e calme, agavi del Kenia, piante grasse, ulivastri, vigne, ciuffi di pini marittimi e resti di costruzioni invase dalla vegetazione.
La quiete severa - scrisse Vincenzo Tusa nel luglio del 1963 ( in "Un'isola senza snob", "le vie d'Italia" del Touring Club Italiano - è compatta come la roccia.
E' un grumo di roccia quasi tondo in mezzo allo Stagnone di Marsala, uno specchio di mare singolare, piuttosto simile a un tratto di laguna veneta, per di più circondato da saline su cui si levano incredibili mulini a vento olandesi, otto chilometri a nord della bianca città siciliana.
La vita civile di Mozia è tutta qui: le case che ospitano le famiglie dei due guardiani e ogni tanto qualche archeologo, qualche visitatore.
L'isola non può essere oggetto di una visita frettolosa.
Bisogna andarci e ritornarci, vederla in tutte le ore e in tutte le luci, perchè, in realtà - e non paia retorica ciò che diciamo - il luogo, pur non avendo nulla di spettacolare, è di un'amenità senza confronti"
sabato 20 ottobre 2018
L'OSSEQUIO DI VILLALBA PER I FUNERALI DI DON CALO' VIZZINI
Il 12 luglio del 1954, all'età di 77 anni, un uomo moriva durante il trasporto con un'autoambulanza da una clinica palermitana al suo paese di origine, Villalba.
Quell'anziano si chiamava Calogero Vizzini; con la sua scomparsa si chiudeva un pezzo di storia di mafia siciliana, legata ancora al latifondo e ad una visione patriarcale del potere.
Le cronache raccontano che due giorni dopo, il funerale di Vizzini - per tutti i compaesani, Don Calò - venne celebrato fra decine di sontuose corone di fiori arrivate a Villalba da tutta l'Isola.
Alle esequie dell'anziano capomafia, industriale dello zolfo e possidente agrario ricchissimo, parteciparono notabili della politica locale e numerosi boss siciliani.
Di quel giorno, si tramandano alcune fotografie riprodotte in diversi saggi sulla mafia.
In una di queste, Paolino Bontade e Giuseppe Genco Russo ( succeduto a Vizzini alla guida di Cosa Nostra siciliana ), reggono i cordoni della bara del defunto.
In un'altra immagine, invece, un gruppo di donne leggono l'epitaffio funebre riportato su un catafalco all'esterno della chiesa:
"Calogero Vizzini, con l'abilità di un genio, innalzò le sorti del distinto casato, sagace dinamico mai stanco, diede benessere agli operai della terra e delle zolfare, operando sempre il bene, e si fece un nome assai apprezzato in Italia e fuori, grande nelle persecuzioni, assai più grande nelle disdette, rimase sempre sorridente, e oggi, con la pace di Cristo, ricomposto nella maestà della morte, da tutti gli amici dagli stessi avversari, riceve l'attestato più bello, fu un galantuomo"
L'immagine di quelle esequie di mafia riproposta da ReportageSicilia - senza attribuzione e pubblicata dal settimanale "Tempo" il 21 ottobre del 1958 - è invece poco conosciuta.
Ritrae un gruppo di donne di Villalba intabarrate di nero e di uomini con il cappotto al passaggio del corteo funebre: un arcaico gesto di postuma deferenza per il vecchio Don Calò in quella che Alfio Caruso ha ricordato essere stata "una caldissima giornata di luglio".
martedì 16 ottobre 2018
SAVINO E "L'UTILE DELL'INUTILE" DELLA PALAZZINA CINESE
Interno della Palazzina Cinese, a Palermo. Le fotografie sono di ReportageSicilia |
Idea di 'architettura', di civiltà al di là dall'utile, nell'utile dell'inutile"
Terminando la visita della Palazzina Cinese, lo scrittore, pittore e compositore Alberto Savino così espresse nel 1948 il suo giudizio su una delle più singolari opere architettoniche palermitane.
