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domenica 28 maggio 2023

ELIO VITTORINI E L'IDENTITA' ISPANICO-PAKISTANA DELLA SICILIA INTERNA

Sicilia rurale negli anni Sessanta.
Fotografia di Franz Tomamichel
pubblicata in "Sicilia" di Jakob Job,
Edizioni Silva Zurigo, 1971


"Ecco il paese che ci interessa... La sua forma - ha scritto Elio Vittorini in "Le città del mondo. Una sceneggiatura", 1959 - è un'immagine che anche gli antichi greci consideravano classica. Non molto grande, ventiseimila chilometri quadrati di superfice con cinque milioni di abitanti, ha però in tutte le sue cose, e nel suo modo stesso di trasformarsi, un carattere così particolare che ognuno finisce per pensarla non come un'isola, ma come un'India, un Messico, una specie di continente. Voi già ne conoscete la geografia, la flora, la fauna, la storia fino almeno alla sua unificazione con l'Italia... Inoltre avrete sentito parlare o avrete letto dei suoi problemi vecchie e nuovi; e magari siete stati tra i giardini di aranci di Taormina col mare in basso e le nevi dell'Etna dietro le spalle, e avete magari visitato Palermo, visitato Catania, visitato Siracusa, visto i templi di Agrigento, e attraversato in automobile le stupende città barocche di Noto e Modica. Ma che cosa sia la Sicilia dov'essa fa continente, come terra e come popolo, al di là delle sue apparenze costiere di giardino del Mediterraneo, fuori dalle sue città capitali e dalle sue strade di grande comunicazione, può immaginarselo meglio un contadino del Pakistan o un pastore dell'Estremadura che il turista calato da Milano per fermarsi al Delle Palme di Palermo o al Villa Politi di Siracusa.



Perché l'interno della Sicilia somiglia assai più, come terra e come popolo, al Pakistan delle steppe o all'Estremadura che alle ricche regioni agricole della sua stessa fascia litoranea. Anche i nomi dei paesi, all'interno, sono diversi da quelli della località costiere. Sono solenni, d'un timbro di metallo antico: Aidòne, Agìra, Gangi, Assoro, Caltavutùro, Pietraperzìa, Resuttano, Riesi, Caltabellotta, Càccamo, Contessa Entellina..."    

mercoledì 24 maggio 2023

LA LUNGA ATTESA DEL RECUPERO DELLA COLOMBAIA DI TRAPANI

La Colombaia di Trapani.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Sette miliardi e 300 milioni di euro: è la somma destinata alla Sicilia - il 10 per cento del totale nazionale - dai fondi previsti dal PNRR. In molti casi, l'impiego di queste risorse - fatte salve incapacità burocratiche o cattiva gestione - dovrebbe garantire l'esecuzione di interventi gravati da decenni di ritardi. Un caso esemplare è rappresentato, a Trapani, dal recupero della Colombaia, edificio per la cui tutela strutturale il PNRR prevede l'impiego di 27 milioni di euro. L'abbandono è il frutto di quello che il Fondo per l'Ambiente Italiano ha definito nel 2009 come un "intricato iter burocratico" intercorso fra Genio Civile e Regione: una paralisi decisionale sul destino della Colombaia che ha favorito il degrado e la rovina delle sue strutture, malgrado le denunce dello stesso FAI e dell'"Associazione Salviamo la Colombaia" di Trapani. Come ha scritto Alberto Costantino in "La Colombaia di Trapani. Storia, miti e leggende lungo 2500 anni" ( Quick Edizioni, 2022, Trapani ):

"La Colombaia è stata proprio dimenticata. Messa da parte dai politici e dai trapanesi che non si accorgono che sta cadendo a pezzi. Di tanto in tanto qualcuno ( Regione Siciliana, sindaco di Trapani ) ne fanno cenno, cercando e chiedendo qualcosa, ma di fatto l'antica torre resta lì, all'ingresso del porto. Desolatamente sola. Ricevendo di tanto in tanto qualche visita di vandali devastatori..."   

