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venerdì 28 agosto 2015

DRAMMI E UMANITA' NELLA SICILIA DEI MIGRANTI

Una pagina di Sciascia, la cronaca delle stragi e la storia sociale dell'isola sul doloroso tema dell'immigrazione 


Una pagina del racconto "Il lungo viaggio"
tratto dal libro di Leonardo Sciascia "Il mare colore del vino",
edito nel 1973 da Einaudi

"Era una notte che pareva fatta apposta, un'oscurità cagliata che a muoversi quasi se ne sentiva il peso. E faceva spavento, respiro di quella belva che era il mondo, il suono del mare: un respiro che veniva a spegnersi ai loro piedi.
Stavano, con le loro valigie di cartone e i loro fagotti, su un tratto di spiaggia pietrosa, riparata da colline, tra Gela e Licata: vi erano arrivati all'imbrunire, ed erano partiti all'alba dai loro paesi; paesi interni, lontani dal mare, aggrumati nell'arida plaga del feudo. Qualcuno di loro, era la prima volta che vedeva il mare: e sgomentava il pensiero di dover attraversarlo tutto, da quella deserta spiaggia della Sicilia, di notte, ad un'altra deserta spiaggia dell'America, pure di notte..."


Era il 1973 quando Leonardo Sciascia descrisse nel racconto "Il lungo viaggio" ( in "Il mare colore del vino", Einaudi ) la traumatica esperienza di alcuni migranti siciliani truffati da un gruppo di scafisti che li avrebbero sbarcati a Santa Croce di Camarina.
Quarantadue anni fa, quelle pagine ebbero quasi un carattere profetico rispetto al dramma epocale delle traversate di migranti lungo le rotte di quello stesso canale di Sicilia.
Di quei viaggi disperati, diventati ormai eccidio di massa, l'isola è diventata negli ultimi anni destinazione di morte o di salvezza.

Una locandina pubblicitaria
di una agenzia di navigazione ragusana
specializzata in viaggi per migranti
dalla Sicilia verso le Americhe, l'Australia e l'India.
L'inserzione è tratta dalla "Guida di Ragusa",
edita nel 1954 da Criscione e Figli 

A coloro che riescono a sopravvivere alle incognite del viaggio - prologo di altri trasferimenti - la Sicilia offre quella accoglienza che è la dote naturale di una terra da cui, nel frattempo, si continua ancora ad emigrare.
Certo, i siciliani non vanno via utilizzando i barconi; l'abbandono del loro luogo di nascita impoverisce però un'isola che con i suoi migranti perde le risorse sociali più motivate a garantirsi un futuro migliore.
Questo post è stato pensato dopo l'ennesima notizia di uno sbarco di massa di migranti a Palermo, 52 dei quali morti per asfissia.

Ciurma di mietitori in attesa dell'ingaggio.
La fotografia venne scatta nel 1956
a Ragusa da Giuseppe Leone.
L'immagine è tratta dal libro
"Il Ragusano, storie e paesaggi dell'arte casearia",
edito nel 1999 da Federico Motta Editore.
Tra il 1951 ed il 1961 i migranti
partiti dalla provincia di Ragusa furono 21.170.
Il dato è contenuto nello studio di Francesco Renda
"L'emigrazione in Sicilia", pubblicato a Palermo nel 1963 

Ancora in questa occasione, la Sicilia è insomma chiamata ad assolvere il suo doloroso ruolo di frontiera Sud dell'Europa, "madre" di tutte le migrazioni: sia dei siciliani andati via negli ultimi due secoli, sia di quelli che da vent'anni arrivano come un fiume in piena - i vivi e i morti - dalle coste della Libia
    

martedì 25 agosto 2015

PASSEGGIATA SULLA CENERE DELL'ETNA



La fotografia della coppia a passeggio su un crinale di cenere delle pendici dell'Etna venne pubblicata nel luglio del 1965 dalla rivista del TCI "L'Italia".
L'uomo e la donna stanno per tenersi per mano, forse per resistere meglio alle folate di vento che spesso spazzano le quote più alte del vulcano.
L'abbigliamento non è proprio il più adatto per un'escursione sull'Etna; la coppia non sembra però essere scoraggiata da una passeggiata in uno scenario solitario e che ricorda la primitiva forza della natura.
Oltre agli abiti, colpisce il dettaglio di una valigia portata con sé dall'uomo. 
Conteneva forse qualcosa di prezioso? Oppure vi erano conservati oggetti capaci di raccontare qualcosa sull'identità della coppia, e di quel loro viaggio in Sicilia?

 
 
 

SICILIANDO














"Venni via dalla Sicilia nel 1951.
Prima giunsi a Milano e stetti da solo quasi un anno.
Una volta che ebbi trovato lavoro come manovale e anche la casa feci venire su la moglie e i figli.
In Sicilia lavoravo sempre ma ero mai pagato, facevo il falegname.
Da quando sono a Milano faccio un pò di tutto: il manovale e anche il facchino.
Il mio maggiore guadagno però è quando faccio le forme per le scarpe, di quelle con la molla che tengono bene la scarpa.
In tempo di fortuna riesco a guadagnare anche 600 lire al giorno.
A Milano mi trovo come tanti altri compaesani miei.
Siamo ormai gente senza patria e si vive dove ci stanno i soldi che ci permettono di vivere"
Sebastiano G., 43 anni, disoccupato, intervista del 1960

IL RISOLLEVAMENTO DELLE COLONNE DEI TEMPLI AD AGRIGENTO E SELINUNTE

Sull'esempio dei lavori compiuti al Partenone di Atene, fra il 1925 e di 1928 anche in Sicilia si mise mano a ponteggi e catene per rimettere in piedi le colonne di due templi. 
La documentazione di un reportage pubblicato nel luglio del 1929 dalla rivista del TCI "Le Vie d'Italia"


I lavori di risollevamento
delle colonne del tempio C a Selinunte.
Le fotografie del post illustrarono un reportage
 che il Touring Club Italiano
dedicò nel 1929 alla riedificazione
delle strutture dell'edificio selinuntino
e del tempio di Ercole di Agrigento.
L'articolo portò la firma di Pirro Marconi,
all'epoca direttore del Museo Archeologico di Palermo

