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lunedì 30 novembre 2020

IL DISINTERESSE DEI SICILIANI VERSO LA BELLEZZA DELLA PROPRIA TERRA

Abusivismo edilizio 
su una spiaggia fra Tusa e Finale di Pollina.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


In sosta su una piazzola di servizio della strada statale 113, fra Palermo e Messina, a ridosso della deserta costa sassosa fra Tusa e Finale di Pollina. C'è un magnifico silenzio, il mare di novembre - blu scuro, appena increspato dal vento - quando lo sguardo scopre proprio a ridosso della battigia un gruppo di casette a schiera: una sfrontata lottizzazione abusiva, visibile a chiunque si sia mai affacciato da  questo luogo per godere di un paesaggio sfregiato da chissà quanti anni.

Di posti così in Sicilia se ne contano tanti, e in un periodo in cui nell'Isola si prospettano nuove sanatorie, ennesimi condoni edilizi. Il primo disegno di legge presentato per questa materia all'assemblea regionale siciliana - in nome del diritto di costruire ovunque, magari con la giustificazione dello "stato di necessità" - risale all'ottobre del 1976

Il provvedimento ebbe il via libera il 30 settembre del 1978, legittimando nell'Isola l'idea stessa che costruire edifici come quelli visibili fra Tusa e Finale di Pollina, con la complicità delle leggi, fosse cosa del tutto lecita.

Secondo uno studio della facoltà di Ingegneria di Palermo, nel solo decennio 1971-1981 sono sorti in Sicilia almeno 345.000 alloggi abusivi. 

Da allora, il cancro cementizio che non ha mai smesso di crescere, deturpando il paesaggio, favorendo la politica clientelare, l'economia illegale e la piaga della burocrazia: sino al 2016, le pratiche di sanatoria edilizia giacenti negli uffici comunali dell'Isola erano oltre 360.000, inequivocabile certificazione del disinteresse dei siciliani nei confronti della bellezza della propria terra. 



domenica 22 novembre 2020

POVERTA' E TUMULTI A TROINA NEL FEBBRAIO DEL 1898

Una veduta di Troina.
La foto di Gaetano Armao
è tratta dalla rivista "Sicilia"
edita dall'Assessorato al Turismo
della Regione Siciliana
nel dicembre del 1973


Le condizioni di miseria di molte province della Sicilia alla fine dell'Ottocento - anticipatrici di una "questione meridionale" mai affrontata e risolta in Italia - provocarono rivolte popolari in molti comuni dell'Isola.

Fra le più gravi, si ricordano quelle avvenute a Troina nel 1898: centinaia di uomini, donne e ragazzi furono protagonisti di disordini con carabinieri, delegati di pubblica sicurezza e soldati dell'esercito mandati in tutta fretta dalla Prefettura di Catania per sedare i tumulti.

Già nel settembre del 1887 - nei tragici giorni di un'epidemia di colera, favorita dall'assenza di una moderna rete idrica e fognaria - le condizioni di miseria a Troina avevano provocato altre rivolte, costate la vita ad un carabiniere.

Le violenze del 1898 ebbero luogo per tutta la seconda metà del mese di febbraio; così il Corriere della Sera riferì quelle più gravi, avvenute nelle giornate del 17 e del 18:

"Una grande moltitudine di contadini di Troina affamati, da molti giorni chiedendo inutilmente distribuzioni di farina e di frumento, assalì il Municipio, penetrò negli uffici, ruppe i mobili, percosse gli impiegati , prese una bandiera e scese in strada chiamando la popolazione alle armi.

Incontratisi con i soldati, cominciarono la sassaiola. I soldati risposero col fuoco. Vi furono quattro morti e una ventina di feriti. furono feriti anche un tenente di fanteria, il delegato Boccafurni e quattro soldati.

I contadini maggiormente compromessi si sono dati, armati, alla campagna. Furono spedite in rinforzo due compagnie. La causa dei gravi torbidi si attribuisce alla scarsezza del lavoro e al rincrudimento delle tasse..."

lunedì 16 novembre 2020

RICORDO DI UNA MEMORABILE PESCA DI RICCIOLE A MARETTIMO

Approdo allo scalo vecchio di Marettimo.
Foto del post
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"Il Maretimo ha il circuito di otto in nove miglia circa. E' una montagna alta, ed alpestre; non forma alcun seno accessibile, meno di una piccolissima baja, ove può appena ricovrarsi un battello di piccola portata. La sua figura è quasi sferoidale. La parte che guarda il ponente è quasi intrattabile. Quella di levante è un poco meno inclinata, e contiene pochi terreni seminativi. Il rimanente del terreno sarebbe atto ad alberi d'alto fusto, poiché consiste di terra, e piccole pietre. In tutte le stagioni quasi è dominato dai venti, che nell'inverno si manifestano violentissimi. Tali circostanze hanno disanimato i naturali di Favignana a coltivarlo. Vi sono dalla parte di Levanzo alcune sorgenti d'acqua dolce..."  