Il monumento, isolato dalla terraferma, racconta una storia che va dall'età cartaginese sino all'età borbonica, quando il castello militare - dal 1849 - venne utilizzato come carcere. Scampato ai bombardamenti ed ai mitragliamenti del secondo conflitto mondiale - ma non ai saccheggi, a fine 1943 e sino al ritorno dei detenuti - questa destinazione terminò nel 1965, quando fra i reclusi figuravano alcuni esponenti della mafia di Campobello di Mazara. In questa "Alcatraz" trapanese - che in età borbonica vide in cella il generale Guglielmo Pepe, e, nei primi del Novecento, il brigante di Alcamo Raffaele Ballo - furono ospitati sino a 600 detenuti. Non mancarono le evasioni: l'ultima nel maggio del 1963, quando tale Vincenzo Caruso riuscì a scavalcare le mura di cinta, guadagnando a nuoto la vicina terraferma. Ora, nel progetto che dovrebbe finalmente salvare la Colombaia grazie ai milioni del PNRR c'è anche la possibilità di realizzare una passerella che dovrebbe collegare il vecchio carcere con il porto turistico di Trapani: la città - fra il disinteresse di tanti e le aspettative di pochi - attende.

domenica 21 maggio 2023

IL "MALE DI PIETRA" DEI LIPAROTI IN UN REPORTAGE DI CONSOLO SU "TEMPO"

Cavatore di pomice a Lipari.
Le fotografie del post sono di Melo Minnella,
opera citata


""Male di pietra" continuò il marinaio. "E' un cavatore di pomice di Lipari. Ce ne sono a centinaia come lui in quell'isola. Non arrivano neanche ai quarant'anni.  I medici non sanno che farci e loro vengono a chiedere il miracolo alla Madonna negra qui del Tindaro. Speziali e aromatari li curano con senapismi e infusi e ci s'ingrassano. I medici li squartano dopo morti e si dànno a studiare quei polmoni bianchi e duri come pietra sui quali ci possono molare i loro coltellini. Che cercano? Pietra è, polvere di pomice. Non capiscono che tutto sta a non fargliela ingoiare..."

"... Al di là di Canneto, verso il ponente, s'erge dal mare un monte bianco, abbagliante che chiamasi Pelato. Quivi copiosa schiera d'uomini, brulichio nero di tarantole e scarafaggi, sotto un sole di foco che pare di Marocco, gratta la pietra porosa col piccone; curva sotto le ceste esce da buche, da grotte, gallerie; scivola sopra pontili esili di tavole che s'allungano nel mare fino ai velieri..."  

Nel 1976, in "Il sorriso dell'ignoto marinaio" ( Einaudi, Torino ), Vincenzo Consolo così descrisse la diffusione della silicosi - "il male di pietra" - che stroncava le vite dei cavatori di pomice di Lipari: un'attività di estrazione già iniziata sul finire del secolo XVII e terminata dopo il fallimento degli stabilimenti di Italpomice ad Acquacalda e della Pumex a Porticello, nel 2015. Prima di dedicare alla pomice di Lipari le pagine del romanzo, Consolo aveva riservato a questo tema un reportage documentario. 



Lo scritto, corredato da alcune fotografie di Melo Minnella, venne pubblicato il 31 ottobre del 1970 dal settimanale "Tempo". Vi si leggono alcune notizie sulla gestione degli impianti di quel periodo, di proprietà della Pumex: una società per azioni di recente costituzione che raggruppava vecchie ditte a nome collettivo. Sette azionisti della società facevano parte del consiglio comunale di Lipari - "virtualmente ineleggibili, perché proprietari di beni di proprietà del Comune e contro cui non è stato avanzato alcun ricorso" - sottolineò Consolo. In quel reportage, lo scrittore ricordò anche le liti giudiziari che nell'Ottocento contrapposero il municipio alla mensa vescovile di Lipari. Motivo della storica contesa, lo sfruttamento del giacimento di pomice sino ad allora in mano all'istituzione religiosa, che rivendicava il possesso delle sette isole isole Eolie per la donazione ricevuta nel 1084 da Ruggero il Normanno



Tuttavia, lo scritto pubblicato da "Tempo" si rivelò soprattutto un atto d'accusa contro le condizioni di lavoro degli operai e degli abitanti di Lipari, costretti ancora nel 1970 a respirare la polvere finissima della pomice;"fumate bianche" in grado di vetrificare i polmoni, causando la morte di tanti di loro dopo pochi lustri di inalazione:

