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mercoledì 30 gennaio 2013

L'ULTIMO VIAGGIO DEL PESCE SPADA

Un pesce spada ed un pesce sciabola attendono su una strada di Messina i loro acquirenti: la loro vita in mare si è conclusa 
fra le maglie di una palamitara.
L'immagine, attribuita ad Alario, è tratta dal I volume dell'opera "Sicilia", edita nel 1962 da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini


L’obiettivo del fotografo Alario fissa l’ultima triste tappa del viaggio del pesce spada, iniziato nelle profondità del mar Mediterraneo e terminato una cinquantina di anni fa sul marciapiede di una strada di Messina. 
L’esemplare finito in compagnia di un altro pesce che deve il suo nome ad una lama - lo sciabola - sarà trasferito presto su un banco di vendita, ambito e costoso acquisto di chi non sa resistere alla bontà delle sue carni.
La costa di Messina – ed in particolare, l’area dello Stretto – continua ad essere un luogo di pesca del pesce spada, anche se questi velocissimi animali dotati della mascella superiore prolungata da un rostro sono oggi sempre più rari.
Tra aprile e giugno, prima di essere imprigionati nelle reti della palamitara, questi pesci hanno il tempo di deporre le proprie uova, ritemprandosi poi con la cattura di sgombri, aguglie, polpi o calamari.
Qualche settimana dopo, il passaggio dello Stretto sarà fatale: ancora ai nostri giorni i pescatori stendono la loro trappola, lunga sino ad 800 metri e nella quale i pesce spada ed i pesce sciabola si dibattono inutilmente.
L’immagine di Alario riproposta da ReportageSicilia è tratta dal I volume dell’opera “Sicilia”, edita nel 1962 da Sansoni e dall’Istituto Geografico De Agostini.
   

sabato 26 gennaio 2013

GLI ULTIMI CURATULI DELLA RICOTTA

Preparazione della ricotta nelle campagne palermitane, in una fotografia antecedente al 1981 e tratta dall'opera "Cefalù e le Madonie", edita da Plurigraf Narni-Terni.
L'immagine mostra due "curàtuli" - esperti nella lavorazione del siero caseario - ed i loro tradizionali
strumenti di lavoro.
Queste figure di pastori fanno parte di un mondo rurale siciliano destinato ad una progressiva scomparsa    


Sino a non molti anni fa gran parte delle pasticcerie siciliane producevano cassate, cannoli, “cassatedde” ed altri dolci a base di ricotta a partire dagli ultimi giorni di autunno e sino all’inizio della primavera.
Questa scelta aveva una giustificazione di carattere climatico: in estate – stagione calda da dedicare semmai ai piaceri balneari – i terreni secchi offrono a pecore, capre e mucche poche risorse nutritive; la materia prima per realizzare quei dolci – la ricotta, frutto della cottura del siero del latte usato per produrre i formaggi – è quindi povera e di scarsa qualità.
Ai nostri giorni, i processi di congelazione e soprattutto l’idea che la disponibilità del cibo non segua più il variare delle stagioni hanno fatto della ricotta un prodotto industriale, disponibile anche a ferragosto.
Ecco perché in Sicilia stanno diventando sempre più rari i pastori “curàtuli”, quelli cioè esperti nella preparazione di una specialità un tempo considerata come un esempio di domestico riutilizzo della lavorazione dei prodotti caseari.
L’immagine riproposta da ReportageSicilia – tratta dall’opera "Cefalù e le Madonie", edita da Plurigraf Narni-Terni nel 1981    - ritrae il lavoro di due “curàtoli” appunto nell’area delle Madonie.
Lo scatto mostra alcuni strumenti per la preparazione della ricotta, oggetti descritti nel 1980 dallo storico Antonino Uccello nell'opera "Bovari, pecorai, curatoli, cultura casearia in Sicilia": la caldaia di rame stagnato – la “caurara” – il bastone di canna ( “minaturi” ) con la “scupata” per la pulizia della “caurara”, il raccoglitore in rame stagnato ( “cazza” ), il cucchiaio in legno ( “scumaricotta” ) ed i contenitori ( “iaruozzi” e “cavagni” ).
Oggi la ricotta che accompagna le preparazioni di cibi sia dolci che salate è il frutto di asettici procedimenti meccanizzati. 
I “curàtuli” sono personaggi di un mondo pastorale in estinzione. Se vi capiterà di incontrarne ancora qualcuno, nelle aree rurali più interne della Sicilia, non sarà difficile ricevere l'offerta di un pezzo della loro ricotta, caldo e pronto a sciogliersi in bocca: un rapido e piacevole ritorno a sapori oggi edulcorati dalla grande industria alimentare.     

lunedì 21 gennaio 2013

PESCATORI E MASTRI D'ASCIA A TERRASINI

Scena di vita quotidiana da pescatori a Terrasini,
sulla costa tirrenica palermitana.
L'immagine è tratta da saggio di Giuseppe Padellaro "Trittico siciliano - Verga, Pirandello, Quasimodo", edito da Rizzoli nel 1969