Nel corso dei secoli, i templi delle colonie greche nell'isola hanno vissuto ogni genere di traversie: devastazioni, terremoti ma anche spoliazioni legate al bisogno di nuovo materiale da costruzione.
Soprattutto in epoca medievale, colonne, capitelli, trabeazioni ed altre opere lapidee sono state utilizzate per costruire edifici e infrastrutture militari e civili, come il molo di Porto Empedocle.
Nel secolo XVIII, gli operai recuperarono parte del pietrame dalla valle dei Templi di Agrigento; resti di colonne e fregi architettonici furono così sacrificati per favorire la nascente attività commerciale dei traffici di zolfo.
Nei primi decenni del Novecento, due templi di Agrigento e Selinunte furono invece parzialmente ricostruiti grazie al riadattamento delle colonne crollate nei secoli precedenti.
L'opera di sollevamento compiuta nel tempio di Ercole della valle e di quello selinuntino indicato con la lettera C fu compiuta tra il 1925 ed il 1928; l'iniziativa seguì il clamore suscitato anni prima dalla risistemazione di numerose colonne nella parte centrale del Partenone di Atene, decisa dopo un referendum delle autorità greche fra i maggiori studiosi ellenici.


Le rovine del colonnato del fianco meridionale
del tempio C di Selinunte prima del risollevamento

Le fotografie del post di ReportageSicilia sono tratte dal mensile del TCI "Le Vie d'Italia" del luglio del 1929 e documentano l'intervento compiuto nei dei due templi nell'isola.
Nell'articolo che illustrava le immagini, intitolato "Ricostruzione di Templi Greci in Sicilia", Pirro Marconi - all'epoca dirigente del Museo Archeologico di Palermo - dava merito dei lavori "all'archeologo senatore Paolo Orsi e all'architetto comm. Francesco Valenti e ai due Soprintendenti all'Arte della Sicilia, a cui l'opera è dovuta. In esso uno studio particolare è dato anche al restauro, effettuato con criteri moderni, in cui il buon gusto si sposa al più ortodosso rispetto per le strutture antiche".


Lo stesso colonnato dopo i lavori di riedificazione

Nel suo reportage, Pirro Marconi illustrò anzitutto le motivazioni tecniche che giustificarono la decisione di risollevare alcune colonne dei due templi di Agrigento e Selinunte:

"L'edificio greco è composto, dalla base alla cornice, di blocchi di pietra squadrati perfettamente, in varia forma, secondo il particolare elemento architettonico che essi devono costituire: fondamenta, mura, colonne e trabeazione, tutto è costituito da conci, perfettamente combacianti, collocati uno sull'altro, o con la pura adesione delle superfici in contatto, o uniti con uncini di metallo; in ogni modo, affatto sforniti di malta e di impasti cementizi.


Altra prospettiva del colonnato
dopo gli interventi di ripristino

E', in fondo, una tecnica costruttiva rudimentale e che offriva poca resistenza al peso, e adatta solo a edifici struttivamente elementari quali sono quelli greci, in cui grande spessore di mura e di colonne regge il piccolo peso di un tetto in legno.
Se noi costruissimo adesso così, le mura delle case dovrebbero avere uno spessore di parecchi metri.
Ma è per quella struttura che le rovine greche si prestano ad essere rialzate.
Data questa particolarità, riesce facile immaginare quello che è avvenuto quando, per il concorso di terremoti, intemperie, incendi, devastazioni, i templi sono crollati: mura, colonne, cornici, si sono per così dire slegate, e tutti i conci, i singoli elementi di esse, rimasti sciolti, sono caduti al suolo, conservando la loro forma particolare.


Una panoramica del tempio C al termine dei lavori

Talvolta, nel crollo, le strutture si disordinavano, ma tal altra, in condizioni felici, intere porzioni degli edifici cadevano, conservando sul suolo il medesimo ordine che avevano nella fabbrica, con i conci collocati regolarmente uno dopo l'altro così come erano in posto.
In queste condizioni, e rimanendo nella rovina così smontati gli elementi dell'edificio, il problema della ricostruzione si riduceva a fissare la posizione che ciascun concio aveva avuto nella fabbrica; ed a rimetterli a posto, uno sull'altro.
Era così come ripetere il lavoro già compiuto dai greci, i quali avevano prima, al suolo, tagliato i pezzi dell'edificio, e poi li avevano alzati l'uno sull'altro nell'ordine logico fissato già nella mente degli architetti.


Le rovine del colonnato meridionale
del tempio agrigentino di Ercole
prima dei lavori di riordinamento

Non è chi non veda, posto così il problema, come la ricostruzione degli edifici greci sia perfettamente legittima e sicura; in nulla essa altera o manomette le opere, ma le fa risorgere con la loro stessa materia e con la loro stessa tecnica..."

Quindi, l'archeologo illustrò così gli interventi di ricostruzione compiuti nei due templi:

"Il tempio di ercole ad Agrigento sorge su una collina, l'ultima verso il mare, ed ha il suo lungo fianco parallelo al crinale roccioso del colle; esso è, in ordine di tempo, il primo edificio sacro di Agrigento ( fine del VI secolo ) ed è stato oggetto, in età greca e romana, di vari restauri e rifacimenti.
Non rimaneva di esso che un vasto mucchio di rovine, tra cui s'alzava una sola colonna mozza.
I resti di questo edificio si prestavano ad un lavoro del genere: specie in certe parti, la rovina s'era formata regolare ed ordinata, ed i pezzi al suolo avevano conservato l'ordine pristino; particolarmente quelli del colonnato meridionale e del muro settentrionale della cella.
Le fotografie rendono bene l'evidenza di questo fatto: nell'una, presa dall'alto, si vede nell'interno della cella il muro caduto al suolo conservando il preciso ordine dei filari di conci, e verso sinistra i rocchi disciolti delle colonne, però collocati uno accanto all'altro, come erano nella fabbrica antica.