L'edificio ai margini del Parco della Favorita provoca giudizi contrastanti: chi lo giudica una bizzarra escrescenza orientaleggiante, estranea alle vicende dell'architettura siciliana, chi invece - giustamente - lo considera come un singolare esempio delle mille influenze culturali che hanno lasciato traccia nella storia dell'Isola.
La storia della Palazzina Cinese è nota a palermitani e visitatori stranieri e fu così brevemente riassunta nel 1919 dalla prima "Guida Rossa" della Sicilia, edita dal Touring Club Italiano:
"Per il viale dei Leoni e quello di Ercole, si raggiunge la Palazzina, di stile cinese, fabbricata da Ferdinando IV di Borbone, con fastose sale e gabinetti.
Dalla terrazza del secondo piano, vista sulla città e sulla Conca d'Oro e, dalla parte opposta, sulla baia di Mondello e di Sferracavallo"
In tempi più recenti, la storia dell'edificio si è arricchita di indicazioni più precise che hanno riguardato in primo luogo la genesi della sua costruzione.
Come è noto, Ferdinando IV di Borbone e Maria Carolina, in fuga da Napoli, sbarcarono a Palermo il 25 dicembre del 1798.
Il loro arrivo mobilitò la deferente ospitalità dell'aristocrazia locale.
Iniziò infatti la corsa alla ricerca di un luogo palermitano dove i reali potessero dedicarsi agli svaghi ed alle battute di caccia: un sito che potesse loro offrire la stesse caratteristiche della Colonia Reale di San Leucio, nel casertano.
La scelta cadde sulla "casena" della piana dei Colli di proprietà di Giuseppe Maria Lombardo e Lucchese, barone delle Scale e delli Manchi di Belìce: un edificio ereditato 9 mesi prima dal fratello Benedetto.
L'immobile era allora oggetto di una controversia patrimoniale, legata ad alcuni debiti contratti dalla famiglia proprietaria con Antonio Levanti, Pietro Piraino e Gioacchino Failla.
Come ha spiegato Romualdo Giuffrida in "Il parco della Favorita di Palermo da sito reale a luogo di pubblica fruizione" ( "Beni Culturali e Ambientali Sicilia", Anno IX-X, Numero 1-2, 1988-89 )
"non essendosi presentato alcun compratore, la Gran Corte aveva stabilito che la 'casena' potesse essere concessa a censo enfiteutico ( un possesso dietro la cura del bene ed il pagamento di un canone annuo, ndr ) il cui importo annuale sarebbe stato versato ai creditori.
Il principe di Aci ne chiese la concessione a nome del re e, ottenuto il consenso del barone Giuseppe Lombardo, incaricò il professore di Architettura don Giuseppe Marvuglia 'per prezzare li benfatti o siano tutte le opere fatte per la costruzione di detta Casena e sue officine, la villa girata di muri, li benfatti rusticani e le gebbie per adacquare la detta villa, ed in parola tutto ciò che fu erogato per tutte le dette opere ad effetto di stabilire il censo annuale'..."
Sembra che l'attuale aspetto della Palazzina Cinese non si discosti da quello mostrato della "casena" di proprietà dei Lombardo e Lucchese: quest'ultima potrebbe avere avuto una struttura già in muratura, con parti esterne in legno.
La riedificazione interna e l'aggiunta dei terrazzi laterali e di due portici poligonali è da collocarsi nei primi anni dell'Ottocento; e un dato curioso riferito ancora da Romualdo Giuffrida, infine, ci tramanda la notizia secondo cui per la chiusura del cantiere reale, gli appaltatori rinunziarono a fruire dell'opera gratuita di cento forzati prevista dalla gara d'appalto.
"Per il viale dei Leoni e quello di Ercole, si raggiunge la Palazzina, di stile cinese, fabbricata da Ferdinando IV di Borbone, con fastose sale e gabinetti.