Questo post nasce dal ritrovamento della pubblicazione di una fotografia che ritrae due pescatori palermitani di Terrasini in un libro di critica letteraria.
Lo scatto – sul cui autore il libro non da notizie – è presente nelle pagine di “Trittico siciliano - Verga, Pirandello, Quasimodo” scritto da Giuseppe Padellaro ed edito da Rizzoli nel 1969.
L’autore ha inserito la fotografia dei due pescatori terrasinesi nel capitolo dedicato al catanese Giovanni Verga, volendo rappresentare il contesto narrativo del romanzo “I Malavoglia”; nella didascalia che accompagna l’immagine si legge infatti “caratteristico paesaggio siciliano evocante il mondo verghiano, con barche da pesca su una piccola spiaggia dell’aspro litorale”.
La fotografia – riproposta in questo post da ReportageSicilia – è stata scattata probabilmente nel corso degli anni Sessanta dello scorso secolo a ridosso delle caratteristiche falesie di Terrasini, nel tratto iniziale della spiaggia di Magaggiari.
Al di sopra della scogliera, sono visibili alcuni edifici residenziali del paese, nei pressi della piazzetta Belvedere; sulla spiaggia intanto, a poca distanza da due “sardare” tirate a riva un anziano pescatore sembra guidare un ragazzino nella sistemazione di una rete.


Un gruppo di gozzi a vela latina per la pesca costiera - detti "uzzarièddi" - prende il mare dalla costa di Terrasini.
Il paese, in passato, ha potuto vantare una scuola di mastri d'ascia molto apprezzata lungo tutto la costa palermitana.
L'immagine porta l'illustre firma di Fosco Maraini
ed è stata pubblica dalla rivista
del TCI "le Vie d'Italia" nel febbraio del 1953 

Negli anni in cui è stata realizzata la fotografia, un gran numero di pescatori di Terrasini era già da tempo emigrato nel freddo golfo atlantico di Gloucester, specializzandosi nella pesca degli astici; altri terrasinesi avevano preferito lavorare stagionalmente sui pescherecci di Viareggio o si erano invece trasferiti  a Detroit, diventando operai nelle locali fabbriche automobilistiche. 
I loro compaesani rimasti in paese invece continuavano ad imbarcarsi a bordo di una quindicina di pescherecci, organizzati – si legge nel saggio di Salvo Vitale “Radio Out: materiali di un’esperienza di controinformazione”, edito nel 2008 – “in una cooperativa di stampo patriarcale-clientelare che non lascia spazi né speranze di autogestione del pescato o di organizzazioni alternative per la categoria”.
Nel post si ripropongono quindi altre due fotografie dedicate al tema della pesca a Terrasini, paese che in passato ha vantato un’importante scuola di “mastri d’ascia”. 
La prima – tratta dalla rivista del TCI “le Vie d’Italia” del febbraio 1953 - porta la firma di Fosco Maraini e ritrae alcuni gozzi con vela latina – detti “uzzarièddi” – per la pesca costiera.

Una "sardara" del mastro d'ascia Vincenzo Lo Grasso durante le fasi di benedizione, prima del suo varo.
Seguendo una tradizione comune a molti altri centri marinari siciliani,
il costruttore dell'imbarcazione aveva il ruolo di officiante, recitando preghiere e segnando a colpi d'ascia con una croce la poppa della barca.
L'immagine è tratta dall'opera "Le vie del mare",
edita nel 2008 dalla Regione Siciliana 

La seconda invece ritrae la benedizione di una “sardara” costruita nei primi decenni del Novecento da Vincenzo Lo Grasso, ed è tratta dall’opera “Le vie del mare”, edita nel 2008 dalla Regione Siciliana, Assessorato dei Beni Culturali ed Ambientali e della Pubblica Istruzione. 
Vi si legge, tra l’altro che “nel momento di vararsi una barca, il costruttore cominciava a recitare un Paternostro e un’Ave Maria alle anime del purgatorio, poi un Credo a Gesù e rivolgendosi alla barca ripiglia: il mio pensiero è stato quello di farti ben dritta; io ti benedico tutti i colpi d’ascia che ti ho dato; io ti benedico tutti i chiodi che ti ho piantato; io ti benedico, o barca, nel nome dell’Arca Santa e della SS.Trinità, e così dicendo da due colpi d’ascia in croce sulla poppa e la barca si vara”.