Le colonne dello stesso tempio
crollate verso Est prima del loro ripristino

Nell'altra, si vedono sul limite della fondazione tutti i rocchi inferiori delle colonne al loro posto, coricati verso l'esterno, con la base corrosa e guasta dalle intemperie.
E' stato questo l'elemento su cui si è posata la scelta dei ricostruttori, che - data la cattiva conservazione dei rocchi di talune colonne, e non volendo per principio rifar nuovo ma solo usare il materiale originale - si sono limitati a rialzare poco più della metà della schiera di colonne sul porticato meridionale; otto di esse sono state risollevate, e quattro completate anche con il capitello.
Il lavoro così non è completo, e soprattutto si sente la mancanza del legame tra le colonne, che restano troppo isolate e sciolte, e sanno ancora un po' troppo di rovina.
Certo, risollevando anche qualche elemento delle mura della cella, sarebbe stato possibile di avere quel senso maggiore della forma del tempio che una fila semplice di colonne non può destare.
Però, malgrado questo, e malgrado che allo stato attuale del lavoro non sia possibile dire di avere conseguito lo scopo finale - soprattutto quello di dare almeno un'idea della meravigliosa coerenza ed unità della costruzione antica - noi dobbiamo pur ricordare quale desolato campo di rovine si stendeva dove ora campeggia il gesto di queste otto vive colonne.



Il tempio di Selinunte sorge sulla collina centrale dell'antica metropoli ellenica, dove era l'Acropoli, il luogo sacro e forte, il gruppo maggiore dei santuari e delle mura robuste.
Più antico di quello di Agrigento, uno dei più antichi della Sicilia ( lo si fa risalire alla fine del VII secolo ), esso era ornato nelle metope del lato frontale di alcuni dei più importanti documenti della scultura greca primitiva ( ora al Museo di Palermo ).
Di esso rimaneva una rovina immane ma completa nei suoi elementi: i cumuli di pietre erano stati difesi contro la rapacità degli uomini dalla malaria; tra di essi era, si può dire, tutto il tempio integro, per il giorno che si fosse voluto sollevarlo.
Come per la fantasia di immani giganti, i colonnati esterni erano collocati, anzi coricati, al suolo con un ordine mirabile; si riconoscevano tutte le colonne, col vario loro numero di tamburi, i capitelli, l'architrave ed i vari membri della cornice; era uno degli spettacoli più imponenti e meravigliosi che potesse offrire la rovina di una città classica.
Anche per questo il lavoro non è arrivato a compimento, dato l'altissimo costo: ma nella parte eseguita abbiamo un modello per i lavori futuri, così precisa, obiettiva, geniale ed estetica è la sua esecuzione.
Finora è stato rialzato il colonnato settentrionale dell'edificio; è da notare la immane asprezza del lavoro, per la necessità di sollevare, ad un'altezza superiore ai dieci metri, blocchi che raggiungono un peso di parecchie tonnellate, e per l'impiego di mezzi meccanici e tecnici assai complicati.



Sono in piedi ben quattordici colonne, di cui la parte maggiore è completata da architrave e trabeazione, fino alla cornice.
Attendendo che il lavoro sia esteso agli altri tre lati del colonnato ed alla cella, nella parte già rialzata possiamo fin d'ora ammirare le qualità dell'architettura dorica arcaica, di cui questo tempio è raro rappresentante; la forma delle colonne, piuttosto pesanti, ingrossate notevolmente nella parte centrale, e il capitello panciuto.
Nell'une e negli altri pare che nella pietra sia espresso in modo quasi umano il senso dello sforzo, dello schiacciamento sotto il peso della cornice, rigida e immota nei suoi elementi definiti; le molte gocce pietrificate, pendenti dallo sporto alla gronda, alleviano, sul finire, la serietà immota del complesso, a cui manca ancora la gaia festosità del coronamento di terracotta policroma ed ornata.
Noi non possiamo non augurarci che queste opere, per ora all'inizio, ma di cui già possiamo presagire gli ultimi risultati, abbiano sempre maggiore impulso, e che Stato e privati concorrano ad estenderle ed a portarle a compimento..." 


  
Ai nostri giorni, il Parco Archeologico di Agrigento è esteso su un'area di 1.300 ettari e gli interventi più urgenti sono quelli che riguardano l'eliminazione di circa 650 costruzioni abusive.
Le procedure, riavviate in questi giorni, procedono faticosamente, fra battaglie legali e pressioni politiche ed affaristiche: un contesto di interessi assai lontano dai tempi delle pioneristiche ricostruzioni dei templi d'inizi Novecento. 
  

giovedì 20 agosto 2015

PESCATORE DI SPUGNE A LAMPEDUSA


Già in passato ReportageSicilia ha dedicato un post alla storica pesca delle spugne nell'isola di Lampedusa http://reportagesicilia.blogspot.it/2012/08/la-breve-epopea-delle-spugne-lampedusane.html.
L'occasione di tornare sull'argomento è ora offerta da questa fotografia tratta dalla rivista "L'Italia", edita dall'ENIT nel marzo del 1977.
L'immagine mostra il lavoro di un ignoto pescatore impegnato nelle operazioni di pulizia delle spugne dai detriti animali e vegetali.
Lo scatto non ha un'attribuzione né una datazione; documenta gli ultimi anni di diffusione di un'attività di pesca entrata in crisi già alla vigilia del secondo conflitto mondiale. 
Ancora oggi a Lampedusa si pescano e si vendono spugne, a beneficio di turisti e cultori di un prodotto naturale che per decenni mise in competizione nelle proprie acque i lampedusani con i pescatori di Torre del Greco e greci. 
 