Questa storica descrizione di Marettimo ( Documento 8, Attività e passività nella gestione delle Isole, con esclusione delle Tonnare, nel 1816, Archivio di Stato Palermo, Real Segreteria, Incartamenti, busta 5401, anno 1816, tratto da "Lo Stabilimento Florio di Favignana, storia, iconografia, architettura", Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Trapani, Regione Siciliana, 2008 )   spiega in maniera eloquente come i marettimari - al contrario degli abitanti di gran parte delle altre isole siciliane - siano stati costretti a diventare abilissimi pescatori.



La natura rocciosa e scoscesa dell'isola ha di fatto impedito la pratica delle colture agricole e la sussistenza è stata quindi da sempre affidata alle fatiche e ai rischi della pesca in mare.

L'abilità degli isolani li ha portati con successo a pescare gamberi e aragoste in California e salmone in Alaska: mari lontani che non gli hanno tuttavia impedito di fare spesso ritorno in quest'angolo delle Egadi, in visita a nipoti e cugini.

Oggi i pescatori di Marettimo - poche decine, sui circa 200 abitanti - si limitano alla pesca di scorfani, polpi, calamari, triglie e lampughe; preda ambita rimane sempre la ricciola, che in passato era molto più presente nelle acque dell'isola.



A testimonianza di ciò, a Marettimo si conserva un targa in marmo che tramanda un'eccezionale pesca di ricciole effettuata il 26 aprile del 1870 da Gaspare Liotti e Vincenzo Spadaro.

L'iscrizione, collocata ai piedi di un altare votivo dedicato a San Francesco da Paola, nei pressi dello scalo vecchio, ricorda quelle in pietra di tufo che all'interno della tonnara della vicina Favignana celebrarono nell'Ottocento le eccezionali annate di cattura dei tonni, in un approccio già industriale delle attività di pesca. 



A differenza delle favignanesi, la piccola targa in marmo di Marettimo rievoca la straordinaria e miracolosa pesca di ricciole di due pescatori usciti in mare per provvedere al quotidiano sostentamento delle proprie famiglie; e, almeno quel giorno di aprile di 150 anni fa, la loro missione risultò talmente fortunata da diventare memorabile.  


domenica 8 novembre 2020

LA DISADORNA E SOLITARIA BELLEZZA DI SCLAFANI BAGNI

Sclafani Bagni,
la chiesa di San Filippo.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Con i suoi trecento abitanti, Sclafani Bagni è il più isolato e tranquillo paese delle Madonie; un luogo che prepara il viaggiatore alla solitudine sin dalle dissestate e deserte strade che permettono di raggiungerla: bellissima quella che la collega a Cerda, che si snoda lungo un anfiteatro di discese e salite su cui si sfidarono i bolidi della Targa Florio.
Arrivati a destinazione, Sclafani Bagni mette in mostra i resti severi del millenario castello e l'architettura di elementare eleganza di un buon numero di chiese, prova evidente dello spopolamento subito dal paese nei secoli.



Il centro abitato ricorda l'ambiente di molti altri paesi delle Madonie, così come descritto nel 1961 dallo scrittore  Giovanni Guaita in "Paesi delle Madonie - I campi da sci della borghesia palermitana" ( "Sicilia", volume I, collana "Tuttitalia", G.C.Sansoni - Istituto Geografico De Agostini, pp.240-241 ):

"Le case sono spesso disadorne, ma di una nudità sincera e civile, l'erosione del tempo e la unicità del materiale impiegato hanno creato una uniformità di tono che non dispiace, ogni tanto le decorazioni di un arco catalano, col loro rigoglio simile a quello di cosa vegetale, o un terrazzo settecentesco, con la sua ricca ringhiera in ferro tutta aperta come un fiore sul paesaggio cittadino, dimostrano un'antica dignità di vita locale...

