Translate

domenica 30 novembre 2014

SICILIANDO















"Disse uno scrittore dell'isola che il siciliano 'pensa e sente come un arabo agisce come un greco, concepisce la vita come uno spagnolo'.
Strano carattere, violento e tenace nella passione, debole e mutevole nella volontà, facile egualmente all'entusiasmo e allo scetticismo, eroico nei suoi impeti generosi e pazientissimo nelle sue rassegnazioni indolenti; nel quale quel fortissimo sentimento individuale, che in altri popoli è il più grande propulsore delle iniziative, produce l'effetto di far curvare l'individuo dinanzi l'individuo, di far idolatrare la forza, di assoggettare la moltitudine a pochi padroni, di perpetuare lo spirito del feudalesimo nella politica, nelle amministrazioni, in tutti i campi della vita pubblica"
Edmondo De Amicis 

LANGUIDI E VAPOROSI SCORCI DELL'ETNA

Suggestioni orientaleggianti del vulcano in sei fotografie pubblicate nel 1938 dalla guida "Sicilia", edita dall'Ente Nazionale Industrie Turistiche e dalle Ferrovie dello Stato



"La massa imponente e solitaria dell'Etna, distaccata dalle altre cime delle montagne, l'aspetto della sua vetta perennemente coperta dalla neve, il volto deserto dei suoi fianchi, la vegetazione feconda e ridente che copre la sua base, tutto fa pensare ad un massiccio dotato di una vita propria ed eccezionale, ad un territorio dove si è concentrata l'attività della natura" 

Questa scenografica descrizione dell'Etna è contenuta nella guida "Sicilia" edita nel 1938 in lingua francese dall'Ente Nazionale Industrie Turistiche e dalle Ferrovie dello Stato.
Da quella pubblicazione - già oggetto di attenzione da parte di ReportageSicilia - sono tratte le fotografie di questo post.
Le immagini ci restituiscono diverse vedute dell'Etna, in gran parte realizzate a Taormina.




Il vulcano fa da sfondo ad un paesaggio d'inizio primavera, in un bianco e nero dai toni languidi e vaporosi; la memoria corre verso certe stampe raffiguranti il Fuji Yama, soggetto in quegli anni che in Europa conobbe una grande fortuna iconografica.
Le inquadrature dell'anonimo fotografo sono il frutto della ricerca di una suggestione ambientale che trae forza dall'assenza di ogni raffigurazione umana. 
Trentaquattro anni dopo la pubblicazione di quegli scatti, la scrittrice Laura Papi avrebbe così descritto l'incontro con i paesaggi e con la natura dell'Etna:   
   

"Il gigante incombe. Superati i campi di patate e gli agrumeti intorno a Fiumefreddo, ci troviamo circondati da un mare rosso e silenzioso, che scorre ad ondate mosso da un vento che non ci appartiene più.
Può essere questo, in primavera, l'incontro con l'Etna, con il mondo dei paesi che lo circondano e che gli si identificano nel continuo tentativo di sfuggirgli, respinti ed attratti da una inesorabile risacca verso spiagge di destino e di consanguineità.


Ora l'inverno si stempera in mattini di cristallo e il gigante dorme, blandito dal nettare sorseggiato alla coppa di Ulisse, e adagia le sue ultime pendici in sterminati campi di trifoglio in fiore.
Ma alzare gli occhi alla vetta richiede un imprevisto sforzo e cresce una nuova paura come chi dall'ultimo momento senta che sta per uscire dalle soglie dell'innocenza per imboccare quelle del destino: mai come in quest'aria tersa e immobile pesa il nodo fatale tra il male e li bene, la bellezza e la sua improvvisa negazione...


L'occhio che sale vede i tentacoli del mostro ritirarsi strisciando dall'erba, salire molli tra segale, viti, frutteti, castagni, betulle, sabbie; e il cono, ancora scintillante di neve, lassù tra le nebbie leggere si staglia a un tratto come un'ondata altissima che abbia calamitato uomini, paesi, fontane, barche, reti, e tenga tutto sospeso un attimo nel cielo, prima di precipitare.