 

mercoledì 19 agosto 2015

UNA CELEBRAZIONE GARIBALDINA NELLA DEPRESSA SICILIA DEL 1960

Fotografie di un viaggio del Touring Club Italiano nel centenario dello sbarco dei Mille in Sicilia, fra commemorazioni ufficiali ed un riferimento ai vecchi e oggi ancora irrisolti "mali" dell'isola


L'omaggio di una corona di bronzo
di una delegazione di 400 soci del Touring Club Italiano
al busto di Giuseppe Garibaldi, nel 1960, a Marsala.
Quell'anno, in occasione del centenario dell'impresa dei Mille,
la Sicilia fu al centro di numerose celebrazioni dell'evento.
Le fotografie del post vennero pubblicate
nell'agosto del 1960 dalla rivista del TCI "Le Vie d'Italia"

Nel maggio del 1960 ebbero inizio in Italia una serie di celebrazioni per il centenario della spedizione garibaldina dei Mille.
Furono così organizzati convegni, ristampate biografie di Giuseppe Garibaldi e storie dell'impresa delle camicie rosse; i filatelici accorsero presso gli sportelli postali per acquistare una serie di francobolli dedicata alla spedizione sbarcata a Marsala.
Proprio la cittadina trapanese fu al centro di varie iniziative, culminate nella visita del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.
La sua presenza in Sicilia era stata caldeggiata durante un incontro al Quirinale dal Presidente della Regione Benedetto Majorana della Nicchiara, che dinanzi a Gronchi aveva decantato con enfasi le gesta di Garibaldi nell'isola.
Nel ricordo dei Mille, sbarcarono in Sicilia nel 1960 anche 400 soci del Touring Club Italiano, partiti da Genova a bordo della "Franca C." della Linea "C". 
Tra i loro bagagli, vi furono alcune corone di bronzo destinate ad adornare busti commemorativi e monumenti garibaldini incontrati durante l'itinerario commemorativo. 
Le fotografie di quel viaggio riproposte da ReportageSicilia vennero pubblicate sulla rivista "Le Vie d'Italia" nell'agosto di quell'anno.
Alle tradizionali tappe del tour garibaldino - Marsala, Calatafimi, Salemi, Milazzo, Palermo - si aggiunsero durante quel tributo del TCI alcuni eventi istituzionali con rappresentanti della politica locale.


La visita all'obelisco di Calatafimi

Nelle pieghe retoriche  dei  discorsi ufficiali, affiorò allora il riferimento alle condizioni di arretratezza che nemmeno il centenario dell'impresa dei Mille aveva cancellato in Sicilia:

"Un grande, moderno albergo - si legge nel reportage de "Le Vie d'Italia", siglato G.V.accoglie i croceristi a un pranzo onorato dai rappresentanti delle Autorità statali e della Regione Siciliana e da numerosi Consoli e amici del TCI.
Al saluto del nostro Presidente, che recò l'omaggio dei Soci alla Sicilia in occasione delle celebrazioni centenarie e sottolineò il contributo delle comitive guidate dal TCI come strumenti della conoscenza e della comprensione fra le varie regioni d'Italia, rispose, in rappresentanza del Governo Regionale, l'Assessore al Turismo, allo Spettacolo e allo Sport della Regione rilevando l'importanza del turismo come lievito di progresso dell'economia italiana e auspicando un più intenso afflusso di turisti italiani che contribuiscano alla comprensione dei problemi siciliani..."    

Già molti anni prima del 1960 e delle sue celebrazioni garibaldine, la storiografia meridionalistica e numerose inchieste sociologiche e giornalistiche avevano in evidenza i mali profondi sofferti dal Sud e dalla Sicilia; analisi e denunce oggi drammaticamente rilanciate dall'ultimo rapporto Svimez sul Mezzogiorno http://www.svimez.info/index.php?lang=it.


La visita al tempio trapanese di Segesta

Le conclusioni dell'istituto di ricerca sulla desertificazione economica e sociale del Meridione ricalcano quelle presenti nelle pagine di oltre mezzo secolo fa:  

"Sono bastati cento anni - scriveva proprio in quel 1960 Bruno Segre ( Il prezzo del Nord, Vallecchi Editore )- perchè un solco profondissimo si sia aperto fra due parti di una stessa nazione.
Mentre al Nord ( specialmente nel famoso triangolo industriale ) il tenore di vita ha raggiunto livelli europei di benessere, ed è possibile fare un raffronto non troppo svantaggioso tra Milano e Francoforte, o fra Torino e Bruxelles, al sud si vive ancora in troppe parti ad un livello miserando e tremendo: mentre al Nord vi sono operai specializzati che possono permettersi il lusso di comparsi l'automobile e di fare le ferie al mare, al sud si vive ancora in cinque, in dieci, in dodici per stanza.
Il progresso tecnico e civile, dunque, che dovrebbe essere un portato della storia, ha camminato solo per una parte del nostro Paese; l'altra è progredita troppo lentamente, quando non è rimasta ferma, quando addirittura non è regredita.
La Commissione Parlamentare che nel 1953 condusse un'indagine sulla miseria, scoprì situazioni raccapriccianti, livelli di vita da Paesi asiatici. 
Sfogliamo a caso un volume: 
'A Licata circa 3.000 famiglie, per un totale di 14.000 persone ( su 40.000 abitanti ) vivono in abitazioni di un solo vano, privo di servizi igienici.
Nella zona collinosa circa un migliaio di persone vivono in coabitazione con gli animali.
A Bonpensiere, in provincia di Caltanissetta, si macella il manzo una o due volte l'anno. Circa una metà della popolazione vive con gli animali.
A Favara, su 7.000 nuclei familiari, circa 4.000 abitano in case di un solo vano o quasi.
A Modica, circa 1.500 famiglie vivono in case inabitabili, 960 in grotte nella collina rocciosa.
Nulla oggi lascia sperare che le cose siano cambiate.