""Il bisturi strideva come se intaccasse una pietra. E il polmone era rigido, duro e bianco come la pietra", racconta un avvocato di Lipari, che, da vice-pretore, s'era trovato ad assistere una volta all'autopsia su un cavatore di pomice di Canneto, isola di Lipari, morto sul lavoro. E' stata quella un'esperienza che non dimentica. Quei due polmoni bianchi, isolati da tutto il resto come certi organi di cera appesi per voto all'altare di San Bartolomeo, sono fissi nella sua memoria. Erano frequenti allora queste morti per consunzione di cavatori sul lavoro. I più fortunati morivano a casa, di notte o di domenica: sui 35, 40 anni. Oggi, invece, arrivano fino ai 45-50 anni i cavatori di pomice di Canneto e Acquacalda, isole Eolie. La vita media di questi operai s'è allungata, grazie al fatto che si è scoperto da pochi anni ( per merito del vecchio medico condotto di Canneto, il dottor Di Perri ), che la causa vera della loro morte è il male della pietra, la silicosi. Ma i morti sono ancora sei all'anno, e gli ammalati di silicosi il 90 per cento su circa 800 operai. E in compenso, anche coi ritrovati moderni della tecnica per l'estrazione e la lavorazione della pomice sul posto, si ammala di silicosi anche la popolazione dei due paesetti di Lipari, uomini che alle cave non lavorano, le donne e i bambini. 



L'estrazione avveniva prima con picconi e i badili, il trasporto cn le ceste e le carriole, la macinazione la facevano le donne chiuse dentro i magazzini, pestando la pomice con le pietre piatte e levigate dal mare. Oggi vi sono perforatrici, carrelli coi binari, tapis-roulants e mulini che riducono la pomice in granulato e polvere finissima. Questi mezzi meccanici, moderni, provocano costantemente quelle che gli operai chiamano "fumate bianche". Essi lavorano sempre avvolti in queste brume micidiali. Certo, dovrebbero usare le maschere, e le ditte le hanno comprate. ma gli operai non riescono a sopportarle per più di cinque minuti: per il caldo, per le difficoltà di respirazione, per la costrizione e pressione che esercitano sul viso. Gli abitanti dei due centri vivono dentro la pomice. Ed ora, ad Acquacalda, la società Italpomice vuole impiantare un altro grosso mulino in pieno centro abitato, a ridosso delle scuole elementari. Gli abitanti di Acquacalda non vogliono questo mulino, si sono ribellati, hanno mandato delle petizioni alle solite autorità competenti. Le quali ancora non hanno fatto sapere quali decisioni prenderanno. Le montagne di pomice non si vedono dagli alberghi gremiti di vulcano, nè dal porto di Lipari intasato di "barche" forestiere, nè dalla villa del musicista Sergiu Celibidache, a Quattrocchi, l'alto poggio da cui si godono sublimi visioni e infiniti orizzonti; nè da tutta la costa di sud-est e di sud-ovest dell'isola affollata di turisti. Per vederle, bisogna fare tutta la Marina Lunga, traversare il tunnel  sotto il Monte Rosa e arrivare fino a Canneto. Canneto già comincia a biancheggiare. Alle spalle di Canneto è il Monte Pelato, il monte grigio-bianco di pomice con tra le gole radi cespugli verdastri. Oltre Canneto, la strada si arrampica e serpentina verso l'alto. Si passa per Capo Rosso, Pietra Liscia, Porticello, Campobianco. La stradina asfaltata è come una passatoia sul soffice bianco. Blocchi e schegge di ossidiana affiorano tra la polvere..."



"... A Campobianco, a sinistra, sul lato della montagna tagliata ad anfiteatro, vi sono le bocche scure delle gallerie, le aperture ad arco dei cunicoli che corrono dentro la montagna. Gli operai sono dentro le gallerie o sparsi qua e là per il costone. I carrelli corrono sferragliando sui binari, scaricano sui camion e i camion portano il materiale ai mulini. C'è scritto dappertutto Pumex, sui camion, sulle bocche delle cave, sui mulini. E' la società che estrae, lavora e commercia la pomice in questa zona..." 


 

mercoledì 17 maggio 2023

I "CURDARI" E LA PRATICA DI SCRUTARE IL CIELO

Conclusione della lavorazione 
di una corda di canapa.
Fotografia tratta da 
"Le forme del lavoro. Mestieri tradizionali di Sicilia",
opera citata nel post


Da molti decenni le fibre sintetiche hanno fatto quasi del tutto scomparire in Sicilia la figura del cordaio specializzato nella manifattura delle corde di canapa. In molti centri del Belìce, ancora agli inizi degli anni Sessanta dello scorso secolo operavano alcune botteghe di cordai, i "curdari" o "cannavari": artigiani capaci di gestire il loro lavoro ed il loro sapere in stretto rapporto con l'ambiente circostante e con le condizioni del tempo.