L'Etna di diamante, chiuso nel suo silenzio, è spaventoso nel cielo sereno; intorno al sonno vigile dei suoi grandi occhi spenti si muove la vita di ogni giorno, che allo straniero appare come il ruotare di un grande orologio sommerso, mosse da enormi lancette lungo ore modestissime, sproporzionate..."







lunedì 24 novembre 2014

ORIGINE E TECNICA DELLA PRODUZIONE DEL SALE A TRAPANI

Il mare, il sole ed il vento.
Nel 1950, un reportage del giornalista Crescenzo Guarino illustrava le risorse naturali e le tecniche di lavoro applicate dai salinai di Trapani




Nei difficili anni del secondo dopoguerra, in Sicilia una delle attività economiche in pieno sviluppo era quella dello sfruttamento delle 52 saline di Trapani.
Sino al 1950, la quantità di sale estratta dalla zona raggiungeva le 200.000 tonnellate annue.
Gran parte della produzione era destinata all'imbarco sulle navi dirette nei Paesi dove la salagione del pesce costituiva una necessità primaria: Svezia, Norvegia, Danimarca, Islanda, Uruguay e Giappone.
Le fotografie riproposte da ReportageSicilia relative a quel periodo vennero pubblicate nell'opera "Mediterranea"-Almanacco di Sicilia" 1949, edita da Industrie Riunite Editoriali Palermo.
Le immagini non hanno un'attribuzione ed illustrarono un testo del giornalista palermitano Ercole Melati, in cui
Un anno dopo, il giornalista napoletano Crescenzo Guarino avrebbe raccontato sulle pagine del quotidiano "La Stampa" la storia e l'ambiente delle saline trapanesi.
Il suo reportage ha un valore di rilievo perché contiene preziose informazioni sulla tecnica di produzione del sale, basata sullo sfruttamento del mare, del sole e del vento:
  
"Antica è l'arte dei 'salinai' trapanesi. E di queste parti dovevano essere, secondo la tradizione, quei lavoratori di cui parla la Bibbia ne 'I Maccabei', che estraevano il sale nei giacimenti presso il mar Morto, dando un tributo ai re di Siria.
Certo, dove sorte saline lungo le coste d'Africa e d'Asia, là sono trapanesi.
Sono i Burgarella che sessant'anni fa, ricevendo per 99 anni il suolo in concessione dal governo inglese, organizzarono ad Aden il più forte centro di produzione per l'Oriente, soprattutto l'India.



Il motivo per cui Trapani ha da secoli il primato, dipende dalla particolare formazione delle sue coste. Perchè tante sono le marine, ma poche quelle con spiagge vaste, lontane da ogni afflusso di fiumi e ruscelli ed inoltre a fondo argilloso, dove l'acqua non venga assorbita dalla sabbia, ma depositi lentamente il sale dalla sua materia prima, il mare, avendo a combustibile il sole e come forza motrice il vento.
Occorre infatti acqua con forte densità salina, sole ardente, molti mesi ( cinque o sei ) senza nessuna pioggia e poi la sferza del grecale che asciughi anche essa il liquido e azioni le macini dei mulini dove si frantumano i cristalli del grezzo.



E occorre inoltre il giuoco delle maree che automaticamente alimentino le vasche. Quando la natura da tutto ciò, solo allora si possono impiantare le saline. E il procedimento è semplice.
In marzo le acque marine sono immesse nelle vasche, e, attraverso uno speciale apparecchio ( spira di Archimede ) pompate in modo che dalla prima fascia con un sei gradi di maturazione ( la maturazione è data dalla condensazione ), gradi detti 'Bè' dal densimetro che fa appunto questa misura, si passa a un venti gradi nella seconda fascia  e ad un trenta gradi nella terza, dove il sale è seminato come catalizzatore, per accelerare la condensazione.
Ciò si dice 'mettere a sale' o 'servire le caselle'.






