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sabato 30 novembre 2019

L'ARTE CASEARIA DEI "MURRITI" A CASTEL DI LUCIO

Statuette di animali
realizzate con formaggio caciocavallo
a Castel di Lucio, nel messinese.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia

"Più studiamo il mondo rurale del passato - ha scritto Giuseppe Licitra in "Storie e paesaggi dell'arte casearia, il Ragusano" ( Federico Motta Editore, 1999 ) - più ne restiamo affascinati, proprio perché riscopriamo, oltre che l'infinità di sacrifici affrontati dai contadini, in silenzio, giorno dopo giorno, l'incredibile competenza tecnica che ha permesso di affrontare problematiche anche più grandi di loro, con assoluta serenità, basandosi sull'esperienza fatta di piccoli gesti maturati in decenni, a volte in secoli di tradizioni"




Fra i molti "piccoli gesti" frutto di una conoscenza maturata nel tempo, alcuni anziani pastori di Castel di Lucio - il paese del messinese disteso  sulle ultime propaggini dei Nebrodi, prima che le montagne prendano il nome di Madonie - tramandano quello che permette loro di modellare e dar forma al formaggio caciocavallo: dalle loro mani, nascono statuine di cavallucci, gallinelle, capre ed altri animali che, a livello locale, prendono il nome di "murriti".




La denominazione di questi oggetti - sino a qualche decennio fa ancora diffusi fra i pastori ed i casari dei Nebrodi, delle Madonie e dei monti Sicani - deriva da "murritiare" ( verbo che può essere interpretato nel senso di ingegnarsi con le mani per risolvere un problema, quindi per creare qualcosa con abilità ).
Descritte negli studi etnografici di Giuseppe Pitré e di Antonino Uccello, le statuine di formaggio fecero la loro comparsa ufficiale sulla scena delle tradizioni popolari regionali nel 1892, in occasione della Mostra Etnografica Siciliana allestita durante l'Esposizione Universale di Palermo.





Modellati con rapidissima manualità, i "murriti" castelluccesi venivano in passato regalati ai bambini: erano i loro preziosi giocattoli, in tempi in cui le famiglie dei pastori e dei casari   non potevano permettersi di acquistare doni per i propri figli.
Fra i più abili modellatori di "murriti" - quasi tutti uomini - figurano, tra pochi altri, i fratelli Soccorso e Giuseppe Iudicello.
I pochi giovani di Castel di Lucio, pressati dall'esigenza di trovare un'occupazione, scelgono intanto la via dell'emigrazione; è dunque facile prevedere che tra qualche anno questi singolari prodotti di arte casearia entreranno a far parte del patrimonio di artigianato popolare tramandato solo dalla memoria.


venerdì 22 novembre 2019

JULIAN BARNES E L'ELOGIO DELL'IGNOTO MARINAIO

"Ritratto di ignoto marinaio",
l'opera di Antonello da Messina
conservata al Museo Mandralisca di Cefalù.
La foto del post è di Ernesto Oliva-ReportageSicilia

"Ho trascorso in Sicilia l'ultima vacanza con mia moglie ( Pat Kavanagh, agente letterario, scomparsa nel 2008, ndr ).
Ricordo quella luce di maggio, i fiori di campo, un raduno di appassionati in sella alle loro vespe e quel piccolo museo con il 'Ritratto d'ignoto marinaio' di Antonello da Messina.
Non ho trovato nulla di simile altrove"

Intervistato a Londra da Dario Pappalardo per "Robinson", ( il bel supplemento de "la Repubblica" ) pubblicato lo scorso 19 novembre, lo scrittore e saggista inglese Julian Barnes ha così espresso la sua ammirazione per il Museo Mandralisca di Cefalù
L'indicazione di Barnes - cultore d'arte e abituale frequentatore dei musei nei tanti Paesi da lui visitati - è un tributo ad una di quelle attrattive siciliane che noi siciliani dimostriamo di non sapere proteggere e valorizzare.
Il sorprendente apprezzamento riservato da Barnes al "Ritratto d'ignoto marinaio" di Antonello da Messina - l'opera più nota fra quelle conservate dal museo cefaludese - è infatti emerso pochi giorni dopo la notizia che la Regione ha ridotto i suoi finanziamenti al Mandralisca, sino a sollevare i timori di una sua possibile chiusura.
Certo, il problema della penuria dei fondi da destinare alla gestione dei beni culturali riguarda molti altri musei ed aree archeologiche dell'Isola; tuttavia, proprio l'opinione di Julian Barnes rilancia vecchi dubbi e nuove recriminazioni sulla gestione delle risorse economiche operata in Sicilia negli ultimi decenni.