I pullman del tour siciliano dei soci del TCI
sul belvedere palermitano del monte Pellegrino

Sono trascorsi sette anni, gli italiani hanno ignorato e continuano ad ignorare quella inchiesta, e a Licata si continua a vivere in case di un solo vano e senza servizi igienici.
E se in sicilia ci sono persone che muoiono di fame, neonati che non possono essere nutriti perché manca il latte, non importa: arriverà sempre un festival televisivo o un matrimonio regale a distrarre il nostro pensiero, a sollevare la nostra facile coscienza..." 
  

lunedì 3 agosto 2015

DISEGNI DI SICILIA


GIULIO D'ANGELO, Locandina promozionale ENIT, 1947

IMMAGINI DI LIPARI DI PATRICE MOLINARD

Pubblicate in Francia nel 1956, due fotografie in bianco e nero documentano scene di vita quotidiana nella più grande delle isole Eolie

  
Le due fotografie riproposte da ReportageSicilia vennero scattate a Lipari da Patrice Molinard e pubblicate nel 1957 nell'opera "La Sicile", edita a Parigi nel 1956 da Del Duca per la collana "Couleurs du Monde", con testi di Jean-Louis Vaudoyer.
La prima ritrae uno scorcio del porto; la seconda la chiesa dell'Annunziata, a metà strada del monte Sant'Angelo.
Le immagini di Molinard testimoniano la vita quotidiana delle maggiore fra le isole Eolie negli anni in cui l'arcipelago stava iniziando ad ospitare i primi flussi turistici, soprattutto stranieri.
Nel 1962, Gino Cerrito avrebbe così raccontato l'evoluzione demografica durante tre secoli a Lipari e nelle altre isole:   

"Finito il periodo delle depredazioni piratesche, alla fine del secolo XVII, Lipari accolse popolazioni calabresi e campane in gran numero; e queste ripresero e incrementarono le coltivazioni nelle varie isole e ristabilirono le relazioni commerciali con Napoli e la Sicilia.
Nei secoli seguenti le vicende di Lipari sono quelle della Sicilia e, in modo particolare, della provincia di Messina, alla quale venne assegnata nel periodo borbonico.
Costituitosi poi il regno d'Italia, l'arcipelago vide rifiorire la sua economia, mediante la valorizzazione del suo materiale vulcanico ( particolarmente della pomice di cui è ricco il versante nord-orientale dell'isola di Lipari ) e della sua posizione come scalo marittimo.
Questi progressi notevoli ebbero ripercussioni sulla popolazione, che da 15.300 abitanti nel 1850, passava a 19.130 nel 1861 e a 22.840 nel 1881.


Sennonché, questo straordinario aumento della popolazione in isole fondamentalmente povere non giovò all'economia dell'arcipelago: sia perché comportò un ulteriore polverizzazione della proprietà rurale, sia perché intorno al 1880 Lipari non venne più toccata con sistematicità dalla navigazione di cabotaggio tra Napoli e la Sicilia per effetto dell'introduzione della navigazione a vapore ed in conseguenza della riduzione dei traffici, dovuta alla costruzione della carrozzabile Reggio Calabria - Napoli, prima, e della strada ferrata meridionale, poi.
Iniziò quindi una massiccia emigrazione dalle isole verso gli Stati Uniti e poi verso l'Australia, con punte di 700 unità annue nel periodo 1900-15.


La popolazione venne così a diminuire gradualmente, fino a raggiungere, nel 1921, la cifra di 17.000 unità ed a rimanere ferma su tale cifra fino al 1941.
Nel secondo dopoguerra, il deflusso riprese, sicché nel censimento del 1951 la popolazione delle isole era di soli 14.250 abitanti, per i quali in quest'ultimo decennio, con la valorizzazione delle Eolie e con i servizi rapidi che la collegano a Milazzo e Messina, si va aprendo una nuova promettente fonte di vita..."

   

domenica 2 agosto 2015

RICORDI NETINI DI CORRADO SOFIA

L'"aria greca" e le facezie della vita quotidiana di Noto in una pagina del giornalista pubblicata nel 1953 dalla rivista "Tutta Sicilia"


Lo scenografico edificio
del convento del SS. Salvatore a Noto.
La fotografia è di Ezio Quiresi
ed insieme alle altre immagini del post è tratta
dal volume "Sicilia", edito dal TCI nel 1961
per la collana "Attraverso l'Italia"


Il nome di Corrado Sofia ( Noto, 1906-1997 ) appartiene a quella eccellente schiera di giornalisti, saggisti e uomini di penna siciliani messi impropriamente in ombra dai più noti scrittori dell'isola del Novecento.
A riscattarne il ricordo è stato Corrado Stajano, netino per parte di padre e lucidissimo narratore di vicende, luoghi e personaggi di Noto e della Sicilia.
Stajano incontrò per la prima volta Sofia nel 1992, nella sala grande di palazzo Ducezio
Conobbe allora un distinto signore "con i suoi capelli bianchi, il suo bastoncino dal pomo d'argento" tornato per sempre a Noto ( in una casa tra i gelsomini e gli eucalipti, a Serra di Vento ) dopo una lunga carriera trascorsa a Roma ed all'estero.
Anni dopo, lo avrebbe ricordato così in "Patrie smarrite - Racconto di un italiano" ( Garzanti, 2001 ):

"Avevo sentito parlare di Corrado Sofia forse da sempre, giornalista illustre e colto. 
Viaggiatore nell'Etiopia di Ailé Selassié, nella Cina di prima e dopo Mao Tse-tung, nel'Unione Sovietica degli anni Trenta. Ne aveva cavato articoli per i grandi giornali e libri.
Aveva scritto sulla Sicilia e su Noto.


Passeggiata solitaria lungo la via Nicolaci,
nei pressi di palazzo Villadorada.
Fotografia di Ezio Quiresi, opera citata

Intellettuale dei tempi del fascismo, legato al gruppo solito riunirsi al Caffè Aragno, che faceva, appunto, la fronda da caffè, con Amerigo Bartoli, Vincenzo Cardarelli, Mino Maccari, Gian Gaspare Napolitano, Alfredo Mezio, Sandro De Feo, Ercole Patti.
Aveva scritto sul 'Tevere', il quotidiano razzista di Telesio Interlandi, siciliano di Chiaramonte Gulfi che dirigerà poi anche il giornale più odioso e torbido dei tempi del fascismo, 'La difesa della razza'.
Ma Corrado Sofia era soltanto una persona gentile, dalla voce carezzevole. 
Una naturale innocenza gli aveva permesso di passare, inconsapevole e indenne, attraverso tutti gli orrori del fascismo, della politica, della guerra.
Senza danni, travagli, tormenti"

Negli ultimi anni di vita, Corrado Sofia pubblicò un saggio dedicato alla sua isola, "Gente di Sicilia" ( Il Lunario, Enna, 1995 ).
In precedenza, tracce del suo stretto rapporto con Noto emergono in articoli giornalistici o reportage pubblicati in periodici e quotidiani.
Quello riproposto da ReportageSicilia è un racconto poco conosciuto apparso sul mensile di turismo e artigianato "Tutta Sicilia", edito a Catania nel marzo del 1953 da Edizioni Camene.