"La bottega - si legge in "Le forme del lavoro. Mestieri tradizionali di Sicilia" ( Quaderni del "Servizio Museografico" della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Palermo, S.T.ASS, Palermo, 1986 )  - era in realtà un magazzino, più o meno ampio, ma l'ambiente di lavoro vero e proprio era la strada, la piazza o il cortile, qualsiasi spazio aperto sufficientemente esteso in lunghezza da consentire di stendere i fili, d'intrecciarli e di ritorcerli. Alcuni artigiani preferivano lavorare in piena campagna, all'ombra degli alberi di olivo o tra i filari delle vigne. Restava per tutti la precarietà di un mestiere affidato agli umori del cielo che, soprattutto durante le stagioni più fredde, veniva scrutato ogni giorno ai primi chiarori, per accertarsi che valesse la pena portare fuori strumenti e materiali. La pioggia, infatti, era la preoccupazione quotidiana del cordaio: se pioveva, il lavoro s'interrompeva e si complicava. I fili "arriddàvanu" e si "nturciuniàvanu", bisognava aspettare il sole e poi stirarli ad uno ad uno attaccandone le estremità ai paletti di legno ( e non di ferro, come di solito, per evitare formazioni di ruggine ) piantati a terra. Finché i filati non erano completamente asciutti e rigidi ( "tranti" ), non potevano essere intrecciati. In estate, quando ridotti sono i rischi delle piogge e più lunghe le ore di luce, l'attività del cordaio registrava, invece, una sensibile accelerazione di ritmi con notevole incremento di produzione..."  

martedì 2 maggio 2023

LA SICILIA DI MASSIMO ONOFRI, UNA STORIA DI BELLEZZA E DANNAZIONE

Petralia Soprana,
sulle alte Madonie.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"In Sicilia, insomma - ha scritto Massimo Onofri in "Passaggio in Sicilia" ( Giunti, 2016, Firenze-Milano ), resoconto "fuori dei percorsi obbligati dell'esotismo di massa, alla ricerca di sé, del sé", si legge nell'aletta di copertina - ci si può andare anche senza raggiungerla per davvero: con gli occhi e gli orecchi della mente, con la sola fantasia. Al modo di Stendhal, appunto, che ce ne diede persino un resoconto dettagliato, senza mai essersi mosso da Reggio Calabria, come ci racconta deliziosamente Sciascia, nel suo bellissimo "Stendhal e la Sicilia" (1983). Che è poi, il viaggio di Stendhal dico, il più bello dei viaggi possibili: quello del desiderio... 



Bisognava arrivare quassù, sulle Madonie, in questo giuoco di suggestioni tra Nord e Sud soprattutto fantasticati, per capire una verità cruciale: la bellezza della Sicilia, da giardino delle Esperidi, non importa se immaginaria o perduta, è stata anche una delle cause della sua dannazione. Come sapeva benissimo Maria De Lorenzo, una poetessa troppo appartata per pubblicizzarsi, è per troppa grazia di Dio, non per difetto, che noi patiamo le pene dell'inferno..."   



lunedì 1 maggio 2023

TONALITA' E TRASPARENZE DI STROMBOLI NELLA DESCRIZIONE DI CESARE BRANDI

Al largo di Ginostra,
nel mare di Stromboli.
Foto di Armao
pubblicata nell'ottobre del 1975
dalla rivista "Sicilia"
edita dall'assessorato regionale al Turismo


Cesare Brandi visitò per la prima volta le Eolie nel 1950. Era un periodo in cui le isole conservavano ancora un carattere di arcaica quotidianità, favorita dall'assenza di quel turismo di massa che determina il consumo delle identità locali, inevitabile contropartita del benessere economico. Lo storico dell'arte si innamorò soprattutto di Panarea, "isola meravigliosa, che unisce la fantasia nordica al calore abbagliato del sud: Grunewald e la Grecia". Anni dopo - nel 1971 - Brandi sarebbe tornato a visitare l'arcipelago messinese, così descrivendo Stromboli, la più orientale fra le sette isole:

"Stromboli sembra da lontano un piviale di broccato azzurro e oro che invece della mitria del vescovo innalza un pennacchio di fumo; Basiluzzo, Dattilo, si vestono di sfumature che vanno dal giallo zolfo, a quello tenero e quasi lattiginoso, al turchese e all'ametista. E tutto ciò su un mare che da lontano è azzurro fondo come lo è solo l'Egeo, e da vicino è trasparente proprio come quella pietra preziosa che appunto si chiama acqua-marina..."