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Fotografie dello scavo archeologico subacqueo nel 1971 esposte all'interno del Museo Archeologico Regionale Lilibeo Marsala |
Il 9 agosto del 1971 una missione archeologica britannica guidata dalla ricercatrice subacquea Honor Frost, lavorando nell'area dello Stagnone di Marsala - a poche centinaia di metri da Mozia - individuò a poco più di tre metri di profondità il fasciame di una nave punica: una delle prime scoperte nel tratto di mare fra Tunisia e Sicilia. Come in tutte le storie dell'archeologia subacquea e dei reperti che giacciono sui fondali marini, la storia di questo eccezionale ritrovamento fa registrare un prologo poco noto; sembra infatti che il relitto fosse stato individuato nell'agosto del 1969 durante un dragaggio di sabbia compiuto da alcuni operai di una fabbrica di bottiglie di vetro. Nell'estate del 1970, Honor Frost - una pioniera nell'esplorazione subacquea dei relitti del mondo antico mediterraneo - avviò le prime campagne di studio nello Stagnone di Marsala, culminate, l'anno successivo, nella individuazione del fasciame dell'imbarcazione punica.
La nave, che fu forse un'imbarcazione da guerra, doveva avere una lunghezza di oltre trenta metri ed una larghezza di quasi cinque. Diversi materiali furono utilizzati per la sua costruzione: ferro, bronzo e rame per i chiodi, cera e piombo per la calafatura, legno di pino nero, di acero e di quercia per il fasciame. Nella parte più interna della chiglia furono recuperati trucioli di legno, segno forse che nel periodo del suo affondamento - stimato nel terzo secolo avanti Cristo - l'imbarcazione era stata costruita da pochissimo tempo. In diversi punti del fasciame furono individuati disegni, numeri e simboli grafici che indicano come lo scafo fosse stato "prefabbricato", assemblando le singole parti del progetto complessivo. Dai fondali, la spedizione inglese recuperò anche ossa umane di almeno due uomini e di un cane. Cinquant'anni dopo la scoperta del relitto, la nave punica dello Stagnone di Marsala - i cui resti sono visibili all'interno del Museo Archeologico Regionale Lilibeo Marsala - necessitano di un nuovo intervento di restauro. La Fondazione Honor Frost ha offerto la sua collaborazione al progetto, che dovrebbe essere accompagnato da una ricostruzione in 3D del vascello: un altro contributo inglese alle conoscenze archeologiche in quest'area del marsalese dopo gli scavi avviati dalla famiglia Whitaker a Mozia.
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Esposizione della nave punica all'interno del Museo Archeologico Regionale Lilibeo Marsala. Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia |
Della scoperta della nave punica, Honor Frost scrisse il 3 ottobre del 1972 sulla "Domenica del Corriere" un articolo in cui espose alcune considerazioni sull'importanza del ritrovamento:
"Il relitto - si legge nel reportage della Frost, intitolato "Era al primo viaggio la nave cartaginese affondata a Marsala" - è eccezionale per una serie di motivi. Innanzitutto le estremità appuntite della nave sono ben conservate, e questo è già straordinario perché, com'è noto, delle navi affondate si ritrovano di solito soltanto le parti mediane delle chiglie, o le fiancate, mentre tutto il resto, le estremità vive, appunto, va perduto, distrutto dal mare. In secondo luogo, il legno del fasciame è ottimamente conservato, a tal punto che si possono vedere i segni fatti sui pezzi dai costruttori. In terzo luogo, il materiale ritrovato potrà eventualmente consentire di ricostruire l'intera nave. Infine, questa è la prima nave cartaginese che sia oggetto di esplorazione. Perché, vi chiederete, trovare una nave punica dovrebbe essere più eccitante che trovare una nave greca o romana? La risposta va cercata nelle pagine degli storici antichi, come Polibio o Diodoro Siculo. Le guerre puniche furono combattute per la supremazia sui mari. Per costruire l'impero, i romani, che già controllavano tutte le vie di comunicazione terrestri, avevano bisogno di essere anche i padroni dei mari. Ma a quel tempo i mari, senza dubbio, erano dominati dai fenici, o meglio, dai loro successori, i cartaginesi. V'è da dire che la tecnologia dei romani non arrivava alla costruzione delle navi. Così, nel 260 avanti Cristo, per mettere in piedi una flotta di navi da guerra, i romani furono costretti a copiare una nave punica che avevano catturato. Riuscirono così bene che in soli due mesi costruirono ben 120 vascelli. Questa stessa produzione di massa implica una qualche forma di prefabbricazione: ecco perché i segni dei carpentieri sul relitto di Mozia sono così importanti. Studiati meglio dagli specialisti potrebbero risolvere il mistero.