Sui tanti milioni di euro - e prima ancora, sui miliardi di lire - impegnati cioè in progetti fallimentari e/o clientelari, estranei a quel tessuto di risorse ambientali, culturali e turistiche che ancor oggi compone la trama identitaria siciliana.
In ultima analisi, ci voleva un'intervista realizzata a Londra per ricordarci quanto ancora nell'Isola rimane di memorabile agli occhi dei non siciliani, e per sperare che i siciliani possano smettere di essere i peggiori nemici delle proprie risorse e di sé.    

sabato 16 novembre 2019

FOLCO QUILICI FRA LE "BALZE SOMMERSE" DELL'ISOLA FERDINANDEA

Disegno dell'isola Ferdinandea
eseguito l'undici agosto del 1831
dal professore Carlo Gemellaro

Non-luogo per eccellenza nella geografia vulcanica della Sicilia, l'isola Ferdinandea - sorta dal mare dinanzi Sciacca tra il 10 e l'11 luglio del 1831 e scomparsa agli inizi di dicembre dello stesso anno - è motivo di attrazione per esperti subacquei.
Dopo una traversata fra la costa saccense e Pantelleria, i suoi resti - spesso al centro di forti correnti - si trovano a circa 7 metri dalla superfice dell'acqua. 
Il fascino di ciò che rimane di un isolotto che per qualche settimana suscitò una contesa territoriale fra governo borbonico ed Inghilterra ha colpito anche l'esploratore del mare, scrittore e documentarista Folco Quilici.
La testimonianza di questo interesse è contenuta nelle pregevoli pagine di "Tutt'attorno la Sicilia. Un'avventura di mare", edito da UTET ( 2017 ), pochi mesi prima la scomparsa dell'autore:



"L'immersione alla Ferdinandea la feci, in un giorno d'estate e di relativa calma, dopo aver conosciuto un sub di nome Stefano, offertosi di guidarmi in quel banco semiaffiorante.
Dopo scrupolosa preparazione dell'attrezzatura, aver atteso una previsione meteo favorevole e firmato un congruo assegno per Stefano, con la motobarca necessaria a condurci, lasciammo il porto di Marettimo, al primo chiarore del giorno, ed entrammo in acqua a sole sorto da poco.



Tra ombre dominanti, aiutati dai fasci di luce delle nostre lampade subacquee, penetrammo nelle fessure tra massi granitici, rifugi di una fauna stanziale presente in quantità e varietà.
Nessun sistema di pesca poteva turbare più di tanto chi viveva in un simile intreccio di asperità e caverne: aragoste apparivano tra le rocce; murene, cernie, corvine non temevano intrusioni, lasciandosi fotografare a un palmo di distanza.
Un cefalo argenteo, gigante per la sua specie, accettò il boccone che offrivo, proveniente dalla cucina del ristorante di Marettimo dove avevo cenato la sera prima.
Il gestore, incartando il cibo di scarto, aveva borbottato:

'L'isola Ferdinandea non è più in superficie.
Ma a qualche decina di metri i suoi abitanti si dimostreranno accoglienti, se lei si affaccerà alle loro tane con i dovuti omaggi'

Nello spazio d'acque dove la Ferdinandea era scomparsa in un mosaico irregolare di ombre e luci, pareti rocciose offrivano riparo da impetuose correnti che costringevano i sub a fatiche da alpinisti in quota, alla ricerca di anfratti per proteggersi dalle raffiche d'una bufera.
Nei giorni lontani dei miei trent'anni e di quella mia immersione, con un riflettore ben stretto nelle mani sfiorai quelle balze sommerse.



