ReportageSicilia è uno spazio aperto di pensieri sulla Sicilia, ma è soprattutto una raccolta di immagini fotografiche del suo passato e del suo presente. Da millenni, l'Isola viene raccontata da viaggiatori, scrittori, saggisti e cronisti, all'inesauribile ricerca delle sue contrastanti anime. All'impossibile fine di questo racconto, come ha scritto Guido Piovene, "si vorrebbe essere venuti quaggiù per vedere solo una delle più belle terre del mondo"
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domenica 28 agosto 2016
SICILIANDO
"La Sicilia
è una statua
incompiuta
che dio
ha lasciato
in mezzo al mare
incrostata
d'alghe
e stelle marine
nessuno sa
che ha cuore
e vene"
Emilio Paolo Taormina
LA SCONFITTA DEL POLPO SULLE "BALATE" DI PIAZZA CARACCIOLO
Un "poliparo" palermitano della Vucciria. La fotografia del post è di ReportageSicilia |
Adesso che anche l'umile cibo da strada è diventato oggetto di business commerciale ( con la ruffiana denominazione di "street food" ) anche il popolare polpo è diventato ( per continuare con l'inglese ) un "must" del consumo alimentare dei turisti in visita a Palermo.
Per i palermitani, invece - specie quelli più legati alle tradizioni gastronomiche di genitori e nonni - il polpo continua ad essere un saltuario sfizio del palato, da gustare magari con qualche goccia di limone.
Dispensatori di questa specialità marinara continuano ad essere i "polipari"; quasi tutte le borgate costiere ne hanno almeno uno, e ciascuno con il suo segreto per la perfetta cottura del polpo.
Famosi sono quelli di Mondello - gestori di locali arredati con mattonelle e piatti in coloratissima ceramica - e quelli meno pretenziosi di Sant'Erasmo e dei quartieri di Ballarò e della Vucciria.
Qui, il polpo esibisce la fine della propria esistenza su un piatto bianco, sotto gli occhi dei passanti e dei turisti cui il "poliparo" - sornione e beffardo all'obiettivo di ReportageSicilia - intende destinare gli otto tentacoli.
Lui, che ha fatto del mimetismo e dell'astuzia le doti per sfuggire alla cattura di cernie, dentici e murene, lui che ha usato le pietre piatte per chiudere il varco della propria tana e le conchiglie ed i sassi bianchi per attirare le sue prede, adesso giace sconfitto tra le "balate" di piazza Caracciolo.
Né, alla fine, gli varrebbe a consolazione il fatto di sapere di avere allietato il palato del turista tedesco Karl o dell'inglese John, vittima dei richiami globalizzati dello "street food" palermitano.
Famosi sono quelli di Mondello - gestori di locali arredati con mattonelle e piatti in coloratissima ceramica - e quelli meno pretenziosi di Sant'Erasmo e dei quartieri di Ballarò e della Vucciria.
Qui, il polpo esibisce la fine della propria esistenza su un piatto bianco, sotto gli occhi dei passanti e dei turisti cui il "poliparo" - sornione e beffardo all'obiettivo di ReportageSicilia - intende destinare gli otto tentacoli.
Lui, che ha fatto del mimetismo e dell'astuzia le doti per sfuggire alla cattura di cernie, dentici e murene, lui che ha usato le pietre piatte per chiudere il varco della propria tana e le conchiglie ed i sassi bianchi per attirare le sue prede, adesso giace sconfitto tra le "balate" di piazza Caracciolo.
Né, alla fine, gli varrebbe a consolazione il fatto di sapere di avere allietato il palato del turista tedesco Karl o dell'inglese John, vittima dei richiami globalizzati dello "street food" palermitano.
venerdì 26 agosto 2016
PARTENZA E RITORNO DEGLI IMMIGRATI SICILIANI DALL'AFRICA
Due fotografie pubblicate nel 1946 da "L'Europeo" ed ambientate a Polizzi Generosa ricordano le vicende dell'emigrazione di migliaia di isolani in Cirenaica e Tunisia
Nei confusi mesi del secondo dopoguerra, la Sicilia - primo suolo europeo di sbarco per gli anglo-americani - visse un lungo periodo di fermenti sociali: mercato nero, rivolte popolari, episodi di banditismo, velleità indipendentistiche e ritorno a casa di migliaia di sfollati.