La 'coltivazione del sale' o 'campagna salifera' nel Mediterraneo dura sei mesi. Quando il sale è maturo, ciò allorchè nelle aie più lontane dal mare l'acqua è del tutto evaporata e sono rimasti i cristalli, si ha la raccolta in tre tempi ( a fine luglio, agosto e settembre ).
I salinai, camminando sugli argini, passano con i cesti colmi e cantano le loro nenie tristi e lente, che parlano di santi e madonne e conservano, velata nel lamento, la nostalgia dell'Oriente" 



domenica 23 novembre 2014

DISEGNI DI SICILIA


GINO MORICI, Trapani, 1949 circa

sabato 22 novembre 2014

LA FRAGILE BARRIERA ISOLANA CHE SEPARA DISCREZIONE ED OMERTA'

Modi di dire e pagine letterarie dedicate alla descrizione di due sentimenti complementari nella storia dei siciliani

"Contrattazione segreta del pesce
al mercato ittico di Porticello",
fotografia realizzata nel 1947 da Nicola Scafidi.
L'immagine è tratta dall'opera "Nicola Scafidi, Fotografie"
edita nel 2001 da Federico Motta Editore

La sottile linea di confine che in Sicilia divide il sentimento della discrezione da quello dell'omertà corre anche sulla interpretazione di vecchi modi di dire.
Espressioni del tipo "assai sapi chi taciri sapi" ( "molto sa chi tace molto" ), "c'è tempu di parrari e c'è tempu di taciri" ( "c'è il tempo di parlare e c'è il tempo per tacere" ), "cù havi vucca havi spata" ( "chi ha una bocca ha una spada" ), "cù picca parrau nun si pintiu" ( "chi poco parlò poco si è pentì" ), "cù senti assuppa" ( "chi ascolta assorbe" ) o "lu parrari picca è midicamentu" ( "il parlare poco è una medicina" ), possono essere interpretate come inviti a moderare lo sproloquio o a farsi gli affari propri e non immischiarsi in quelli degli altri; specialmente se quegli affari hanno a che fare con vicende di giustizia.   
Da decenni, saggistica e letteratura stanno variamente sviscerando i temi della discrezione e dell'omertà dei siciliani, mettendoli in relazione all'argomento principe che riguarda l'isola: la mafia.
In questo post, ReportageSicilia ripropone due interpretazioni dei sentimenti della discrezione e dell'omertà che rimandano rispettivamente alle pagine di Leonardo Sciascia e di Domenico Novacco.
Il passo dello scrittore agrigentino è quello della conversazione fra Ippolito Nievo e Giuseppe Garibaldi nel racconto "Il quarantotto", pubblicato in "Gli zii di Sicilia" ( Einaudi, 1958 ).
In Sciascia, la discrezione dei siciliani giusti trova radici nella storica consuetudine alla silenziosa lotta per la sopravvivenza quotidiana: contro la povertà presente in tanti villaggi e campagne, contro le continue dominazioni che hanno imposto leggi e modelli di vita mai plasmati sui reali bisogni sociali dell'isola.    
Lo scritto dello storico e saggista catanese Domenico Novacco è tratto dall'opera "Inchiesta sulla mafia" ( Feltrinelli, 1963 ).
In questo testo, l'omertà è esaminata da un punto di vista giuridico ed appare come il frutto di una distorsione della pratica della discrezione, necessaria a garantire un potere basato sulla violenza, tipico delle società male o affatto governate.   
Le espressioni siciliane citate all'inizio del post sono state invece tratte dalla raccolta di Sandro Attanasio "Parole di Sicilia" ( Mursia, 1977 ).

"Alcamo", fotografia del 1953
di Enzo Sellerio.
L'immagine è tratta dall'opera
"Enzo Sellerio, Fotografie 1950-1989",
edita nel 2000 da Federico Motta Editore


"Perchè - disse Nievo - io credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono dentro e soffrono: i poveri che ci salutano con un gesto stanco, come da una lontananza di secoli, e il colonnello Carini sempre così silenzioso e lontano, impastato di malinconia e di noia ma ad ogni momento pronto all'azione: un uomo che pare non abbia molte speranze, eppure è il cuore stesso della speranza, la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori... una speranza, vorrei dire, che teme se stessa, che ha paura delle parole ed ha invece vicina e familiare la morte...
Questo popolo ha bisogno di essere conosciuto ed amato in ciò che tace, nelle parole che nutre nel cuore e non dice..."

