Translate

sabato 31 ottobre 2020

I PALADINI DI SEBASTIANO MILLUZZO

 


GLI IGNOTI CAPIMASTRI E SCALPELLINI GREGARI DEL "LIBERTY" SICILIANO

Il portico d'ingresso 
di un edificio del periodo "Liberty"
in un bosco del palermitano.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Accanto ai più noti esempi dell'edilizia monumentale e residenziale, della scultura e delle così dette "arti minori", il Liberty siciliano ha lasciato molte tracce del lavoro di decine di semplici capimastri-scultori: anonimi costruttori di edifici in cui vennero riproposti temi architettonici e decorativi di quell'Art Nouveau che tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento ebbe ampia e più nota espressione a Palermo e nelle altre città dell'Isola.



"Essi operavano spesso in proprio - si legge nel saggio di Eugenio Rizzo e Maria Cristina Sirchia "Sicilia Liberty" ( Libreria Dario Flaccovio Editore, Palermo, 1986, pp.18-19 ) - senza la direzione di un architetto: L.Maiorca di Francavilla infatti, nel suo opuscolo relativo alla storia del Palazzo di famiglia sito in piazza Verdi, testimonia che alla fine dell'Ottocento gli ingegneri e gli architetti costituivano un'esigua schiera; ad essi si ricorreva solo eccezionalmente mentre per il lavoro di manutenzione e per le piccole fabbriche era ritenuta sufficiente l'opera dei capimastri.



Questo costume è comune a tutta la Sicilia come attesta la tradizione orale dalla provincia di Trapani a quella di Ragusa; nei centri meno evoluti esso si perpetua in tutta la prima metà del Novecento.

Non di rado dunque ci imbatteremo in costruzioni ideate e realizzate da semplici capimastri..."

Uno di questi edifici - una palazzina rurale immersa in un bosco della provincia di Palermo - versa da qualche decennio in stato di abbandono.

La fabbrica, strutturata su un piano terra ed una prima elevazione, si presenta sostanzialmente integra; l'ingresso è scandito da un portico colonnato che sostiene una terrazza che offre una magnifica vista sulle vallate circostanti.



Qua e là, si scorgono modanature e fregi frutto dell'estro di ignoti capimastri e scalpellini locali.

Il loro fu un ruolo da umili gregari di quella cultura del Liberty che, anche nei suoi protagonisti più noti, ha finito a volte col riproporre un'arte diventata semplice ripetizione di se stessa.      


lunedì 19 ottobre 2020

GLI INSOSTENIBILI ONERI DELLE SFARZOSE VILLE DI BAGHERIA

Il prospetto di villa Larderia,
a Bagheria, privo di balconi.
Foto tratta da "Le ville di Palermo",
opera citata


Sontuose ville punteggiarono la piana agricola di Bagheria soprattutto nel secolo XVIII, quando le famiglie aristocratiche del tempo gareggiarono in sfarzosità nel costruire scenografiche dimore di villeggiatura, non lontano da Palermo.

Sembra che il costo di villa Palagonia - una delle più note residenze bagheresi del periodo - abbia superato quello di qualsiasi altra coeva villa palermitana, con l'utilizzo di materiali pregiati e di opere di scultura mai prima esibite in edifici rurali.

Capitava così che i proprietari abituati all'impiego del marmo di Billiemi e di complessi apparati decorativi non riuscissero a terminare l'originario progetto della villa, dilapidando i propri averi nell'acquisto del materiale e nel pagamento di operai ed artigiani.

E' quanto forse accadde - secondo quanto riferito nel 1965 da Gioacchino Lanza Tomasi - per villa Larderia, oggi inglobata nel centro urbano di Bagheria ed i cui lavori furono interrotti dalla famiglia Moncada nel 1753, pochi mesi dopo l'apertura del cantiere.

Lanza Tomasi ricordò così le dissennate spese economiche sostenute per la costruzione di molte dimore di villeggiatura nel palermitano:

"La villa Larderia costruita verso la metà del Settecento - si legge in "Le ville di Palermo", Edizioni "Il Punto", Palermo - è l'unico esempio di residenza a pianta stellare che s'incontri nel palermitano.

Essa rimase incompiuta, in quanto dopo l'apertura del Corso Butera, i suoi spazi vennero subito occupati dalle nuove arterie bagheresi e la fabbrica sbozzata, passò presto in mano di una congregazione religiosa.

Le membrature superstiti del finestrone, i timpani e le mensole, che non ricevettero mai i balconi, ne fanno un relitto suggestivo ed imponente.