Dalla terrazza del secondo piano, vista sulla città e sulla Conca d'Oro e, dalla parte opposta, sulla baia di Mondello e di Sferracavallo"
In tempi più recenti, la storia dell'edificio si è arricchita di indicazioni più precise che hanno riguardato in primo luogo la genesi della sua costruzione.
Come è noto, Ferdinando IV di Borbone e Maria Carolina, in fuga da Napoli, sbarcarono a Palermo il 25 dicembre del 1798.
Il loro arrivo mobilitò la deferente ospitalità dell'aristocrazia locale.
Iniziò infatti la corsa alla ricerca di un luogo palermitano dove i reali potessero dedicarsi agli svaghi ed alle battute di caccia: un sito che potesse loro offrire la stesse caratteristiche della Colonia Reale di San Leucio, nel casertano.
La scelta cadde sulla "casena" della piana dei Colli di proprietà di Giuseppe Maria Lombardo e Lucchese, barone delle Scale e delli Manchi di Belìce: un edificio ereditato 9 mesi prima dal fratello Benedetto.
L'immobile era allora oggetto di una controversia patrimoniale, legata ad alcuni debiti contratti dalla famiglia proprietaria con Antonio Levanti, Pietro Piraino e Gioacchino Failla.
Come ha spiegato Romualdo Giuffrida in "Il parco della Favorita di Palermo da sito reale a luogo di pubblica fruizione" ( "Beni Culturali e Ambientali Sicilia", Anno IX-X, Numero 1-2, 1988-89 )
"non essendosi presentato alcun compratore, la Gran Corte aveva stabilito che la 'casena' potesse essere concessa a censo enfiteutico ( un possesso dietro la cura del bene ed il pagamento di un canone annuo, ndr ) il cui importo annuale sarebbe stato versato ai creditori.
Il principe di Aci ne chiese la concessione a nome del re e, ottenuto il consenso del barone Giuseppe Lombardo, incaricò il professore di Architettura don Giuseppe Marvuglia 'per prezzare li benfatti o siano tutte le opere fatte per la costruzione di detta Casena e sue officine, la villa girata di muri, li benfatti rusticani e le gebbie per adacquare la detta villa, ed in parola tutto ciò che fu erogato per tutte le dette opere ad effetto di stabilire il censo annuale'..."
La riedificazione interna e l'aggiunta dei terrazzi laterali e di due portici poligonali è da collocarsi nei primi anni dell'Ottocento; e un dato curioso riferito ancora da Romualdo Giuffrida, infine, ci tramanda la notizia secondo cui per la chiusura del cantiere reale, gli appaltatori rinunziarono a fruire dell'opera gratuita di cento forzati prevista dalla gara d'appalto.
giovedì 11 ottobre 2018
LE IDENTITA' TRAPANESI SECONDO SIMONE GATTO
Tramonto a Trapani. Le fotografie sono di ReportageSicilia |
L'esponente socialista ebbe un forte legame personale con Trapani e la sua provincia, dove trascorse gli anni della formazione scolastica.
Ritornato da Roma, proprio a Trapani nel 1944 Simone Gatto fu tra gli esponenti locali del Partito d'Azione; nell'ottobre di tre anni dopo avrebbe aderito al PSI, raggiungendo posizioni da dirigente a livello provinciale e partecipando alle lotte contadine.
L'impegno politico lo avrebbe portato a candidarsi alle elezioni politiche del 25 maggio 1958 nel collegio senatoriale di Trapani-Marsala: fu eletto con largo suffragio di voti e rieletto, nello stesso collegio, nel 1963.
Questa breve premessa biografica spiega la profonda conoscenza di Simone Gatto della realtà sociale di Trapani.
Furono proprio questi rapporti personali e politici a permettergli di tracciare un acuto profilo del carattere di Trapani e dei trapanesi.
L'intervento apparve nel 1961 sul II volume dell'opera "Sicilia" edita da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini.