Una veduta di Terrasini ai nostri giorni.
Secondo una consuetudine comune a molti altri centri pescherecci siciliani,
il paese ha assistito in passato all'emigrazione di una buona parte della comunità di pescatori verso il Nord America.
I terrasinesi scelsero il golfo di Gloucester, nel Nord Atlantico, passando dalla cattura delle sarde a quella degli astici.
La fotografia è di ReportageSicilia


sabato 19 gennaio 2013

IL QUIETO PATIO DI FORZA D’AGRO’



Un’anziana donna di Forza D’Agrò fotografata nella silenziosa quiete di un patio esterno ad un’abitazione del borgo messinese. 
L’immagine – al pari delle altre riproposte nel post da ReportageSicilia - è del fotografo serbo Josip Ciganovic ed è da datare ad un periodo anteriore al 1962, quando lo scatto venne pubblicato da Sansoni e dall’Istituto Geografico De Agostini nel I volume dell’opera “Sicilia” 

“Questa passeggiata, che si effettua facilmente in pullman od in macchina, affascinerà chi, deluso dall’aspetto un po’ troppo mondano ed artificioso di Taormina, cerca piuttosto una Sicilia autentica, vecchia maniera”. 
Così la Guida Routard dell’isola edita nel 2003 descrive efficacemente l’aspetto di Taormina, indirizzando i viaggiatori verso il paese di Forza d’Agrò. Il suggerimento coglie nel segno, riservando  la scoperta di un luogo che conserva un’identità non ancora stravolta da quella economia turistica che troppo spesso finisce con il deformare ogni aspetto dei luoghi e dello spirito dei suoi residenti, in funzione, appunto, “turistica”: una degenerazione culturale che ha coinvolto, oltre a Taormina, località come Cefalù ed in maniera più ridotta, Erice.


L’obiettivo di Ciganovic fissa un quadro di vita quotidiana 
in un angolo del borgo dei monti Peloritani. 
L’evento è incentrato sulla figura di una donna che conduce una capra, portando con sé un “panaro”; due bambini in compagnia di un uomo la osservano, aspettando forse le sue attenzioni materne. 
Alle spalle del gruppo, un’anziana intanto assiste alla scena, partecipandovi forse nel ruolo di parente degli altri soggetti dell’incontro in strada

Così, Forza d’Agrò – scrive ancora la Guida Routard - offre con semplicità al viaggiatore la visione e gli odori dei “piccoli vecchietti con i visi segnati dal sole ed i profumi di salsa di pomodoro provenienti dalle case” e diversi panorami dalle terrazze che punteggiano il piccolo borgo.


Questa seconda fotografia di Ciganovic – a colori – è stata probabilmente scattata nello stesso luogo della precedente, 
poco prima o poco dopo. 
Sembra ritrarre lo stesso uomo e gli stessi due bambini, nell’atto di salire la scalinata in pietra che conduce 
verso un gruppo di abitazioni. 
L’immagine è tratta dall’opera di Aldo Pecora ”Sicilia”, 
edita dall’UTET nel 1968   

Chi scoprì questo piccolo paese messinese ben prima della Routard fu uno dei fotoreporter che tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta girò in lungo ed il largo la Sicilia, lasciandoci preziose immagini di paesi e luoghi allora poco battuti nei tour dell’isola: il serbo Josip Ciganovic.
Gli scatti realizzati da Ciganovic a Forza D’Agrò presenti in questo post sono sicuramente anteriori al 1962, anno in cui furono pubblicati nel I volume dell’opera “Sicilia”, edita da Sansoni e dall’Istituto Geografico De Agostini di Novara ed in seguito da “Sicilia” di Aldo Pecora, edito da UTET nel 1968.


La pesante macina ed il rudimentale torchio – il “consu” – di un vecchio frantoio. 
Già tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi del successivo decennio dello scorso secolo, Forza D’Agrò subì gli effetti di un progressivo spopolamento verso i centri costieri della riviera jonica, con l’abbandono delle tradizionali forme di economia agricola

Proprio a partire dal 1962, Forza D’Agrò avrebbe iniziato a guadagnarsi una discreta fama internazionale grazie all’accoglienza offerta dai suoi scorci panoramici, dalle sue piazze e dai suoi vicoli a numerose produzioni di film. Quell’anno le sale cinematografiche proiettarono la commedia “Jessica” del regista romeno Jean Negulesco – interamente girato in paese – e da allora sarebbero state almeno una quindicina le troupe che avrebbero utilizzato Forza D’Agrò come set per le riprese. 
Fra i registi che girarono nel borgo figurò anche Francis Ford Coppola, per la triade de “Il Padrino”; il “folclore mafioso” alimentato in tutto il mondo da quella saga avrebbe fatto sì che, nella metà degli anni Ottanta, il paese fosse meta di comitive di turisti stranieri allestite da agenzie che offrivano improbabili escursioni nei luoghi della mafia. 