Tra i quaranta e i cinquanta metri, raggiunsi una cavità dove mi azzardai ad entrare.
Mi rassicurava la tranquillità della guida al mio fianco che, facendo segni con la mano, mi invitava a seguirlo dove la sua lampada illuminava labirinti popolati di vita come nessun'altra grotta subacquea m'aveva mai offerto, dentici e muggini di dimensioni colossali"


mercoledì 13 novembre 2019

RAGIONAMENTI SULLA POSSIBILE FORMA DI TRAPANI

La scala elicoidale della torre
del complesso religioso della chiesa di San Domenico.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia

Fra tutte le grandi città della Sicilia, Trapani è l'unica ad  essere descritta con una precisa forma, identificata già in tempi remoti dalla morfologia del suo territorio: quella della falce lucente che Cerere avrebbe perso in mare, durante le ricerche della figlia Proserpina.
Il racconto di quell'episodio ha influenzato generazioni di viaggiatori e geografi, al punto che qualsiasi moderna guida turistica, nella sommaria descrizione della città, non sfugge al millenario riferimento mitologico.
Nel suo recente "Gomito di Sicilia" ( Editori Laterza, 2019 ) il giornalista Giacomo Di Girolamo prova invece a descrivere Trapani in maniera diversa, nel tentativo anche di superare altri luoghi comuni che accompagnano la narrazione delle sue vicende.
Alla fine dell'analisi, Di Girolamo propone tre riferimenti per definirne la forma; un'ala spiegata sul mare, un apostrofo o - l'ultimo paragone possibile - una lente concava: uno specchio di inganni cioè che impedisce di identificare con chiarezza un qualsiasi luogo condizionato dal comportamento degli esseri umani.
Oltre alle possibili forme cittadine elencate dal giornalista, si potrebbe tuttavia considerare la variabile rappresentata dalla presenza di una elicoide: la scala in pietra arenaria della torre campanaria del complesso della chiesa San Domenico, nel poggio più alto del centro storico. 
Qui, le maestranze locali del passato hanno creato un'opera la cui forma potrebbe a sua volta rappresentare la natura di un'identità cittadina che sembra avvitarsi su sé stessa, alimentando i dubbi di chi voglia capire la natura più nascosta della città.
Alla fine dell'elicoide, comunque, la vetta della torre mostra Trapani in tutta la sua chiara luminosità: quella stessa che spinse un poeta arabo a descriverla - altra immagine trapanese - come una "città bianchissima come una colomba".  
       
"Impastata di vento, di acqua e di sale - ha scritto Di Girolamo - si dice che Trapani abbia forma di falce.
L'ho sempre considerato un accostamento inopportuno.
Le città hanno una forma che chi vive dà loro.
E poi questo accostamento con la falce ha in sé un'idea luttuosa.
Trapani città falcata, come la Nera Signora, dove tutto è oscuro, misterioso, funebre.
A me, vista dall'alto, Trapani sembra bella e lunga come un'ala spiegata.
Se proprio una forma dobbiamo darle, Trapani ha forma di apostrofo.
E in effetti, tutto sembra essere clamoroso a Trapani, è una città che fornisce sempre nuove narrazioni, iperboli.
Sì, Trapani ha forma di apostrofo.
Ed è anche la sua condanna.
Perché succede anche questo, che ogni narrazione, per il gusto di dover apostrofare, si gonfia, ridonda.
Un funzionario che prende una mazzetta ad Aosta è un pubblico impiegato infedele.
Se lo fa a Trapani, è invece un grande corrotto, al centro di logge segrete, vicino a qualche famiglia mafiosa, segno di una città corrotta e nera.



Ci vorrebbe una sana ribellione, innanzitutto, contro questo racconto che si fa di Trapani, come di una Sicilia irredimibile.
Che non significa sminuire i fatti, la loro gravità.
Significa evitare lenti deformi, con le quali si alterano le cose, con toni da fine del mondo che servono solo a chi, predicando la fine del mondo per ogni cosa che accade in questa parte della Sicilia, ha solo da guadagnarci.
Trapani non ha forma di apostrofo, allora, ma di lente concava, filtro deforme delle cose della vita"   

domenica 10 novembre 2019

TRADIZIONE ED ATTUALITA' DELLA CULTURA DELL'OLIO IN SICILIA

Raccolta di olive di varietà "biancolilla"
a Lucca Sicula, nell'agrigentino.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia

Punto di riferimento indiscutibile per l'agricoltura dell'Isola, la raccolta delle olive racconta ogni anno una storia millenaria di conoscenze tecniche, saperi e tradizioni.
In alcuni luoghi della Sicilia - ad esempio, a Lucca Sicula, nell'agrigentino -  il ciclo produttivo dell'olio coinvolge ancora l'intera comunità, diventando un rito collettivo che dispensa ruoli e qualifiche indicate con termini di secolare utilizzo: "chiurma"  ( l'insieme dei lavoratori ) "carramaturi" o "cutulaturi" ( abbacchiatore ), "cugghiuturi" ( raccoglitore ), "trappitara" ( chi lavora nel trappeto ).
Specie fra gli anziani, rimane memoria della definizione di oggetti di lavoro che le innovazioni tecnologiche hanno ormai eliminato dai frantoi: il "busunettu", la "scorcia" e lo "scrozzu" ( gli strumenti di latta con i quali si prendeva l'olio dalle tinozze ), la "chinchinara" ( il recipiente di legno usato per conservare i diversi utensili ) o la "scanatura" ( la sgramolatrice ).