Colloqui trapanesi |
Dopo avere ricordato l'origine fenicia di "Drepanon" e la forte presenza di una comunità ebraica, Gatto scrisse:
"Tutto fa pensare che l'apporto maggiore alla formazione del ceppo etnico non sia quello comune del resto comune dei siciliani ( elimo-siculo-ellenico ), ma quello semitico comune ai Fenici quanto agli Arabi.
Peraltro nei secoli successivi, dagli anni in cui le Crociate ne fanno una vera città, Trapani ha scarsi rapporti con il suo retroterra e sempre più intensi scambi con tutto il bacino del Mediterraneo.
Città in un certo senso 'franca', a cui Carlo V riconosce speciali privilegi, giurando su di essi nella chiesa-parlamento di Sant'Agostino, trapani è ricordata con maggiore frequenza nelle guerre dei barbareschi che in quelle a cui partecipa l'isola nel contesto europeo.
Non di rado trapanesi, catturati dai 'turchi', divennero capi dell'armata barbaresca di Tunisi e viceversa capitani tunisini o algerini, prigionieri convertiti o no, si assimilarono alla marineria trapanese.
Del resto risulta dagli atti notarili che sino ai primi dell'Ottocento in ogni casa agiata di Trapani v'erano schiavi africani, che non di rado acquistavano in qualità di liberti, piena cittadinanza.
L'altro legame, quello con il continente europeo, è assicurato dalla comunanza di scambi e di interessi con Genova.
La strada di rappresentanza, insigne di monumenti barocchi, è la 'loggia dei genovesi', ancor oggi denominata nell'uso corrente 'la Loggia' e quasi mai con il nome imposto dopo il 1860, di corso Vittorio Emanuele.
E la cattedrale porta, come a Genova, il nome di San Lorenzo.
Ancor oggi il trapanese ha fama di avere negli affari le stesse qualità del genovese: scrupolosa correttezza e, diremo con riguardoso eufemismo, il senso spiccato del risparmio e del guadagno.
Tali ricorsi alla storia riteniamo siano più utili di ogni altra cosa a intendere la fisionomia di questa città, difficilmente assimilabile al modulo schematico comune al resto della Sicilia"
Peraltro nei secoli successivi, dagli anni in cui le Crociate ne fanno una vera città, Trapani ha scarsi rapporti con il suo retroterra e sempre più intensi scambi con tutto il bacino del Mediterraneo.
Città in un certo senso 'franca', a cui Carlo V riconosce speciali privilegi, giurando su di essi nella chiesa-parlamento di Sant'Agostino, trapani è ricordata con maggiore frequenza nelle guerre dei barbareschi che in quelle a cui partecipa l'isola nel contesto europeo.
Non di rado trapanesi, catturati dai 'turchi', divennero capi dell'armata barbaresca di Tunisi e viceversa capitani tunisini o algerini, prigionieri convertiti o no, si assimilarono alla marineria trapanese.
Del resto risulta dagli atti notarili che sino ai primi dell'Ottocento in ogni casa agiata di Trapani v'erano schiavi africani, che non di rado acquistavano in qualità di liberti, piena cittadinanza.
Mascherone della fontana di Saturno, nel centro storico di Trapani |
La strada di rappresentanza, insigne di monumenti barocchi, è la 'loggia dei genovesi', ancor oggi denominata nell'uso corrente 'la Loggia' e quasi mai con il nome imposto dopo il 1860, di corso Vittorio Emanuele.
E la cattedrale porta, come a Genova, il nome di San Lorenzo.
Ancor oggi il trapanese ha fama di avere negli affari le stesse qualità del genovese: scrupolosa correttezza e, diremo con riguardoso eufemismo, il senso spiccato del risparmio e del guadagno.