Una bambina fa capolino dall’Arco Durazzesco, dietro il quale si inquadra 
la chiesa della SS. Triade. 
Per architettura e per i ricorrenti scorci panoramici verso le campagne ed il mare dello Jonio, Forza D’Agrò fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta dello scorso secolo ha fatto da set cinematografico ad una quindicina di film, da “Jessica” di Jean Negulescu alla triade de “Il Padrino” di Francis Ford Coppola
  
All’epoca del suo reportage, Ciganovic trovò un paese ancora non frequentato da troupe e che – al pari di altri centri montani del messinese - stava subendo gli effetti dell’emigrazione ( il 26 per cento della popolazione, secondo lo studioso Aldo Pecora ) verso le zone costiere dello Jonio.
Proprio la prima fotografia riproposta da ReportageSicilia – una solitaria donna seduta sul patio esterno di un’abitazione, in una composizione che trasmette un’idea di immobile sospensione – sembra evocare quel senso di disagio rappresentato dallo spopolamento allora in corso.

L’obiettivo di Ciganovic fissa un altro scorcio dell’architettura religiosa di Forza D’Agro: la chiesa della SS. Annunziata. 
Oggi il borgo dei Peloritani raccoglie intorno al suo centro abitato un migliaio di residenti      


martedì 15 gennaio 2013

SICILIANDO














"Ma in Sicilia, e nei siciliani, c'è una vena generale e individuale, popolare e colta, istintiva e riflessiva, dell'indole e del carattere, di passionato e fantasioso pessimismo. 
E prende tutti i toni espressivi: dai più incidentali ed evasivi ai più continui e fissi, scherzosi, burleschi, patetici, amari, sdegnosi, disperati"
Riccardo Bacchelli

lunedì 14 gennaio 2013

AUGUSTA, I TRAUMI DELLO SVILUPPO


Uno scorcio del paesaggio industriale di Augusta nella metà 
degli anni Sessanta dello scorso secolo.
La fotografia è di Italo Zannier ed è tratta dall’opera 
“Coste d’Italia-Sicilia”, edita nel 1968 dall’ENI.  
Lo sviluppo delle attività petrolchimiche, avviato nel 1950 da Angelo Moratti, ha radicalmente cambiato l’economia e gli stessi costumi sociali 
di questa zona della provincia siracusana. 
“Non si tratta di un processo ordinato e senza scosse – scrisse nel 1962 il giornalista Mario Farinella - bensì tumultuoso, a sprazzi, e per di più costoso, non solo nel campo strettamente economico, ma anche in quello della psicologia sociale ed individuale, per l’insorgere di squilibri e traumi prima sconosciuti” 

"E' solo qui ad Augusta che si ha il primo vero incontro con una Sicilia avviata verso i più impensati cambiamenti: sono bastati dieci anni per trasformare un popolo di zappatori angariati, di pescatori affamati da tempo immemorabile, in lavoratori consapevoli del proprio ruolo, coscienti della propria dignità, liberi, altamente qualificati.
Dodicimila operai mandano avanti gigantesche imprese come la Rasiom, la prima raffineria d'Italia e d'Europa, le Cementerie, la Petrolchimica, la Sincat che produce fertilizzanti, la Celene che fabbrica materie plastiche, la vasta centrale elettrica Tifeo.

Gli impianti della Rasiom, la società petrolifera diretta da Angelo Moratti che per prima, nel 1950, impiantò le sue strutture industriali ad Augusta. 
Secondo il giornalista Giuseppe Fava, le prime attrezzature della Rasiom furono trasferite in Sicilia da una vecchia raffineria smantellata nel Texas.
La fotografia - attribuita Publifoto - è tratta dal II volume dell'opera "Sicilia" edita nel 1962 da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini 

"Anche solo a guardare la gente, avverti che sono in corso cambiamenti rapidi negli interessi, nei costumi, persino nei sentimenti; che nascono nuovi pensieri e nuovi rapporti fra gli uomini e le cose, fra uomo e uomo; che mutano le dimensioni del presente e le prospettive dell'avvenire.

Una foto panoramica di Augusta riferibile alla metà degli anni Cinquanta
dello scorso secolo.
L'immagine - anche questa tratta dal II volume della già citata opera "Sicilia" ed attribuita al fotografo Armao - documenta gli anni della trasformazione del territorio siracusano, con il progressivo passaggio
da una realtà agricola a quella industriale 

"Ecco dunque. il rapido mutare delle cose e degli uomini è di questa zona l'aspetto più essenziale, quel che ne domina l'atmosfera, laddove l'immutabilità o al lentezza delle mutazioni è stata la dominante caratteristica della Sicilia e lo è ancora in tante altre sue parti.
Ma, si badi, non si tratta di un processo ordinato e senza scosse, bensì tumultuoso, a sprazzi, e per di più, costoso, non solo nel campo strettamente economico, ma anche in quello della psicologia sociale e individuale per l'insorgere di squilibri e traumi prima sconosciuti.