Alla tradizione della molitura delle olive appartengono inoltre altre definizioni con un lontano passato: "prima pasta" ( prima macina ), "Re di pasta" ( "seconda macina" ), "Re di nozzulo" ( "terza ed ultima" ), "la chianchera" ( la sansa contenuta nella gabbia ), "l'ogghiu di lu purgatoriu" ( l'olio che rimane nella tinozza mescolato con acqua ).
Un'efficace sintesi della coltura olivicola in Sicilia - un tema che potrà interessare quanti hanno a cuore un consumo di olio acquistato direttamente da un produttore, lontano dalle incognite di un supermercato - è stata così fornita nel 1960 dal geografo Ferdinando Milone, in "Sicilia, la natura e l'uomo" ( Paolo Boringhieri ):
    
"L'olivo in Sicilia è anche più antico della vite.
Sembra che vi sia pervenuto dalle isole dell'Egeo, che sono il suo centro mediterraneo di dispersione, sin dai primi contatti con quel mondo, non troppo lontano neppure quando i battelli erano poco più di un guscio di noce.
Sarebbe stato introdotto, secondo gli archeologi, ancor prima dell'arrivo dei colini greci, i quali, tuttavia, ne avrebbero diffuso la pianta.


Secondo Diodoro Siculo, olio sarebbe stato esportato dall'Isola, ai tempi suoi; e Tucidide, assai prima di lui, ci descrive gli oliveti chiusi da muretti a secco.
L'olivo doveva essere, nell'antichità, uno dei principali elementi del paesaggio siciliano.
Del resto, è così ancor oggi; e caratteristiche sono le frequenti piante secolari dalle verdi chiome sopra colossali tronchi contorti.
La gente del luogo dice saraceni i vecchi olivi secolari, per dirli fuori del nostro tempo e della nostra civiltà, così come, - lo notava il caro Biagio Pace - nei paesi musulmani tutto quello che è antico, dal rudere alla palma in abbandono, è detto, al contrario, dei Rumi, e cioè dei Romani.
Secondo l'Amari, la coltivazione dell'olivo, decaduta, non era neppure rifiorita sotto gli arabi, anche se l'Isola già allora doveva essere, forse, il principale centro di produzione del Mezzogiorno.
Augusto Lizier, più di mezzo secolo fa, affermava che prima del Mille l'olivo doveva essere assai meno diffuso della vite, perché i documenti ne facevano poca menzione, e solo verso la metà di quel secolo il ricordo si fa più frequente.
Del pari, mentre spesso veniva nominato il palmentum per il vino, assai più di rado ricorre il nome del trappetum.
Ne deduce giustamente che la coltura dell'olio dovesse essere molto più scarsa; e lo spiega con l'abbondanza dei maiali o delle greggi che non facevano sentire il bisogno dei grassi vegetali, ma anche con la necessità del lungo anticipo del capitale e del lavoro per il suo impianto..."




Insieme alla sua storia millenaria, i detti di saggezza popolare raccolti nel 1889 da Giuseppe Pitrè ribadiscono l'importanza ( e l'attualità ) dei saperi agricoli ed il ruolo dell'olio nei momenti di festa e di dolore riservati dalla vita e dalla morte:    

"Runca e cuteddu, fannu l'arvulu bellu", "roncola e coltello, fanno l'albero bello"; "cu và a l'olivi travagghia di cori, lu cori e l'arma nni senti piaciri!", "chi va fra gli ulivi, lavora con il cuore, e il cuore e l'anima provano piacere!"; "nun mettiri mazza, ca t'ammazza", "non lavorare con violenza, che ti va contro"; "l'oliva ch'è cugghiuta cu la mazza, ogghiu di mal sapuri porta 'nchiazza", "l'oliva che è raccolta in maniera violenta, olio di cattivo sapore porta al mercato"; "l'oliva, quantu cchiù penni, tantu cchiù renni", "l'oliva, quanto più pende dall'albero tanto più rende"; "tri sunnu li nimici di l'oliva, lu sirracculu, vermi e cattuneddu", "tre sono i nemici dell'oliva, il segaccio, i vermi e la cocciniglia"; "annata d'olivi, si mangia e si bivi", "buona annata di olive, si mangia e si beve"; "mortu e vivu, adduma l'olivu", "alla morte ed alla nascita, accendi l'olio santo".