L'importanza della montagna è espressa in modo scenografico: tutti i paesi le sono disposti intorno in un'alta catena eguale e ininterrotta, senza intrusione di quelle borgate un pò difformi nate nell'Ottocento o nel Novecento ai nodi stradali o ferroviari, o di quelle altre, piatte e aperte, costruite nel Settecento da qualche ricco feudatario.

Sono centri cresciuti su se stessi, ciascuno nel suo angolo di montagna, collegati tra loro da strade rotabili, e collegati invece al territorio interno da un ventaglio di trazzere.
Ma certo la montagna ha sempre agito in un senso conservatore, su una società già tesa sino allo spasimo a conservare i rapporti e le tecniche tradizionali..."   
 

mercoledì 4 novembre 2020

SE ANCHE UN BANDITO IN SICILIA ENTRA NEL RACCONTO DELL'"ISOLA DEL MITO"

Il bandito Salvatore Giuliano.
Sotto, un avviso sulla taglia offerta
per la sua cattura e il corpo di Giuliano
così come venne fatto ritrovare a Castelvetrano.
Le foto sono tratte dall'opera
"Salvatore Giuliano" edita nel 1961 da FM
a cura di Tullio Kezich


"L'uomo non ha cessato, neanche nei tempi storici, di favoleggiare sulla Sicilia, che è la terra stessa del mito: qualsiasi seme vi cada, - ha scritto Cesare Brandi in "Sicilia mia" ( Sellerio editore Palermo, 2003, p.19 ) - invece della pianta che se ne aspetta, diviene una favola, nasce una favola.

Si pensi a cosa era diventato Giuliano: un bandito sia pure, ma così vicino al mito da superare la sua sorte: e il tradimento che lo fece cadavere, fu tradimento non una sistemazione dei conti con la giustizia.



Ma perché la cosa accadeva in Sicilia: in qualsiasi altro luogo sarebbe rimasto un bandito senza aggettivi, e la sua morte un fatto collegato alla vita abominevole che aveva condotto.

Questa è la forza e la spontaneità del mito siciliano..."



martedì 3 novembre 2020

LE RACCOMANDAZIONI DI INGHAM AI VITICOLTORI TRAPANESI

Vitigni nel territorio di Erice.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"Sono secoli per non dire millenni che i siciliani coltivano le loro vigne con tenacia e fatica immutata; quei ceppi bassi, che si alzano a pochi centimetri dalla terra calda e asciutta dalla quale ricevono l'essenza del loro vigore..."

Così scriveva Claudio Ragaini in una delle note di "Sicilia", edito da Zanichelli nel 1980 con una raccolta di fotografie di Pepi Merisio e un'introduzione di Fortunato Pasqualino.

Oltre un secolo prima - nel 1853 - un catasto borbonico calcolava l'estensione complessiva in 145.000 ettari ed un totale di 774 milioni di viti

Così, oggi i vigneti contraddistinguono e modellano una buona parte del paesaggio dell'Isola: oltre 100.000 ettari, buona parte dei quali nella provincia di Trapani, una fra le più vitate d'Italia.

Qui, i ceppi sfidano in tutte le stagioni i venti di maestrale, levante e scirocco: accade ad esempio su una delle colline ai piedi della rocca di Erice, con una vista che spazia sino a Mazara del Vallo e Marsala.

Proprio in questo angolo di provincia trapanese - ha ricordato Enrico Iachello in "Il vino: realtà e mito della Sicilia ottocentesca" ( "La Sicilia del vino", Giuseppe Maimone Editore, Catania, 2003 ) - nell'Ottocento Benjamin Ingham dettò alcune raccomandazioni che miravano a razionalizzare la coltura e la vinificazione:

"Per la coltivazione raccomandava di liberare i terreni dalle erbacce e far eseguire con accuratezza la potatura, nonché di sollevare da terra, nei mesi di luglio e agosto, i grappoli di uva che 'possono toccarvi' al fine di 'evitare il disgustevole sapore di terra, spesse volte rimarchevole nei vini di Sicilia'.

Raccomandava poi di iniziare la vendemmia solo quando le uve erano 'perfettamente mature' e di non mischiare uve nere e bianche e far attenzione di evitare 'la fermentazione del mosto dei palmenti... sommamente pregiudizievole al vino... adottando a preferenza il metodo di pestare e imbottare, detto pestimbotta'..."