La strada fra il fianco del palazzo vescovile
e il convento del SS.Salvatore.
Fotografia di Ezio Quiresi, opera citata 

Lo scritto è il nostalgico ricordo di una Noto in cui la vita quotidiana era scandita da quella "noia di provincia" in cui vecchi baroni imponevano ancora il loro antistorico rango; o in cui personaggi "intelligenti ed estrosi" vivevano di scherzi e facezie, a smuovere l'indolente scorrere dei giorni, fra gli incontri ai tavolini del bar e un gelato al pistacchio di don Alfonso Finocchiaro.
Nei ricordi di Sofia, Noto rimane città di impronta ed "aria greca"; ma la coscienza del valore dell'architettura barocca si impone nella denuncia del moderno sfregio subìto già allora dai suoi preziosi edifici:     


"Sorge sulle ultime colline che digradano dolcemente verso lo Jonio, nella punta più a Sud della Sicilia.
Qualche chilometro ancora più a Sud trovate soltanto Pachino, costruito sulla piana, mentre la prerogativa di Noto è di sorgere sopra colline di mandorli e di carrubi.
Dall'alto si possono vedere i treni che salgono verso il continente, che dal fondo dell'isola affrontano il viaggio dell'Europa.
Nel silenzio, attraverso lo spazio, giunge il fischio delle locomotive, il rumore dei vagoni sulle rotaie.
Ogni giorno, a quasi tutte le ore, ci sono treni che passano e chi vi ha fatto l'orecchio riesce a distinguere i convogli: il merci, il diretto, il misto viaggiatori, l'automotrice a nafta.
C'è un treno che passa all'alba con un richiamo così penetrante da portarvi via l'anima; e quando ci penso, penso sempre che è stato questo richiamo a staccarmi dalle colline del mio paese dove la vita, dopo tutto, sarebbe trascorsa abbastanza tranquilla.


Una veduta aerea di Noto.
L'immagine è di Fotocielo-Roma.
Opera citata

Partire come racconta Olescia: 'Essere nato in un villaggio dell'Occidente e una mattina mettersi in viaggio verso la città', lasciare queste colline, questi alberi, il mandorlo preferito, il ramo che ricorda l'abbronzato braccio della fanciulla con cui passeggiammo una sera, dare l'addio a tutto questo e andar via, ecco in breve la mia piccola storia.
Tuttavia proprio la memoria del fischio di un treno, al mattino, mi riconduce sempre laggiù, alle stesse colline.
Una città costruita a tre piani, uniti tra loro da lunghe e ripide scalee, da straducce e vicoli acciottolati con le pietre bianche del fiume.
Siccome la città è disposta di fronte al sole quando tramonta, le pietre dei palazzi hanno preso col tempo la coloritura del sole e nei momenti che precedono e seguono il crepuscolo la città si illumina, si trasfigura, diventa dorata e poi vermiglia come un'arancia sanguigna.
La pietra è dolce, bianca come la calce quando viene estratta dalle cave, abbastanza tenera e piacevole da lavorare tanto che da generazioni gli scalpellini la intagliano con un'abilità sorprendente, come se ognuno avesse un motorino nella mano.
Noto ha il pregio di essere stata costruita tutta insieme, in un solo momento, con una unità architettonica che ancora si riconosce e secondo un ambizioso progetto quando la vecchia città, il cui nome più antico è Nea, che sorgeva in alto, sulle montagne, molto più addentrata di adesso, rimase distrutta dal terremoto e venne abbandonata; e ora da quelle parti non gira che qualche mandriano e fra le pietre sono cresciuti gli ulivi, i lamponi e le piante grasse.
La città vecchia era una delle più antiche e importanti della Sicilia.
Tutti sanno che nelle vecchie carte il territorio di Noto si estendeva fino a Catania, quando la Sicilia era divisa in tre valli o province.
Quella più a Sud, nell'angolo fra i due mari, Jonio e Mediterraneo, portava appunto il nome di Val di Noto, e la città era grande per quei tempi: la nuova fu costruita tenendo d'occhio il passato, le antiche glorie e i casati, cioè con palazzi gentilizi, atrii, portali, balconi, mensole, fregi, in uno stile che si chiama barocco coloniale, che ha dato molto lavoro agli studiosi perché, a quanto pare, si tratta del migliore esempio di tale barocco.



Per così dire, il canto del cigno del barocco in ordine di tempo, l'ultima meravigliosa espressione: per cui queste pietre andrebbero tenute con riguardo, spolverate con piumini come se fossero gingilli di lusso, liberate da sovrastrutture fasulle da erbe selvatiche o dal fumo di improvvisati camini che le deteriorano.
Il sovraintendente ai restauri, Cesare Brandi, trovandosi un giorno a Londra, sentì parlare di Noto da alcuni studiosi inglesi in termini talmente elogiativi che arrossì nel non conoscere questa città e rimpatriando continuò il viaggio fino in fondo alla Sicilia per colmare la sua lacuna.
Ma la sopraelevazione di un secondo piano sul municipio, che prima faceva pensare ad un adorabile piccolo tempio greco, aveva già tolto gran parte dell'armonia al centro del nostro paese.
Noto non va ricordata soltanto per il suo barocco.
C'è l'aria che si respira che è ancora l'aria della Grecia.
Capita ad ogni passo di vedere spettacoli che fanno pensare alla Grecia.
Senza saperlo, il popolino dipinge le proprie case, oltre che in bianco, in celeste chiaro o in amaranto, i colori dei villaggi greci.
E lungo la spiaggia può accadere che i carrettieri stacchino i cavalli e nudi sui ronzini corrano su una spiaggia sparsa di gigli, ed entrino nel mare come primitive figure dell'Ellade.
Sono passati i greci, i romani, i mori, i normanni, l'altro ieri sono passati gli americani e gli inglesi, e don Alfonso Finocchiaro continua ancora a preparare gelati, torroni, paste di mandorla come faceva qualche suo avolo.
Forse non saprà industrializzare il prodotto, ma con quanto amore, come se ritoccasse opere d'arte, si indugia a colorire fichi e mandarini.
Ci sono anche alcuni tipi, dentro le case o seduti ai tavolini dei caffè, che meriterebbero un piccolo cenno, giacchè si tratta di individui intelligenti, estrosi, che sanno inventare scherzi divertenti per ammazzare la noia della provincia.
Come quel vecchio barone che si accaniva a fare il distratto per mettere alla prova la pazienza di un cameriere.
Si sedeva al caffè e chiedeva:
'Tano, che c'è?'
'Signor barone, c'è gelato di fragola, cedro, pistacchio, cioccolato, torroncino'
'Albicocco', diceva il barone.
'Signor barone, albicocco non c'è'
'E allora che c'è?'
'C'è fragola, cedro, pistacchio, cioccolato, torroncino'
'Albicocco', insisteva l'altro.
'Ma signor barone, ci dissi che l'albicocco non c'è'
'E allora che c'è?' E così il dialogo poteva durare all'infinito.