   

martedì 5 novembre 2019

L'ESTENUANTE PESCA DELLE SPUGNE DEI MARINAI DI MAZARA DEL VALLO

Il porto canale di Mazara del Vallo.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia

Docente universitario, storico, critico letterario, storico ed intellettuale libero dagli schemi ideologici, Virgilio Titone - nato a Castelvetrano nel 1905, dove morì nel 1989 - nel 1971 pubblicò una raccolta di dieci racconti, intitolata "Storie della vecchia Sicilia"
Titone vi narrò personaggi e vicende legate alla sua formazione giovanile con un riferimento letterario che Indro Montanelli indicò in Giovanni Verga.
In uno di questi racconti - "La pensione" -  Titone rievocò il periodo dei suoi studi ginnasiali a Mazara del Vallo, a partire dal 1920.
La scuola si trovava nell'ex Collegio dei Gesuiti, "un grande e severo edificio che occupava quasi tutto un lato della piazza Mokarta, una delle più belle, ma anche, per i vecchi abbandonati edifici che d'ogni lato la circondano e il colore delle loro pietre, delle più malinconiche piazze che mi sia accaduto di vedere", ricorderà l'ex alunno.
Tra le pagine di questo racconto, Virgilio Titone annotò l'allora diffusa pratica della pesca delle spugne, oggi quasi del tutto scomparsa a Mazara del Vallo:

"Era venuta l'estate, un'estate afosa e pesante.
Nei vicoli deserti l'aria stagnava come un'acqua torpida.
La gente usciva solo la sera, quando si cominciava a poter respirare.
Ma centinaia di pescatori, compresi i vecchi e i bambini, lavoravano sulla banchina del Mazaro per allestire le barche che dovevano partire per la pesca delle spugne.


Questa pesca, che ora si fa solo da due o tre barche di marinai di Lampedusa, era una delle maggiori risorse del paese e lo era ancor di più per la marina trapanese.
Le barche dovevano partire in quei giorni per i banchi di Sfax e sarebbero ritornate dopo due mesi.
Durante tutto quel tempo non entravano in porto, se non quando dovevano rifornirsi di acqua.
Rimanevano ancorate sul posto che si assegnava a ciascuna, ed era tutti gli anni lo stesso.
Là, di giorno e di notte, i pescatori, immersi nell'acqua fino alla cintola, strappavano le spugne dalle rocce che affioravano dal mare.
Era un lavoro estenuante e per il quale occorreva anche un capitale non indifferenze.
Bisognava fornire ogni barca - a questo provvedeva naturalmente l'armatore - non solo di tutto l'occorrente per la pesca, ma anche dei viveri e di quant'altro poteva rendersi necessario per coloro che vi erano imbarcati..."

sabato 2 novembre 2019

I SICILIANI E IL COLPEVOLE CINISMO DELLA RINUNCIA

Quartiere della Kalsa, a Palermo.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia

"Un essenziale problema siciliano - ha perfettamente colto nel  cuore del problema Corrado Stajano, in "Patrie smarrite, racconto di un italiano" ( Garzanti, 2003 ) - è la carenza di cultura di uno Stato di diritto moderno, per ragioni storiche, ma anche per la presenza di un cinismo diffuso, non il cinismo esibito da Piero Gobetti, 'il cinismo come difesa contro il sentimentalismo che ripugnava al suo ideale virile', un cinismo, invece, che nasce dalla rinuncia.
Il paese è quel che è; il mondo è quel che è; non è possibile migliorarlo.
Che è poi la più elementare distinzione tra progresso e conservazione.
Ma quel che dovrebbe essere conservato viene impudentemente distrutto - l'ambiente, la natura, le città - ; e viene perpetuato, in altri modi rispetto al passato, il vivere sempiterno e nutrita l'ira sorda contro chi, considerato nemico, cerca di rompere il rito del non fare e battaglia, solitario donchisciotte sovversivo, per cambiare in meglio la vita propria e l'altrui"