Discussione dinanzi la Chiesa Madre di Alcamo.
La fotografica non ha né attribuzione né datazione
e venne pubblicata sul settimanale
"Domenica del Corriere" del 10 agosto 1971


"L'omertà è, nel reo, deliberata volontà di fuorviare le indagini o di intralciarle.
Accade così che le testimonianze non si trovano, o se si trovano sono false, come falsi e prefabbricati sono gli alibi...
Nel complesso l'omertà è una forma di scetticismo che nasce dalla consumata esperienza di chi sa di dovere assistere al naufragio di ogni sforzo inteso a cogliere la verità di una vicenda, quando questa vicenda, che i funzionari dello stato pretendono di erigere ad elemento di diritto pubblico e di dominio collettivo, viene considerata invece, dai suoi protagonisti, privato patrimonio di pochi, da risolvere e liquidare senza chiasso nel chiuso ambito della 'famiglia'"



mercoledì 19 novembre 2014

SICILIANDO














"Ai miei tempi, in Sicilia, dominava il problema della fame, ossia il diniego del cibo.
I più fortunati come me potevamo mangiare, da ragazzi, pane e formaggio, pane e mele, o giuggiole dalle tinte rosa-porpora stinte, ulive sott'olio, o quelle cotte sotto la brace.
O intingere pane e vino cotto mielato, oppure in succo di gelso nero, in Sicilia pervenuto dalle sponde meridionali del Caucaso, dalla Persia e dalla Grecia.
Altre volte mangiavamo pane a cui le nostre madri aggiungevano fettine sottili di altro pane, dicendo:
'Il minor pane fate finta che è cosciotto di fagiano, ventricolo cotto di gallina, o biscotto regina'"
Giuseppe Bonaviri

lunedì 17 novembre 2014

AMORE POSTICCIO E VERE EMOZIONI SULL'ARCO DI MONGERBINO


Reso noto dallo scatto pubblicitario della "Perugina", l'arco di pietra sospeso sul mare palermitano venne fotografato vent'anni prima con più realismo da Fosco Maraini


La fotografia dell'arco palermitano di Mongerbino
realizzata nel 1973 dalla Perugina per la campagna pubblicitaria
di uno dei suoi prodotti più conosciuti



Pochissimi siciliani ne conoscevano fino ad allora l'esistenza. Ancora meno erano quelli che vi avevano messo piede - per amore o per sprezzo del rischio - ad una quindicina di metri d'altezza, sul mare palermitano fra Bagheria ed Aspra.
La notorietà dell'arco di Mongerbino inizia nel 1973, grazie alle solite astute strategie di marketing: la campagna pubblicitaria dei "Baci Perugina", prodotto intramontabile fra i cultori dei regali di San Valentino. 
Così, una coppia di innamorati si tenne per mano al centro del ponte naturale, a simboleggiare la vertiginosa ebbrezza  ( ma forse anche le difficoltà ) del rapporto amoroso: un fotografo immortalò la scena e l'immagine si guadagnò una piccola parte di storia del costume italiano del periodo.
Lei e lui indossano abiti che oggi farebbero la gioia dei cultori della moda anni Settanta. 
La modella - forse preoccupata dalla precarietà del set  - stringe con la mano destra una scatola dei famosi cioccolatini; la situazione è ovviamente il frutto di una rigida sceneggiatura, al termine della quale i due attori hanno probabilmente abbandonato il luogo dell'amore pubblicitario tirando un respiro di sollievo.  
Lo scorso anno, il giornalista palermitano Mario Pintagro è riuscito a ricostruire come e perché un luogo sconosciuto ai più sia stato scelto dalla Perugina per una campagna commerciale oggi ricordata da molti italiani ultracinquantenni . http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/02/13/larco-di-mongerbino-cosi-nacque-licona-del.html.
Dopo lo scatto pubblicitario, il virtuosismo geologico di Mongerbino avrebbe richiamato schiere di arrampicatori replicanti, sino all'inevitabile appropriazione dell'area da parte di un boss mafioso della zona.
In anni recenti, la demolizione di una costruzione abusiva sorta a pochi metri dall'arco ha rilanciato le attenzioni su questo tratto di costa palermitana.
La galleria fotografia tratta da YouTube è stata realizzata dall'Ufficio Stampa del Comune di Bagheria.