Non solo ciminiere, impianti in ferro ed acciaio 
e navi-cisterna alla fonda nel porto. 
In questa fotografia di Armao – anch’essa pubblicata nel II volume dell’opera “Sicilia” edita da Sansoni e dall’Istituto Geografico De Agostini – il soggetto è una casa colonica, residua testimonianza di un’economia basata un tempo sulle attività agricole e pastorali

E' il costo di ogni progresso, tanto più alto quanto più rapidamente si avanza. E la zona industriale di Augusta è forse, oggi, l'angolo d'Italia che avanza più rapidamente".
Così il giornalista nisseno Mario Farinella agli inizi degli anni Sessanta dello scorso secolo descrisse la rivoluzione industriale che dal 1950 stava cambiando l’aspetto e la società di Augusta.
Le fotografie riproposte in questo post da ReportageSicilia – tratte da alcune opere editoriali del periodo – tentato di documentare appunto quelle trasformazioni.
Sino agli inizi del secolo XX, la rada della cittadina siracusana – posta su un’isola tra due porti fra capo Santa Croce e la penisola Magnisi - era servita per lo scalo di piccoli bastimenti commerciali diretti verso altri porti siciliani, Malta ed il Mediterraneo orientale.

In questa fotografia realizzata ancora da Armao nelle campagne di Augusta e pubblicata nel II volume dell’opera “Sicilia” si documenta la tradizionale preparazione delle conserve di pomodoro. 
La ‘rivoluzione industriale’ che allora stava cambiando la società non riuscì a cancellare del tutto abitudini e consumi frutto 
di una secolare cultura contadina 


La costa limitrofa era  punteggiata da spiagge spesso malariche, mentre il mare ospitava triglie, pesce azzurro e soprattutto pescespada e tonni diretti a Sud, verso la punta di Pachino.
A terra, le campagne erano percorse da pastori e contadini che traevano sostentamento da folti uliveti e mandorleti.

Negli anni del rapido sviluppo industriale, ad Augusta sopravvivono forme  tradizionali  di religiosità legate soprattutto alle festività di Pasqua. L'immagine ritrae una processione del Cristo morto, che dalla mezzanotte di giovedi e sino all'alba del venerdi mobilitava il paese: alcuni operai in camice bianco detti "babbalucche" trasferivano sino al Calvario - nei pressi del mare - la bara del Cristo.
Ad aprire la processione erano bambine vestite da monache
con il capo contornato di spine. Anche questa fotografia riproposta da ReportageSicilia - attribuita a Foto Galleria - è tratta dal II volume dell'opera "Sicilia" edita da sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini
Durante la II guerra mondiale, l’ampio porto di Augusta – grazie ai suoi fondali profondi e sicuri – divenne uno dei luoghi strategici per la Marina Militare Italiana, esponendosi così alle incursioni alleate.
Quindi, a conflitto terminato, questo tratto di costa siciliana lungo 20 chilometri conobbe lo stravolgimento subìto da altre zone litoranee isolane.

Come mostrato ancora da una fotografia di Armao, negli anni dell’industrializzazione, Augusta conservava 
gli impianti delle sue storiche saline. 
Ai nostri giorni, secondo una recente denuncia di “Italia Nostra”, la salvaguardia dell’area è minacciata dalla realizzazione di un nuovo lungomare: 
l’opera avrebbe provocato la chiusura dei vecchi canali 
che riforniscono le saline di acqua marina 

L’acciaio, il ferro ed il fuoco degli impianti petroliferi e chimici di proprietà di multinazionali straniere ed italiane mutarono per sempre ambiente e costumi locali: la corsa al lavoro in fabbrica fece aumentare redditi e consumi familiari, impoverendo però il lavoro agricolo e le colture frutticole ed orticole fra Augusta, Melilli, Lentini, Carlentini e Francofonte.
La prima industria fu appunto la Rasiom del petroliere milanese Angelo Moratti.

In questa seconda fotografia di Zannier - tratta dalla già citata opera "Le Coste d'Italia-Sicilia", il centro abitato di Augusta si staglia in un paesaggio che conserva ancora evidenti tracce della sua matrice rurale. 
Nel periodo della sua massima attività industriale, la popolazione operaia della cittadina siracusana raggiunse le 12.000 unità

“Comperò a credito una vecchia Liberty da diecimila tonnellate che il governo americano svendeva purchè liberassero i suoi porti da questi relitti – scrisse Giuseppe Fava nel suo saggio “I Siciliani” – ci caricò una vecchia raffineria del Texas, poco più di un gigantesco sfasciume venduto a peso di rottame, una montagna di tubi, bulloni e caldaie. Reclutò dieci tecnici per montare quel ferrovecchio e farlo funzionare, fece un contratto per l’importazione di greggio ed un altro per la fornitura di benzine raffinate…”.
Negli anni successivi, gli insediamenti industriali avrebbero trasformato il porto di Augusta in uno specchio di mare costellato da decine di navi-cisterna, al punto da farne il terzo scalo navale italiano dopo Genova e Marghera.
Alla fine degli anni Settanta dello scorso secolo, gli effetti sull’ambiente marino sarebbero stati drammatici. Gli scarichi industriali avrebbero provocato l’abnorme crescita delle alghe, causando l’asfissia di pesci, crostacei e molluschi; i tonni dirottarono la loro linea di migrazione verso il largo e la tonnara di Santa Panagia chiuse per sempre l’attività. A terra, invece, luoghi come Marina di Melilli, al centro del golfo fra Siracusa ed Augusta, sarebbero stati resi insalubri dall’inquinamento dell’aria.