Nei confusi mesi del secondo dopoguerra, la Sicilia - primo suolo europeo di sbarco per gli anglo-americani - visse un lungo periodo di fermenti sociali: mercato nero, rivolte popolari, episodi di banditismo, velleità indipendentistiche e ritorno a casa di migliaia di sfollati.
Nell'isola tornò anche un numero imprecisato di emigrati che durante il periodo fascista avevano preso parte alla colonizzazione libica o che si erano stabiliti in Tunisia.
Una piccola memoria di quel rivolo di migrazione di siciliani nel mondo è legata alle due fotografie riproposte da ReportageSicilia.
Le immagini - firmate da Giacomo Pozzo Bellini ed ambientate a Polizzi Generosa - vennero pubblicate il 13 ottobre del 1946 dal settimanale "L'Europeo".
Le didascalie indicano nell'uomo un "rimpatriato dal Gebel cirenaico, dove era andato nel 1936".
Della donna si fornisce il Paese di immigrazione - la Tunisia - e anche il nome: Rosa Brancati.
In Libia, la presenza dei siciliani si data a partire dal 1933; quell'anno, l'Ente di Colonizzazione per la Cirenaica iniziò a promuovervi l'afflusso di contadini, braccianti ed operai dalle regioni del Sud d'Italia.
Luigi Razza, presidente dell'Ente, così invogliava quell'anno i siciliani a lasciare l'isola per raggiungere quella che veniva descritta come una "terra promessa":
"Se invece degli arabi avessero vissuto in Cirenaica i siciliani, oggi quella colonia sarebbe veramente il favoleggiato giardino delle Esperidi.
La Cirenaica ha caratteristiche spiccatamente mediterranee, paragonabili a quelle della Sicilia.
Il Gebel non è per niente inferiore alle zone più fertili dell'Italia meridionale e di qualche regione dell'Italia centrale"
L'altopiano libico del Gebel fu il territorio in cui gli immigrati siciliani - insieme ai pugliesi, ai calabresi e agli abruzzesi - presero il posto delle popolazioni nomadi: decine di migliaia di pastori e contadini che anni prima avevano subìto le deportazioni di massa ad opera dell'esercito italiano.
Nell'opera "Storia coloniale dell'Italia contemporanea" edita da Ulrico Hoepli nel 1938, Raffaele Ciasca così descriveva le condizioni economiche di quel territorio:
"Le maggiori attività agricole si sono raggruppate, fin dall'inizio, sul Gebel centrale, sia per migliori attitudini agrologiche e idrologiche, sia per concentrare in un'unica zona l'insieme dell'organizzazione e dei servizi.
Con la coltura del grano, dell'ulivo, dell'orzo e del miglio, le quattro colture basilari della Cirenaica, è curato l'allevamento del bestiame: un milione di capi ovini e 100.000 di caprini, con lana disponibile all'esportazione superiore a 6.500 quintali; 20-25.000 i capi esportati verso l'Egitto e quintali 1000-1200 di burro di pecora, destinati a Candia, Costantinopoli, Asia minore; 10-15.000 i capi bovini e 40.000 i cammelli impiegati come mezzo di trasporto e come forza motrice nei lavori agricoli"
Secondo le notizie invece fornite nel 1934 dal giornalista catanese Concetto Pettinato, in quel periodo la Tunisia ospitava almeno 50.000 siciliani, gran parte dei quali residenti a La Goulette, nel quartiere "La Petite Sicile".
Pettinato ricordò allora alcuni cognomi di famiglie siciliane residenti nel circondario di Tunisi: Ajello, Mancuso, Auteri, Zappulla, Miccichè.
L'emigrazione verso il territorio tunisino era iniziata già nella seconda metà dell'Ottocento; soprattutto quella di pescatori e braccianti trapanesi, che proprio a La Goulette costruirono una chiesa in onore della Madonna di Trapani.
Le questioni politiche, più di quelle religiose - la convivenza fra musulmani e cristiani in quegli anni era assolutamente pacifica - furono la causa dei ritorni degli immigrati siciliani nell'isola: nel 1911, a causa delle gravi tensioni provocate dallo sbarco dell'esercito italiano in Tripolitania, e nel 1940, con l'appoggio fascista alla Germania in occasione dell'invasione della Francia.