Oppure il tipo che cuciva le maniche dei cappotti agli amici del palco vicino nelle serate in cui al teatro si dava l'opera; o nell'ora della canicola, in estate, quando tutti dormono e non rimangono sveglie che le cicale, andava a chiamare d'urgenza qualcuno e gli diceva di scendere giù nella strada, così come si trovava, cioè in pigiama, magari un pigiama stinto e rattoppato, lo faceva salire in macchina accanto a lui con la scusa di rivelargli chi sa quali notizie, e quando era seduto avviava il motore e partiva alla volta di Catania o di Taormina.
Adesso sarebbe una cosa normale, non spaventerebbe nessuno andare in pigiama da una città all'altra, adesso che questa moda è penetrata anche quaggiù; ma si pensi alla Sicilia di anni addietro quando non si usciva di casa se non vestiti completamente di scuro da cima a piedi, col colletto e i polsini amidati e il gilet abbottonato fino all'ultimo occhiello.
Un'avventura spiacevole capitò ad un altro barone che trascorreva gran parte della sua giornata affacciato al balcone a osservare la gente che passava sotto di lui e naturalmente non mancava di riverirlo.
C'era un tipo nella nostra città che non voleva cambiare strada, ma non ammetteva quella specie di ossequio obbligatorio, sicché gli passava sotto il balcone senza togliersi il cappello ed era la cosa che più angustiava il barone che qualcuno passasse sotto i suoi balconi senza salutarlo.
Allora un giorno ordinò al servo di comprargli al mercato un paio di corna di quelle che si appendono alle porte contro la jettatura e di collocarle nel mezzo della strada proprio nell'ora che l'altro era solito passare, in modo da ricordargli quello che il barone pensava di lui: cioè che era un grosso cornuto.
L'altro scorgendo da lontano le corna capì l'allusione; per la prima volta si tolse il cappello con un inchino:
'Baciamo le mani, signor barone'
'Ehi, Filippo - disse il barone - mi pare, se non sbaglio, che hai perduto qualcosa'
'No, signor barone - rispose lui di rimando - le mie corna sono ancora qui ( e si tocco la fronte ) queste debbono essere cadute dal balcone di vostra eccellenza'.
E' una città per di più che ha il culto della musica.
E' rimasto famoso quel tipo che di notte saliva dalla sua amante lasciando il garzone di guardia alla porta con l'incarico di fischiettare 'Casta diva' se si fosse presentato qualche pericolo.
Accadeva che il giorno dopo al suo passaggio fischiettano quel motivo" 






sabato 1 agosto 2015

SICILIANDO














"I siciliani sono per temperamento e per tradizione causidici, puntigliosi e formalisti.
Nessuno vuole assumersi responsabilità precise al vertice, mentre alla base tutti sono pronti ad attaccarsi al cavillo per rinviare, per non fare"
Livio Pesce

LA PALERMO MAESTOSA E MISERABILE DI GIUSEPPE FAVA


Il volto e l'anima della città e dei palermitani in una spietata e attuale pagina pubblicata nel 1981 nella raccolta di inchieste "I Siciliani"

Palermitani ritratti ai Quattro Canti di piazza Vigliena
agli inizi degli anni Sessanta dello scorso secolo.
Le fotografie del post sono tratte dall'opera "Sizilien",
edita nel 1964 da Walter-Verlag
a cura di Eberhard Horst e Josef Rast

Nato a Palazzolo Acreide, testimone scomodo e narratore senza reticenze delle contraddizioni che hanno segnato le cronache siciliane del secolo scorso,  Giuseppe Fava ha legato la sua vita e la sua morte per mano mafiosa alla città di Catania ( "un giorno giunsi a Catania e vi restai per sempre. Accadde molti anni fa. Ora io sono diventato profondamente catanese, i mei figli sono nati e cresciuti a Catania, qui ho i miei pochissimi amici ed i miei molti nemici, in questa città ho patito tutti i miei dolori di uomo, le ansie, i dubbi, ed anche goduto la mia parte di felicità umana..." ).
Inchieste e considerazioni sui mali dell'isola, messe a tacere il 5 gennaio del 1984, costituiscono oggi una preveggente chiave di lettura dell'attuale abulica stagnazione della Sicilia
Si può dire che l'isola del 2015 - con i suoi irreversibili dissesti economici e sociali, con una mafia silente ma sempre tenacemente radicata - viva una condizione di deriva le cui origini sono state oggetto di molte inchieste condotte da Fava nel corso di tre decenni.  
La sua lucida visione dei fatti ha offerto pagine di folgorante verità sulla realtà della Sicilia e dei siciliani.