Una foto aerea della penisola di Augusta attribuita alla Regia Aeronautica Militare e pubblicata nel volume del TCI "Sicilia",
collana Attraverso l'Italia, edita nel 1933.
Prima dello sviluppo industriale del secondo dopoguerra, l'economia locale era basata su un limitato traffico commerciale del porto
e sulle attività agricole e della pesca

Se negli ultimi anni la crisi delle attività industriali nel settore petrolifero e chimico ha ridotto ad Augusta il peso di queste attività – riducendo anche il numero degli occupati – le conseguenze negative sull’ambiente non sono cessate.
Secondo la recente denuncia della locale sezione di “Italia Nostra” http://www.italianostraaugusta.it/, poi, dopo la realizzazione di un nuovo lungomare l’area delle storiche Saline versa in stato di degrado: l’opera ha infatti richiesto la chiusura degli antichi canali che permettevano l’ingresso dell’acqua marina nei pantani durante le maree.
Il futuro di Augusta intanto potrebbe essere segnato dalla promozione di nuovi lavori portuali, grazie ad un finanziamento europeo da 100 milioni di euro. L’aspettativa è quella di potenziare la funzione commerciale della cittadina siracusana. Se ciò accadrà, nei prossimi anni assisteremo a nuove trasformazioni economiche e sociali del territorio; la speranza è che gli effetti dei cambiamenti siano meno traumatici rispetto a quanto accaduto sessant’anni fa con la comparsa dei fuochi dei primi impianti petroliferi.       



mercoledì 9 gennaio 2013

TRAPANI, VITA DA PASTORE E BARCAIOLO

Un uomo trasporta il suo gregge di pecore a bordo di una barca, lungo la costa trapanese fra le saline e lo stagnone di Marsala.
L'immagine del fotografo Pane - tratta dal II volume dell'opera "Sicilia" edita da Sansoni ed Istituto Geografico De Agostini nel 1962 - rimanda a quella pratica di vita quotidiana che costringeva tanti umili siciliani a sapersi destreggiare in diversi ruoli, come quelli di barcaiolo e di pastore insieme


Alla fine degli anni Cinquanta l’obiettivo del fotografo trapanese Pane fissa l’immagine di un uomo che trasporta il suo gregge di pecore a bordo di una barca lungo la costa fra le saline di Trapani e lo stagnone di Marsala.
E’ una fotografia che racconta un momento di vita quotidiana trascorsa fra la terra ed il mare, secondo quella tradizione che ha assegnato a tanti umili siciliani il ruolo insieme di pastore, contadino, barcaiolo e pescatore: quella che oggi viene chiamata “flessibilità”, per il siciliano è stata spesso la capacità di sapersi guadagnare da vivere sia sul mare che sulla terra.
Lo scatto riproposto da ReportageSicilia offre anche l’occasione di ricordare le parole che di quell’angolo di Sicilia scrisse 43 anni fa lo storico dell’arte Cesare Brandi. 
“Trapani è città gentile – si legge in “Sicilia mia”, edito da Sellerio nel 2003 - e si trova ai margini dello straordinario paesaggio delle Saline. Di lì a Marsala che ci vuole, un nulla: poiché la strada è liscia e il cielo s’abbassa sul piano premurosamente come se si richiudesse un coperchio, ma azzurro chiaro, ma limpido come l’Africa…”.
A distanza di oltre quattro decenni, il paesaggio delle Saline non è cambiato molto; sono invece diminuiti i pastori con esperienze da contadino, barcaiolo e pescatore: personaggi di una Sicilia del passato, nell’incertezza di un presente e nei timori di un futuro dove per vivere dignitosamente potrebbe essere inutile anche il sapere andare per mare e per terra.


Il paesaggio di Trapani e delle sue saline da una strada di Erice.
La fotografie risale alla metà degli anni Cinquanta dello scorso secolo, ed è tratta dal saggio  di Ferdinando Milone "Sicilia, la natura e l'uomo",
edito da Boringhieri nel 1960

     

lunedì 7 gennaio 2013

PORTO EMPEDOCLE, ZOLFO E POVERTA'

L’imbarco dei “pani” di zolfo dalla spiaggia di Porto Empedocle in una delle tre immagini del fotografo agrigentino Agatocle Politi tratte dall’opera “Girgenti – Da Segesta a Selinunte”, edita nel 1909 dall’Istituto Italiano d’Arti Grafiche. Sino alla metà del secolo XIX – prima di diventare il luogo di esportazione dello zolfo siciliano - il villaggio di Porto Empedocle viveva grazie all’attività di poche centinaia di pescatori di paranza