L'incompletezza delle fabbriche non è un fatto raro in una società che stentava a misurare le sue reali forze economiche, molte fra le ville maggiori furono costruite ( e potevano arrestarsi spossate per esaurimento di questi temporanei rinsanguamenti ) con le doti delle ereditiere, da famiglie i cui patrimoni erano da tempo impegnati in soggiogazioni"

domenica 18 ottobre 2020

LA PALERMO PUBBLICITARIA DI MINO MACCARI



Giornalista, vignettista satirico, disegnatore, incisore e pittore, Mino Maccari ( 1898-1989 ), senese, è stato uno degli artisti più eclettici del Novecento italiano, specie negli anni che hanno preceduto e seguito il secondo conflitto mondiale.

A lui si deve, fra gli altri, un reportage compiuto nell'aprile del 1929 a Lipari con preziose indicazioni sulla vita dei confinati che il fascismo volle allontanare dalla vita politica del Paese.

Nel vastissimo repertorio della sua attività di disegnatore, alla fine degli anni Quaranta dello scorso secolo Maccari realizzò per fini pubblicitari alcune vedute delle più importanti città italiane: fra queste, Palermo.



Il committente dell'opera - pubblicata in quel periodo anche dal settimanale "L'Europeo" - fu l'AGIP di Enrico Mattei, l'Azienda Generale Italiana Petroli che si valse in più occasioni dell'apporto di Maccari; nel 1951, con la realizzazione di 12 disegni per il volume di Marcello Boldrini "Questa è l'Italia: preludio a un giro turistico", l'anno successivo, in qualità di giurato della commissione che scelse il famoso cane a sei zampe come logo dell'AGIP.



La veduta palermitana di Maccari inquadra la Cattedrale di fondazione normanna, dietro la quale si stagliano l'edificio del Teatro Massimo e la mole incombente di monte Pellegrino: una rappresentazione di maniera, con sicuro tratto grafico ed una impronta di modernismo rappresentato dalle tre stilizzate automobili che utilizzano il carburante dell'azienda. 

  

martedì 6 ottobre 2020

UN INTERESSATO INGANNO DEI TONNAROTI DI PORTO PALO DI CAPO PASSERO

Gruppo di pescatori
a Porto Palo di Capo Passero.
La fotografia venne pubblicata
nell'opera "Italia Nostra", volume 4,
edita nel 1965 da Federico Motta Editore


La tonnara di Capo Passero ha avuto una storia secolare, ed una fama di pescosità che meritò le attenzioni dello scrittore romano Caio Giulio Solino - sua l'indicazione della "magna thynnorum copia" del mare di Pachino - e, in seguito, del poeta pisano Fazio degli Uberti.

Quest'ultimo, nel XIV secolo, riferendosi all'abbondanza dei tonni di quel mare, scrisse:

"Passato Compassaro e volti al canto di Pachino, vedemmo andare in frotta tonni per mare che parea un incanto..."

Oltre che per l'abbondanza di tonni, questa tonnara siracusana ebbe notorietà per un'altra e meno rimarchevole fama: gran parte dei tonnaroti venivano infatti designati fra i reclusi del carcere allestito all'interno del forte dell'isolotto di Porto Palo di Capo Passero.

Di conseguenza, pare che durante le attività di pesca dei tonni, i galeotti non mancassero di dare corso a qualche espediente che permettesse loro di arrotondare i miseri compensi ricevuti dai proprietari della tonnara.



"Secondo una voce raccolta a Portopalo presso alcuni ex-tonnaroti - ha scritto Sebastiano Burgaretta in "L'isola di Capo Passero", edito dall'Ente Fauna Siciliana nel 1988 - nei primi del Novecento, quando le annate registravano abbondante passaggio di tonni, qualche tonnaroto si prestava, clandestinamente e dietro lauto compenso, ad assecondare gli interessi e le manovre di qualche commerciante privo di scrupoli, il quale intendeva forzatamente fare alzare il prezzo dei tonni limitandone la mattanza, a seconda delle condizioni di mercato.

A tale scopo si ancorava di notte una carogna di capra nella zona di mare in cui passavano i tonni, i quali pare che venissero allontanati dal cattivo odore della carogna.


Quando il commerciante aveva smaltito il pescato giacente in magazzino, allora, sempre clandestinamente, la carogna veniva rimossa dal tonnaroto connivente.

Si spiegavano così repentini e periodici movimenti di tonni che apparivano inspiegabili agli stessi tonnaroti..."