Uno di questi scritti descrive efficacemente il carattere di Palermo e dei suoi abitanti, individuandone le infinite e contorte identità di città "dove la ricchezza e la miseria sono oltraggiose e profonde":     

"In realtà - si legge ne "I siciliani" ( Cappelli Editore, 1981 ) - Palermo è bellissima, in maniera quasi tracotante.
Non esiste in tutto il Sud d'Italia una città che non sia così bella, ma in bella in un modo particolare, in modo sprezzante, con uno sperpero continuo e oltraggioso di se stessa; palazzi di sovrani dove le ricchezze e le arti si sono concentrate per secoli, e subito accanto i quartieri osceni, lugubri, pavimentati di sterco, le case dove invece si sono concentrati gli elementi della miseria, i letti l'uno accanto all'altro nella stessa stanza, i pidocchi, il buio, la malattia.
Lo spreco, l'indolenza, la maestà decadente.


Lungo la periferia si aprono quartieri che hanno ancora le fondamenta macchiate di sangue. Per ogni area edificabile ci furono morti, uomini rincorsi e straziati in mezzo alle strade, ed ora si spalancano grattacieli di marmo, con i giardini sulle terrazze.
Al centro della città invece si ergono antichi palazzi che da soli potrebbero fare l'orgoglio architettonico di una città, e sono però spaccati, deserti, i balconi sfondati e bui.
Chiese, cattedrali che non hanno eguali, un groviglio di fantasie e genialità, mosaici di oro, giardini di incredibile opulenza, reggie per le quali consumarono la vita migliaia di operai e si impoverirono per decenni le popolazioni, ed alle loro spalle strade profonde come burroni, dove il sole penetra un attimo, a mezzogiorno, un lampo, una lama di luce su un vermicaio di essere umani, su una continua putrefazione umana, migliaia di lenzuoli immobili alle ringhiere come sudari, cani, gatti, bambini; le pareti delle case sono intrise di un sudore fetido, i vecchi e gli ammalati stanno definitivamente lì dentro, come in un anticipo della tomba, immaginano che il paradiso sia semplicemente un letto sul quale sdraiarsi per sempre.


Nel centro di Palermo hai la straordinaria impressione che, accanto ad un nobilissimo quartiere della Roma pontificia, si sia incastrato, anzi sovrapposto un paese come Palma di Montechiaro.
Non esiste forse alcuna altra città italiana dove la ricchezza e la miseria sia così profonda e oltraggiosa.
L'anima della città assomiglia al suo volto.
Giustamente è la capitale dell'isola, poiché ne rappresenta il costume come su un palcoscenico. E si fa pagare per questo, cioè accetta di recitare il personaggio ed il ruolo di capitale a patto che la mantengano, a patto che tutti gli altri sudditi accettino di pagarle la sua magnificenza ed i suoi vizi...




In definitiva, Palermo è la capitale che noi siciliani meritiamo poiché ci rappresenta perfettamente: la sua alterigia e miseria, la sua antica maestà e corruzione, il disordine mentale, il disfacimento dell'antica bellezza, la prosopopea culturale, la prevaricazione politica, la violenza elevata ad infallibile sistema di potere, il servilismo come unico infallibile modo di resistere alla violenza assoggettandosi.
Infinite cose che accadono in Sicilia rassomigliano a questa immagine.
Resta da capire se in questo dopoguerra è stata Palermo a fare lentamente una Sicilia a sua somiglianza, disposta cioè a lasciarsi governare con l'intrigo, il clientelismo, lo sperpero, l'arricchimento e la potenza dei pochi contrapposti alla sofferenza dei più, leggi a favore delle tribù e dei feudi, disprezzo per gli immensi problemi collettivi, oppure è stata la Sicilia con le sue infinite miserie anche mentali, il brulicare dei suoi individualismi, rancori, sordide avidità paesane, a costruirsi una capitale a sua immagine e necessità, capace perciò di tutte le corruzioni, violenze, congiure, complicità, assoluzioni...
L'istituzione dell'autonomia regionale, con una indipendenza amministrativa e politica praticamente senza eguali in tutti gli ordinamenti costituzionali europei, la contemporanea moltiplicazione di enti ed istituti di governo, l'ingigantimento degli interessi economici e finanziari, hanno dilatato gradualmente l'importanza sociopolitica della città.
In realtà Palermo è stata sempre una capitale, ne ha posseduto sempre la definizione, l'albagia, il potere, diremmo quasi una predestinazione.
E' stata addirittura costruita perché fosse capitale.


Il carattere della sua popolazione è stato sempre quello dei cittadini di una capitale...
Prima migliaia di persone, poi decine di migliaia, centinaia di migliaia hanno gonfiato orribilmente il suo tessuto urbanistico, hanno divelto il suo schema di vita, hanno portato o imposto nuove necessità, fabbisogni, vizi.
I nuovi cittadini sono arrivati da tutte le parti.
I politici, i funzionari, i tecnici, gli impiegati, i presidenti, i direttori, i vicepresidenti e vicedirettori, i segretari, e dietro costoro la folla dei clienti, degli amici, dei parenti, degli elettori, ed ancora tutti coloro i quali intravedevano una possibilità di sistemazione, uno stipendio, una carica, un posto, un terreno fertile per i loro imbrogli, o più semplicemente un improvviso spiraglio per risolvere il loro fallimento umano...
In questa città, quasi nessuno ha portato buona volontà di lavoro, idee, entusiasmo, concorrenza, denaro, intelligenza.
Quasi tutti sono venuti per prendere qualcosa, in qualsiasi maniera, offrendo in cambio cose senza valore economico: la propria dubbia devozione, qualche migliaio di voti, qualche raffica di mitra.
Non vogliamo fare qui una nuova storia della mafia, ma semplicemente raccontare come la improvvisa investitura a capitale abbia dapprima gonfiato Palermo, poi l'abbia fatta straripare tumultuosamente in tutte le direzioni, senza un ordine preciso, senza nemmeno una logica sociale e politica...


In questa crescita tumultuosa, apparentemente cieca, e tuttavia sempre oscuramente controllata, fiorivano come sempre accade nelle grandi trasformazioni civili, anche ansie culturali e artistiche improvvise, ribellioni sociali e poetiche; basti pensare che proprio dall'humus palermitano sono germinati Guttuso, Bruno Caruso, Tomasi di Lampedusa, Buttitta, Pino Caruso, lo stesso Leonardo Sciascia, una generazione di talenti che però Palermo ha praticamente disperso, voci di bellezza, verità, disperazione che Palermo ha rifiutato..."