Le fotografie riproposte da ReportageSicilia in questo post sono tratte dall’opera “Girgenti – Da Segesta a Selinunte”, edita nel 1909 dall’Istituto Italiano d’Arti Grafiche con testi di Serafino Rocco ed Enrico Mauceri.
Il libro fa parte di una collana dedicata alle più importanti località artistiche e turistiche d’Italia, che – per la Sicilia – comprendono anche Palermo, Catania, Taormina, Siracusa e la valle dell’Anapo.
Il volume dedicato a Girgenti, Segesta e Selinunte raccoglie 101 fotografie, la maggior parte delle quali riproducono monumenti e ruderi dei tre siti archeologici: una scelta editoriale legata allora al nascente interesse suscitato dalle campagne archeologiche condotte in Sicilia tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX.
In questo contesto documentario, spiccano le tre immagini riproposte da ReportageSicilia che nulla hanno a che fare con l’archeologia dei tre famosi siti. Attribuite al fotografo agrigentino Agatocle Politi ( 1841-1907 ) ritraggono infatti una panoramica dello scalo marittimo di Porto Empedocle e due immagini di operai empedoclini impegnati nelle operazioni di pesatura ed imbarco dei “pani” di zolfo, risorsa economica del tempo per l’intera provincia agrigentina.
Sino alla metà del secolo XIX, Porto Empedocle era considerato come lo scalo marittimo di Girgenti e la sua popolazione era composta per lo più da pescatori di paranza: merluzzi e sardelle sostentavano il mercato ittico locale e di una parte della provincia.


Il confezionamento e la pesatura dei “pani” di zolfo prima della loro esportazione verso il mercato continentale ed europeo. Malgrado lunghi decenni di ricca attività commerciale, gli operai di Porto Empedocle e la stessa cittadina agrigentina non trassero grandi vantaggi economici: gli utili procurati dallo sfruttamento dello zolfo andarono quasi esclusivamente alle compagnie esportatrici


Lo sfruttamento, la raffinazione e l’esportazione di zolfo cambiarono cambiarono profondamente l’economia della borgata, che divenne il principale porto di partenza di una risorsa mineraria che tra il 1860 ed il 1876 assicurò ingenti guadagni ai produttori siciliani. Il prezzo medio era allora di 120 lire per tonnellata, circostanza che fece aumentare la sua produzione, nel 1905, sino a 540.000 tonnellate.
Da allora in poi, l’eccesso di offerta di zolfo causò una crisi dei prezzi che ebbe conseguenze sui livelli di occupazione fra gli operai di Porto Empedocle.
La situazione venne poi aggravata dall’antagonismo con altre realtà produttive isolane; nel 1914, gli empedoclini diedero vita a violente manifestazione di protesta per opporsi alle richieste di alcune aziende di Catania che chiedevano l’abolizione delle spese di trasporto del proprio zolfo – pari a 40 centesimi - verso lo scalo marittimo di Porto Empedocle.
Temendo la perdita del proprio monopolio mercantile, gli operai agrigentini diedero provocatoriamente fuoco ai propri depositi di zolfo e la questione fu oggetto di discussione anche nelle aule parlamentari.
Le immagini di Politi ci restituiscono qualche frammento di memoria del passato legame fra Porto Empedocle e lo zolfo, prima del definitivo tramonto dell'attività di estrazione in Sicilia, conseguenza delle esportazioni a basso costo - dagli inizi degli anni Cinquanta - avviate dagli Stati Uniti.
Malgrado lo sfruttamento di questa attività estrattiva, la descrizione che del paese si legge nella prima guida rossa della Sicilia del TCI – edita nel 1919 – fa supporre che il beneficio economico non sia stato poi così significativo. “Fuori dall’unica grande via – si legge nella guida – Porto Empedocle impressiona per la mancanza di pulizia: le povere costruzioni sono addossate l’una all’altra”.
Il perché di questa condizione si può comprendere grazie all’analisi dello storico Illuminato Peri, secondo cui “i grandi utili dello zolfo rimanevano estranei alla città ed al caricatore stesso, in quanto andavano alle grosse compagnie esportatrici forestiere, mentre sul luogo costituirono quasi esclusivamente occasioni di lavoro peraltro, specie nelle miniere, quasi sempre male remunerato tormentato da disagi infiniti, da pericoli continui, dalle ripetute perdite di vite umane”.