Tali ricorsi alla storia riteniamo siano più utili di ogni altra cosa a intendere la fisionomia di questa città, difficilmente assimilabile al modulo schematico comune al resto della Sicilia"
lunedì 8 ottobre 2018
I CENTO MESTIERI DEI PESCATORI SICILIANI
Pescatori palermitani di Trabia. La fotografia è tratta dall'opera "Italia Nostra", volume IV, Federico Motta Editore, 1965 |
Negli ultimi decenni lo sfruttamento delle risorse ittiche ha cambiato radicalmente le tecniche di pesca, lasciando meno spazio a quel patrimonio di conoscenze che ogni comunità marinara ha custodito da una generazione all'altra.
La tecnologia, se da un lato ha fornito ad armatori e pescatori maggiori possibilità di guadagno ( esasperando anche le forme di concorrenza ), dall'altro ha ridotto l'importanza di certe forme di conoscenze tradizionali della cultura marinara: l'andare per vela o la capacità di "leggere" i fondali e di individuarvi la presenza delle prede.
Oggi in Sicilia l'attività della pesca comincia così ad allontanarsi dalla prospettiva raccontata nel 2008 da Giuseppe Aiello ( "Ippocampo - Tecniche, strutture e ritualità della cultura del mare", Regione Siciliana, Dipartimento dei Beni Culturali ed Ambientali ):
"'Vaicca una e mistieri cientu'
era il detto che includeva le aspirazioni di ogni pescatore, un 'mistieri' per ogni periodo dell'anno, per essere pronti ad ogni stagione a indirizzare le strategie verso le specie ittiche che con la loro abbondante comparsa ne rendessero remunerativa l'azione di pesca.
Il ruolo ed il prestigio che la comunità marinara assegnava all'individuo dipendeva dalle attrezzature ( 'arrobba ri mari' ), di cui spesso traboccavano i loro piccoli e angusti magazzini.
Attrezzi proporzionati e compatibili con l'imbarcazione posseduta e in ogni caso capaci di garantire l'esercizio della propria attività, stagione dopo stagione.
L'opera di un pescatore non conosceva mai sosta; il fermo cui le avverse condizioni meteorologiche sembravano obbligarlo, era sfruttato ora per le riparazioni ora per approntare nuovi strumenti.
La mano non conosceva sosta, sempre all'opera; anche nei rari momenti d'ozio è normale che un pescatore tiri fuori dalla tasca un'assicella di canna o di faggio e mentre chiacchiera con i compagni intagli un ago da rete con il coltello o lo rifinisca con una scheggia di vetro.
Fondamentale è sempre stata la disponibilità di una imbarcazione per ampliare i propri confini del campo d'azione e sviluppare e affinare sempre più proficue strategie di cattura.
Disponibilità che è sempre stata difficile per la cronica mancanza di capitali.
Furono le rimesse degli emigranti o i risparmi di lunghi anni di imbarco sui mercantili a consentire lo sviluppo delle piccole flotte pescherecce delle nostre marinerie.
A queste risorse spesso si sommavano i capitali di una piccola borghesia armatoriale investiti in barche e reti.
Affidato il comando a quelli che la comunità riconosceva come più abili, gli armatori riponevano in questi le loro speranze di guadagno.
Se per alcuni mestieri bastava una piccola imbarcazione, ben altri erano i mezzi che concorrevano all'azione di prelievo di pesce azzurro ( 'saiddi', 'anciovi' e 'alacci' ) con le menaidi ( 'tratti' ), o alla pesca con il tartarone ( 'taittaruni' ) e a quella a strascico con la paranza.
Questi sistemi richiedevano imbarcazioni di una certa dimensione, capaci di ospitare un equipaggio di almeno sei persone oltre le reti e le attrezzature.
La loro dimensione di norma oscillava tra i 26 e i 32 palmi anche se non erano affatto rare quelle che arrivavano a 44; queste ultime erano particolarmente impiegate in coppia per rimorchiare le paranze o per la pesca d'altura alle alalunghe..."
giovedì 4 ottobre 2018
QUELL'ULTIMO BAGNO FUORI STAGIONE A CEFALU'
Foto ReportageSicilia |
Le ore di luce pomeridiana diminuiscono, e la sera cominci a desiderare una camicia a maniche lunghe o una giacca leggera.