   


In passato, ReportageSicilia ha già riproposto una fotografia dell'arco di Mongerbino scattata una ventina di anni prima di quella utilizzata con successo dai pubblicitari http://reportagesicilia.blogspot.it/2012/03/da-qualche-tempo-reportagesiciliaintend.html.
Erano gli inizi degli anni Cinquanta quando lo scrittore ed etnologo Fosco Maraini - di casa a Bagheria dopo il matrimonio con Topazia Alliata di Salaparuta, complice un viaggio su una moto BMW dalla Toscana alla Sicilia - immortalò due donne ed un uomo a passeggio in costume da bagno sulla stretta schiena di pietra.

L'arco di Mongerbino in una fotografia
di Fosco Maraini databile agli inizi degli anni Cinquanta


Lo scatto di Maraini rivela che vent'anni prima del set della Perugina, alcuni pionieri degli angoli nascosti della costa palermitana calcavano disinvoltamente la pietra dell'arco: in questa fotografia, insomma, non si celebra l'amore ( posticcio ) ma il godimento della camminata su uno dei più suggestivi luoghi marini della Sicilia.  


  


sabato 15 novembre 2014

L'ATTRAZIONE SCICLITANA

Terra descritta da pittori, scrittori e intellettuali, Scicli sembra essere uno dei luoghi più carichi di ispirazione dell'isola
  
Una veduta di Scicli in una fotografia senza attribuzione
degli anni Cinquanta pubblicata nell'opera "Sicilia",
edita nel 1982 da EDIC Milano
per la collana "Regioni d'Italia" 

"Piombati attraverso cento e più chilometri di Sicilia verde, deserta, araba, greca, gesuita, coperta di fiori e di pietre, con mucchi di città incolori, raggrumate, senza periferia, come le città dei quadri sui fronti delle colline, nelle vallate, un gruppo di gente era ad aspettarci nella piazzetta giallognola di Scicli...".
Fu nella primavera del 1959 che Pierpaolo Pasolini descrisse così la provincia ragusana nel suo viaggio di avvicinamento verso un luogo che Elio Vittorini, in quel periodo, aveva descritto come "forse la più bella di tutte le città del mondo".


Una veduta di palazzo Beneventano
del fotografo M. Pedone.
L'immagine venne pubblicata nell'opera Federico De Agostini
 "Sicilia", edita nel 1965 da Bonetti Editore
per la collana "Italgeo"

Pasolini raggiunse Scicli in compagnia di Carlo Levi, Renato Guttuso, Antonello Trombadori, Paolo Alatri e Maria Antonietta Macciocchi, ospiti del Circolo Vitaliano Brancati: circostanza che testimonia l'attenzione di artisti, scrittori e pittori per questo piccolo paese ibleo rinato dopo il terremoto del Val di Noto.
Di Scicli e della sua storia - fra realtà e leggende popolari - si legge nel libro del giudice Severino Santiapichi "Romanzo di un paese" ( Rizzoli, 1995 ), mentre le cronache locali trovano da quarant'anni spazio nel periodico "Il Giornale di Scicli" http://www.ilgiornalediscicli.it/.
Ultimo capitolo dell'attrazione sciclitana è poi la notorietà televisiva procurata dall'ambientazione della serie del commissario Montalbano. 


Piero Guccione è stato tra i fondatori
del "Gruppo di Scicli", che ha riunito pittori isolani
e della penisola nella raffigurazione di temi
che si ispirano ai paesaggi ed alle atmosfere
della provincia ragusana.
Dal sito http://www.pieroguccione.it/
ReportageSicilia ripropone alcune opere
dell'artista sciclitano.
Il pastello del 2010 prende il nome di
"La grande ombra su Noto"



Ma alla cittadina ragusana è soprattutto legato il nome di una scuola pittorica siciliana - definita appunto, "Gruppo di Scicli" - che agli inizi degli Ottanta comprese ,fra gli altri, Piero Guccione, Franco Sarnari, Giovanni La CognataGiovanni Iudice http://www.ilgruppodiscicli.it/storia.htm.
Renato Guttuso definì l'attività di quegli artisti "un'isola di purezza di intenti", lamentando che "di quella piccola scuola di pittori l'Italia non sapesse nulla, di cui le Biennali non sanno niente o non gliene importa nulla di saperne".