Una panoramica della spiaggia di Porto Empedocle, luogo di partenza delle imbarcazioni che trasferivano allora i “pani” di zolfo a bordo delle navi mercantili alla fonda 
al largo della costa






SICILIANDO













"E questa è la Sicilia, un paese che puoi anche odiare, ricordare con orrore, come quando fui percosso e atterrato per poche miserabili lire, e tuttavia continuo a desiderarlo, ridestandolo dal buio della memoria, ed è come se mi si accendesse una lampada ad arco" 
Cesare Brandi

giovedì 3 gennaio 2013

QUANDO ANCHE GLI AGRIGENTINI SI VOLTAVANO

Due giovani ad Agrigento si voltano per guardare
una ragazza che cammina in strada.
La fotografia venne scattata da Sansone alla fine degli anni Cinquanta e venne probabilmente ispirata da due famose immagini precedentemente realizzate a Firenze e Milano da Ruth Orkin e
Mario De Biase.
Lo scatto riproposto da ReportageSicilia è tratto dall'opera "Sicilia", collana "tuttitalia" edita nel 1962 da G.C.Sansoni
ed Istituto Geografico De Agostini 

La fotografia scattata ad Agrigento e riproposta in questo post da ReportageSicilia risale alla metà degli anni Cinquanta: ritrae la scena di due ragazzi che si voltano al passaggio di una ragazza che accompagna due donne più anziane, probabilmente la madre e quella che potrebbe essere una zia o una nonna. L’immagine, attribuita a Sansone e pubblicata nell’opera “Sicilia” della collana “tuttitalia”, edita nel 1962 da G.C. Sansoni ed Istituto Geografico De Agostini, venne probabilmente ispirata da due note immagini realizzate in quegli anni a Firenze e Milano. In entrambe, un gruppo di uomini si sofferma a guardare con occhio avido e morboso il passaggio di una donna.
Quella scattata dall’americana Ruth Orkin a Firenze nel 1951 ritrae un’amica sua connazionale, Ninaleen Craig; Mario De Biasi immortalò invece nel 1954 Moira Orfei a passeggio in una strada di Milano.

La fotografia dell'americana Ninaleen Craig scattata a Firenze nel 1951 dalla connazionale Ruth Orkin.
Insieme all'immagine di Mario De Biase realizzata tre anni dopo a Milano, entrambi gli scatti sono diventati una rappresentazione della società italiana di quegli anni, e dei suoi rapporti fra uomo e donna.
La componente siciliana possedeva diversi connotati culturali: un dato che emerge anche dalla comparazione fra la fotografia agrigentina e le più famose immagini fiorentina e milanese 
La fotografia ambientata ad Agrigento sull’esempio degli scatti della Orkin e di De Biasi – questi ultimi nel frattempo diventati una rappresentazione del costume nazionale di quegli anni, e che contrapponeva il desiderio di disinibizione femminile allo stereotipo del gallismo degli uomini – se ne discosta tuttavia in maniera sostanziale.

Un gruppo di uomini milanesi osserva il passaggio in strada di una sempre appariscente Moira Orfei.
La fotografia venne realizzata nel 1954 da Mario De Biase
L’anonima ragazza agrigentina, a differenza della donna americana e di Moira Orfei – e della loro esibita libertà di movimento - sembra quasi essere scortata dalle più anziane donne della famiglia; i due ragazzi che si voltano per guardarla sorridono senza quella ostentata e collettiva malizia che si coglie negli sguardi degli uomini a Firenze e Milano.
Lo scatto di Sansone, infine, se ha avuto la sorte di non entrare nella storia del costume italiano possiede almeno una qualità assente negli illustri precedenti di Ruth Orkin e Mario De Biase: la spontaneità della scena, che fu invece da loro preparata con la gratuita passerella in strada della Craig e della Orfei, ad esclusivo beneficio degli obiettivi dei due fotografi.
L’autore dell’immagine in cui “anche gli agrigentini si voltano”, infine, potrebbe semmai essere stato ispirato dalla lettura di ciò che il saggista svizzero Daniel Simon scrisse in quel periodo del costume locale, dopo avere “auscultato il suo polso, mescolandomi un poco alla sua vita quotidiana, di un agglomerato che possiede circa 40.000 anime”.

Una donna agrigentina affacciata su un balcone costruito su un prospetto architettonico tardocinquecentesco.
L'immagine attribuita al fotografo Armao - come quelle di apertura e chiusura presenti in questo post - è tratta dalla già citata opera "Sicilia" edita nel 1962   
Una lunga e sinuosa arteria attraversa obliquamente la città, concentrando qui il commercio e tutto il movimento, la via Atenea. Davanti ai caffè, alle botteghe di barbiere – si legge nel saggio intitolato “Sicilia”, edito nel 1956 da Edizioni Salvatore Sciascia - i giovani commentano le notizie sportive, parlano dell’ultimo film di Rossellini o ammutoliscono al passaggio di una bella ragazza che, con gli occhi bassi, accompagna la madre. I notabili discutono di politica, le massaie corrono per le compere. Tutti si conoscono, si salutano festosamente, si abbordano in cerca degli ultimi pettegolezzi, si guardano, senza averne l’aria, a vicenda studiandosi. Anche lo straniero di passaggio è subito notato ed ogni richiesta di indicazione viene soddisfatta con estrema gentilezza…”.

Una panoramica di Agrigento negli anni dello scatto di Sansone.
L'immagine è attribuita a Fotocielo