Nella nostra attività abbiamo dovuto risolvere problemi tecnici non indifferenti. E' noto che il legno è un materiale difficile da preservare. La sabbia, facendo da copertura, lo protegge. Ma appena il legno è scoperto e viene in contatto con l'acqua marina, subisce l'azione dell'ossigeno e diventa scuro in pochi giorni. Ancor peggiore è l'effetto dell'aria: portato in superficie, il legno si restringe nel giro di qualche ora; oppure, se lo mettete in una vasca di acqua corrente, è attaccato dalle alghe e da altri organismi. Con tutte queste considerazioni in mente, si può immaginare che la decisione di sollevare i sei metri della poppa della nave punica non è stata presa alla leggera. Siamo stati, in parte, forzati dalle circostanze: la poppa emergeva dalla sabbia, e quindi era già minacciata dall'ossidazione. Inoltre, giaceva in un fondale di appena due metri e mezzo, ed era molto vicina alla spiaggia: abbiamo pensato che difficilmente avrebbe resistito alle tempeste invernali. Devo dire che la decisione di procedere nel recupero del relitto - una decisione per noi davvero storica - è merito del professore Vincenzo Tusa, sovrintendente alle antichità della Sicilia occidentale. Egli ha disposto che che il legname recuperato fosse immediatamente conservato in vasche appositamente costruite: in questi contenitori il materiale resterà almeno per tre anni, il tempo minimo per togliere in sale dal legno. Soltanto successivamente potrà cominciare il trattamento chimico. Allo stesso professor Tusa fa capo un'altra importante decisione: ogni pezzo di legno recuperato dal relitto è stato replicato in calchi di gesso. I risultati finora sono stati eccellenti, grazie all'abilità del professor Salvatore Andò, uno scultore che ha accettato volentieri il singolare compito. In questo modo gli specialisti potranno studiare senza ritardi tutti i reperti: e inoltre sarà assicurata la ricostruzione della nave. E' naturale che tutti coloro che hanno contributo al ritrovamento ed al recupero sognino una degna sistemazione finale dei risultati del loro lavoro. Per quanto mi riguarda, sarei felice se la nave punica che abbiamo ripescato dal mare fosse esposta vicino al luogo in cui il vascello affondò, magari in un museo apposito. Il lettore, a questo punto, sarà probabilmente curioso di conoscere l'esatta consistenza del relitto. Abbiamo trovato le estremità del così detto dritto di poppa, quattro intere ordinate ( le costole, trasversali rispetto alla chiglia, che da prua a poppa costituiscono l'ossatura principale della nave ), alcune tavole di tribordo ( la fiancata destra del bastimento, guardando la poppa ) ancora attaccate dalle ordinate, e numerosi sassi di zavorra ancora al loro posto fra le ordinate.