"Collina vicino Modica dopo il tramonto",
pastello del 1985, sito citato

Nel 2004, la giornalista Lea Mattarella avrebbe così descritto l'attività del "Gruppo di Scicli", mettendo in relazione il linguaggio dei suoi pittori con "la luminosità quasi eccessiva di questi luoghi siciliani":

"E' composto da personalità e linguaggi autonomi, originali e anche distanti fra di loro.
Sono artisti di diverse generazioni, nati in Sicilia, magari migrati per qualche tempo in giro per l'Italia, ma poi tornati qui a cercare di rendere tangibile con la loro opera la profondità, la struggente bellezza di quella che Gesualdo Bufalino chiamava 'l'isola plurale'...


"Grande pascolo di agosto", 1983, tecnica mista,
sito citato

Ci sono Sarnari e Guccione nelle vesti di veri e propri catalizzatori di energie.
Il primo mostra dettagli di corpi ingigantiti da una prospettiva ravvicinata e rivela un'attrazione fatale verso un'astrazione apparentemente involontaria.
Guccione dipinge paesaggi infiniti, in cui l'occhio si perde e ritrova una bellezza che credeva dimenticata ed invece era lì ad attendere di essere svelata.


"Paesaggio di luglio", 1989, pastello,
sito citato

A questo proposito è fulminante Vincenzo Consolo che scrive di come l'artista, tornato a Scicli da Roma alla fine degli anni Settanta, 'non ricerca ma ritrova la sua luce, i suoi campi, i suoi cieli, il suo mare'.
Pittura di grande intensità è quella di Giovanni La Cognata che fra le strade di Palermo coglie i lati più segreti della città, quelli di 'luce e lutto', per citare ancora Bufalino.
E quella di Giovanni Iudice, con i suoi interni di cui pare di sentire il caldo. E infatti le donne che dipinge si spogliano e seducono quasi loro malgrado. Sembrano appena uscite da una pagina di Vitaliano Brancati ( ancora uno scrittore! ).


"Forma vagante", 2008-2009,
sito citato

Poi, naturalmente, c'è il colore, la luminosità eccessiva di queste parti: ne sono incantati interpreti come Franco Polizzi, Sonia Alvarez, Giuseppe Colombo, Salvatore Paolino, evocatore anche di misteriose figure della notte.
E poi c'è il mito, un'idea primordiale incarnata dai paesaggi di Lissandrello e Chessari e dalle figure scolpite di Candiano: tra le loro opere sembrano nascondersi gli antichi dei"



Nel 2009, un altro scrittore sarebbe arrivato a Scicli per incontrare Piero Guccione.
Si trattava di Stefano Malatesta, che di quel viaggio e della precedente vendita di un "bellissimo pastello" regalatogli anni prima da Guccione - "segno di un'amicizia non superficiale", ricorda Malatesta - avrebbe fatto materia di un capitolo del suo "La pescatrice del Platani e altri imprevisti siciliani" ( Neri Pozza, 2011 ).
L'incontro con Guccione - tornato nel luogo natìo da Roma dopo l'acquisto di una casa a Cala d'Alga - sarebbe però fallito, non senza una sorpresa:


"Un paio di anni fa sono tornato a Scicli.
Ma non riuscivo a trovare la strada che portava alla sua casa di campagna.
Quando ho chiesto informazioni ad un ragazzo che usciva da un casolare guidando una motoretta, mi sono sentito rispondere:
'Ma chi, il Mahatma?'"


"Il porto di Messina", 1993-1996,
sito citato


In un altro capitolo del libro, Malatesta avrebbe così descritto l'ispirazione e le difficoltà tecniche offerte ai pittori dalla luce e dai toni accesi dei colori siciliani, così presenti nella ricerca del "Gruppo di Scicli":

"La luce del sud ha spesso affascinato, ma ancora di più spaventato, i pittori forestieri almeno fino a quando la pittura è stata un'arte fondata su una tecnica che s'imparava faticosamente con gli anni a bottega o privatamente ( da come l'apprendista riusciva a impastare colore e luce si facevano scommesse sulla sua carriera" ).
Non sto parlando della luce cristallina dell'Attica in primavera o dell'atmosfera simile a un pulviscolo rosato di Roma in autunno.
Sto parlando di quel laser che illumina impietosamente le torride estati di alcune aree del Mediterraneo, così forte da annullare ogni rilievo e da schiacciare la prospettiva in un unico piano.