Nei ripostigli di casa finiscono così costumi da bagno, occhialini, pinne e maschere; e si controllano le date di scadenza dei "solari", nel calcolo di poterli ancora utilizzare l'estate successiva.
In Sicilia, però, il rimessaggio dell'abbigliamento e degli accessori per il mare risulta spesso prematuro rispetto alle concrete possibilità di un bagno fuori stagione.
Così, proprio a fine settembre, capita una giornata di pieno sole e di tepori che invoglia ad un ultimo tuffo in mare dell'anno: il più godibile ed appagante dell'intera annata, lungo la costa ad Ovest di Cefalù.
Si torna allora a casa più felici del solito, con la salsedine autunnale addosso e con la speranza sulla possibilità di un prossimo ultimo bagno fuori stagione: quello appena fatto, è destinato comunque a rimanere a lungo nella memoria.
UNA FATICA FAMILIARE NELLA LAVORAZIONE DEI "PACHINO"
Pomodori "pachino" in essiccazione. Le fotografie sono di ReportageSicilia |
In un angolo di provincia ragusana battuta dal sole e dal vento del mare, oltre un muretto a secco che delimita una strada provinciale, un largo spiazzo di terra è il parcheggio di vecchi camion fermi lì da anni.
L'accesso è libero, malgrado la presenza di un paio di cani randagi consigli di distogliere più volte lo sguardo dal mirino della macchina fotografica.
L'occhio viene attirato dal verde petrolio di un paio di bassi teloni traforati che spuntano dalla cima di una vicina collinetta; fatti alcuni passi, vi si scopre la silenziosa attività di un gruppo di persone intente a dividere a metà rossi cumuli di pomodorini.
Sono i componenti di un intero nucleo familiare della zona: padre, madre, figli e cognati, impegnati da maggio a settembre nella raccolta e nel taglio del "pachino".
Il compito è durissimo, perché i teloni riescono a stento a mitigare i raggi di un sole cocente e perché gli insetti - attirati dal succo delle polpe - ronzano impazziti fra le ceste che raccolgono i pomodorini spaccati in due parti.
Poco distante, il prodotto così lavorato viene sistemato su una distesa di tavole in legno, ricoperte da vecchie lenzuola.
Rimarrà a seccare al massimo per un paio di giorni: è il tempo giusto per evitare che i raggi del sole possano bruciare le migliaia di pomodorini raccolti e tagliati con grande fatica.
Uomini e donne lavorano almeno dieci ore al giorno ed il guadagno è minimo: una volta seccato, i "pachino" secchi saranno rivenduti per poche decine di centesimi al chilogrammo ad alcuni grossisti della Sicilia orientale.
In quest'angolo assolatissimo dell'Isola, il lavoro vive ancora all'ombra dello sfruttamento e della povertà, in condizioni igieniche incerte: una situazione che il passare dei decenni, purtroppo, ripresenta ancora in molte zone agricole della Sicilia.
Il compito è durissimo, perché i teloni riescono a stento a mitigare i raggi di un sole cocente e perché gli insetti - attirati dal succo delle polpe - ronzano impazziti fra le ceste che raccolgono i pomodorini spaccati in due parti.
Poco distante, il prodotto così lavorato viene sistemato su una distesa di tavole in legno, ricoperte da vecchie lenzuola.
Uomini e donne lavorano almeno dieci ore al giorno ed il guadagno è minimo: una volta seccato, i "pachino" secchi saranno rivenduti per poche decine di centesimi al chilogrammo ad alcuni grossisti della Sicilia orientale.
In quest'angolo assolatissimo dell'Isola, il lavoro vive ancora all'ombra dello sfruttamento e della povertà, in condizioni igieniche incerte: una situazione che il passare dei decenni, purtroppo, ripresenta ancora in molte zone agricole della Sicilia.
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