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Oggetti di bordo della nave punica. Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia |
La nave era inclinata a sinistra, di modo che le estremità opposte, sporgenti, delle ordinate, erano state consumate dall'acqua. Però le parti centrali di queste strutture, a contatto con la chiglia, erano intatte. La chiglia, nella sua parte centrale, era tutta ricoperta di sabbia, e affondava nel terreno per almeno tre metri. Quanto ai sassi di zavorra, fu per la loro presenza che il relitto rimase sul fondo dopo che la nave affondò. Quanto alle tecniche di scavo, abbiamo cercato, per quanto possibile, di non rimuovere la sabbia, proprio per evitare, come ho già spiegato, che il legno venisse in contatto con l'acqua del mare e subisse la temuta ossidazione. Per delimitare la zona delle ricerche mettemmo due blocchi di cemento da mezza tonnellata ai due lati del relitto, a distanza di circa trenta metri, in modo tale che un'ideale linea retta congiungente i due blocchi coincidesse con la linea della chiglia. E' chiaro che prima di rimuovere un qualsiasi pezzo sommerso abbiamo fatto gli opportuni rilevamenti, con misure precise, tutte segnalate in superficie e tutte riportate, in scala, sul progetto degli scavi che avevamo disegnato. Miss Mary Anderson, stava su un battello e provvedeva a trasferire sulla carta tutti i dati che raccoglievamo mediante uno strumento prezioso, dalla forma simile ad un grosso pettine. Per essere più esatti, questo strumento ci è servito per prendere le diverse sezioni del relitto sommerso: e quando i denti del "pettine" non potevano raggiungere certi parti poco accessibili della nave, ci servivamo di una striscia di piombo, come fanno spesso ingegneri ed architetti. Per esempio, spingevamo la striscia di piombo dentro la cavità della chiglia, in modo che il metallo prendesse la forma esatta della cavità: quindi riportavamo i vari profili su un'apposita materia plastica, in superficie. Del resto, non era molto difficile o complicato compiere questa operazione subacquea, perché la larghezza interna della chiglia era appena di sette centimetri. Infine, devo ricordare un altro strumento prezioso, che viene tecnicamente chiamato sorbona: è un tubo-aspiratore, azionato da una pompa ad aria, che praticamente "succhia" il materiale sommerso. Disegnato da Robert Sneath, ingegnere subacqueo della nostra equipe, lo strumento poteva essere manovrato da un piccolo canotto di gomma e senza eccessiva fatica.
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Honor Frost, l'archeologa inglese che riportò alla luce la nave punica |
C'è infine da ricordare un aspetto della nostra ricerca al quale suppongo che il pubblico sia molto sensibile. Che carico aveva la nave punica di Mozia? Premesso che finora abbiamo cercato soltanto a un'estremità della nave, tralasciando la vera e propria stiva, devo dire che abbiamo trovato una quantità di cocci di terracotta e di ceramica proprio dentro la cavità della chiglia. Questi frammenti erano, per l'esattezza, sotto i sassi di zavorra, e mischiati ad essi. I nostri due colleghi archeologi che lavoravano a terra, cioè il dottor Louis Lehmann e il signor Nigel Kerr, hanno anche fatto una classificazione dei diversi tipi di ceramica: erano ben quattordici. Tutti i vasi finora identificati sono del terzo secolo avanti Cristo, e, ad eccezione di uno solo, sono cartaginesi. I reperti più straordinari, tuttavia, non sono questi. Abbiamo infatti trovato foglie, ramoscelli, gusci di noci, sementi: appartenevano a piante fiorite 2300 anni or sono! Non basta: sotto un'asse c'era un rotolo di corda, nuovo, giallo e pulitissimo. Noterete che non ho ancora accennato alle anfore. In realtà ne abbiamo trovate alcune. Una era perfetta, intatta, con il tappo al suo posto. Tutte le altre erano danneggiate, e, cosa sorprendente, tutte diverse fra loro. Secondo me, la nave punica non portava un carico di anfore: come sapete, le anfore erano i contenitori del tempo, per l'olio, il vino, il miele, le granaglie. Il vascello era dunque un cargo? E se non era un cargo, che cosa poteva essere? Forse una nave da guerra, una di quelle navi che affondarono vicino alla costa siciliana durante la prima guerra punica? E' un segreto affascinante che dovremmo riuscire a svelare con ulteriori ricerche sul relitto di Mozia.