Paesaggio per il Gattopardo", 1987,
sito citato

La Sicilia è sempre stata una terra dove il mare sembra più blu, il cielo più violetto, la terra nello stesso tempo più aspra e più lussureggiante, con i colori e i sapori diversi o più forti, di cui i siciliani menano gran vanto.
La trasposizione di questi fenomeni di una natura generosa in opere d'arte presenta sempre difficoltà, perchè i tramonti infuocati, il mare che passa dal turchino al verde giada, il vulcano che erutta lava incandescente, risultano eccessivi a tradurli in una pittura accettabile, che sia giustamente colorata, ma non folkloristica, che non esiti a rendere la forza dei paesaggi, ma che non cada nel genere 'impepata di cozze'...".


Piero Guccione in una delle fotografie
tratte dal sito http://www.pieroguccione.it/.
L'artista di Scicli ha lungamente lavorato a Roma
per poi tornare nei luoghi di origine


   






    

sabato 8 novembre 2014

CARRI E CARRETTI NELLE IMMAGINI DI RUDOLF PESTALOZZI



Nella Sicilia rurale agli inizi degli anni Cinquanta il fotografo svizzero documentò la diffusione di un mezzo di trasporto e lavoro già vecchio di un oltre un secolo  

Dettaglio della ruota di un carretto con targa "carro agricolo"
nelle campagne dell'isola.
Le fotografie del post sono di Rudolf Pestalozzi
e vennero pubblicate nel volume di Giovanni Comisso "Sicilia",
edito a Ginevra da Pierre Cailler nel 1953 



Scriveva il geografo Aldo Pecora in "Sicilia" ( UTET, 1974 ), che nell'isola "il carro non ha mai conosciuto - come in genere nell'Italia meridionale - la consistenza e robustezza del carro agricolo delle regioni del Nord, ma soltanto la leggerezza ( persino leggiadra nella varietà dei suoi colori e spesso nel semplice tratto popolare dei suoi disegni o delle sue incisioni ) del 'carretto siciliano': un carretto così leggero da essere quasi escluso da gran parte dell'isola, anche dove c'erano le strade, ma troppo accidentate e ciottolose.






D'altra parte, in Sicilia la rete delle strade campestri è stata sempre così debole che ancora oggi i contadini provvedono al trasporto dei prodotti agricoli, pur dove esistono le strade, per lo più con asini e muli, che caricano al basto".
La storia dei carri siciliani è stata oggetto di numerosi studi e reportage, soprattutto quella degli esemplari decorati con scene dei paladini.
Lo sviluppo di questi esemplari  risalirebbe alla metà dell'Ottocento, quando i proprietari - perlopiù venditori di prodotti agricoli - avrebbero cominciato a dipingere le fiancate dapprima con immagini sacre, poi con raffigurazioni delle battaglie fra i cavalieri francesi e i principi saraceni.



Prima dello sviluppo di questa stagione decorativa, il legno dei carretti veniva lasciato allo stato grezzo oppure era colorato con semplici pennellate di giallo e celeste su fiancate, ruote e stanghe. 
Sembra che l'introduzione in Sicilia di questi mezzi di trasporto sia da datare tra la fine del XVIII secolo e i primi anni del XIX; al termine di quel secolo, i ritardi nello sviluppo della rete ferroviaria assegnavano loro ancora un ruolo primario nei collegamenti e nei commerci. 
Solo tra il 1881 ed il 1882 - notava un altro geografo, Ferdinando Milone in "Sicilia, la natura e l'uomo" ( Paolo Boringhieri, 1960 ) - "si cominciò a poter spedire da Caltanissetta, finalmente, lo zolfo, ch'è merce povera e non può sopportare le spese di lunghi viaggi su carri e carretti, ai porti di Licata e Porto Empedocle".
Soprattutto nelle zone rurali dell'isola, tuttavia, il carro avrebbe continuato ad avere sino a una sessantina di anni fa una funzione fondamentale per migliaia di famiglie contadine.



Così, molti reportage compiuti in quel periodo documentano la diffusa presenza di carri e carretti nelle campagne dell'isola.
Le immagini del fotografo svizzero Rudolf Pestalozzi riproposte da ReportageSicilia vennero pubblicate nel 1953 nell'opera di Giovanni Comisso "Sicilia", edita a Ginevra da Pierre Cailler
Alcuni di questi mezzi di trasporto appaiono decorati e finemente istoriati da maestri "carradori" e pittori; altri hanno struttura e finitura meno elaborate.
Gli uni e gli altri esemplari dimostrano la quotidianità della vita agricola nella Sicilia degli anni Cinquanta, prima che i motori di furgoni e camion cominciassero a sostituire asini, muli e cavalli nella trazione dei mezzi di trasporto del mondo rurale.  
    

venerdì 7 novembre 2014

DISEGNI DI SICILIA



LOCANDINA A.A.T.P.M dell'anno 1949


giovedì 6 novembre 2014

SUGGESTIONI E SPERANZE PER LA COLTURA DEL COTONE A GELA

Il fallimento di un progetto del gruppo catanese Rendo mise fine nel 1985 al sogno di un ritorno delle storiche piantagioni nelle campagne del nisseno.
Adesso un nuovo piano regionale rilancia le speranze per il cotone gelese

Coltivazione di cotone nelle campagne di Gela.
La fotografia risale alla fine degli anni Cinquanta ed è tratta
dall'opera enciclopedica "Atlante Gente-Natura-Civiltà"
edita da De Agostini nel 1962.
La produzione del cotone gelese ebbe termine nel 1974.
Nel 1985 un progetto catanese di rilancio della coltura
non ebbe alcun seguito

In passato ReportageSicilia ha dedicato uno dei suoi post agli anni cui Gela affidava una buona parte delle sue risorse lavorative ed economiche alla produzione del cotone http://reportagesicilia.blogspot.it/2008/05/la-breve-epopea-del-cotone.html.
L'occasione di tornare sull'argomento è ora offerta dalla riproposizione di una fotografia pubblicata nel 1962 nelle pagine della "Enciclopedia Atlante Gente-Natura-Civiltà" edita da De Agostini. 
 

L'immagine dovrebbe risalire alla fine degli anni Cinquanta dello scorso secolo e ritrae un gruppo di raccoglitori dei fiocchi di cotone prima dell'avvento degli strumenti per la raccolta meccanica.
A Gela, la sgranatrice che serviva a separare la fibra del cotone dai semi smise di funzionare nel 1974
Ancora dieci anni dopo, nelle campagne della cittadina nissena resistevano circa quaranta ettari di terreno di una coltura che prima del secondo conflitto mondiale ne occupava circa 60.000.



Alla metà degli anni Ottanta, l'illusione del rilancio di una attività agricola legata alla storia stessa di questa zona dell'isola venne alimentata da un progetto che si aggiunge alla lista delle molte "incompiute siciliane".
La Comes - un'azienda di consulenza catanese legata al gruppo Italimprese della famiglia Rendo - mise in piedi un piano che avrebbe dovuto rilanciare la coltura del cotone, garantendo un reddito per ettaro quattro volte superiore a quello offerto dal grano duro.
Il progetto avrebbe avuto Gela come sito di riferimento e prometteva di coinvolgere anche altre migliaia di agricoltori fra SciaccaPaceco, Paternò, Ramacca e Caltagirone.
La Comes assicurava lo studio e l'introduzione di semi sperimentali e l'acquisto di attrezzature all'avanguardia di produzione americana.
Nulla di tutto ciò è naturalmente accaduto.
Gela ha continuato ad affidare le sue sorti lavorative ed economiche agli impianti del petrolchimico, mentre il gruppo Italimprese dei Rendo - dopo varie disavventure giudiziarie - è stato nel dichiarato fallito nel 1997.
La storia del cotone gelese è quindi affidata ai ricordi degli anziani ed alle vecchie fotografie: memorie cariche di suggestione e di rimpianto per la scomparsa di una coltura che un tempo imbiancava i terreni di quest'area della Sicilia agricola.
La speranza di un ritorno a questa coltivazione è da qualche tempo affidata ad un progetto della Regione; i primi passi, sembrano incoraggianti http://gds.it/2014/02/08/gela-dopo-mezzo-secolo-tornano-i-campi-di-cotone-investimento-da-5-milioni-319719_153147/