Proprio l'alleanza italo-tedesca già nel 1939 aveva cominciato ad affollare i porti di siciliani che in Tunisia - protettorato francese - non trovano più le simpatie locali: in 605 sbarcarono nel marzo di quell'anno a Palermo, accolti dalla retorica serie di festeggiamenti del regime.
Una piccola memoria di quel rivolo di migrazione di siciliani nel mondo è legata alle due fotografie riproposte da ReportageSicilia.
Le immagini - firmate da Giacomo Pozzo Bellini ed ambientate a Polizzi Generosa - vennero pubblicate il 13 ottobre del 1946 dal settimanale "L'Europeo".
Le didascalie indicano nell'uomo un "rimpatriato dal Gebel cirenaico, dove era andato nel 1936".
Della donna si fornisce il Paese di immigrazione - la Tunisia - e anche il nome: Rosa Brancati.
In Libia, la presenza dei siciliani si data a partire dal 1933; quell'anno, l'Ente di Colonizzazione per la Cirenaica iniziò a promuovervi l'afflusso di contadini, braccianti ed operai dalle regioni del Sud d'Italia.
Un uomo di Polizzi Generosa rimpatriato dal Gebel, in Cirenaica |
Luigi Razza, presidente dell'Ente, così invogliava quell'anno i siciliani a lasciare l'isola per raggiungere quella che veniva descritta come una "terra promessa":
"Se invece degli arabi avessero vissuto in Cirenaica i siciliani, oggi quella colonia sarebbe veramente il favoleggiato giardino delle Esperidi.
La Cirenaica ha caratteristiche spiccatamente mediterranee, paragonabili a quelle della Sicilia.
Il Gebel non è per niente inferiore alle zone più fertili dell'Italia meridionale e di qualche regione dell'Italia centrale"
L'altopiano libico del Gebel fu il territorio in cui gli immigrati siciliani - insieme ai pugliesi, ai calabresi e agli abruzzesi - presero il posto delle popolazioni nomadi: decine di migliaia di pastori e contadini che anni prima avevano subìto le deportazioni di massa ad opera dell'esercito italiano.
Nell'opera "Storia coloniale dell'Italia contemporanea" edita da Ulrico Hoepli nel 1938, Raffaele Ciasca così descriveva le condizioni economiche di quel territorio:
"Le maggiori attività agricole si sono raggruppate, fin dall'inizio, sul Gebel centrale, sia per migliori attitudini agrologiche e idrologiche, sia per concentrare in un'unica zona l'insieme dell'organizzazione e dei servizi.
Con la coltura del grano, dell'ulivo, dell'orzo e del miglio, le quattro colture basilari della Cirenaica, è curato l'allevamento del bestiame: un milione di capi ovini e 100.000 di caprini, con lana disponibile all'esportazione superiore a 6.500 quintali; 20-25.000 i capi esportati verso l'Egitto e quintali 1000-1200 di burro di pecora, destinati a Candia, Costantinopoli, Asia minore; 10-15.000 i capi bovini e 40.000 i cammelli impiegati come mezzo di trasporto e come forza motrice nei lavori agricoli"
Secondo le notizie invece fornite nel 1934 dal giornalista catanese Concetto Pettinato, in quel periodo la Tunisia ospitava almeno 50.000 siciliani, gran parte dei quali residenti a La Goulette, nel quartiere "La Petite Sicile".
Pettinato ricordò allora alcuni cognomi di famiglie siciliane residenti nel circondario di Tunisi: Ajello, Mancuso, Auteri, Zappulla, Miccichè.
L'emigrazione verso il territorio tunisino era iniziata già nella seconda metà dell'Ottocento; soprattutto quella di pescatori e braccianti trapanesi, che proprio a La Goulette costruirono una chiesa in onore della Madonna di Trapani.
Le questioni politiche, più di quelle religiose - la convivenza fra musulmani e cristiani in quegli anni era assolutamente pacifica - furono la causa dei ritorni degli immigrati siciliani nell'isola: nel 1911, a causa delle gravi tensioni provocate dallo sbarco dell'esercito italiano in Tripolitania, e nel 1940, con l'appoggio fascista alla Germania in occasione dell'invasione della Francia.
Proprio l'alleanza italo-tedesca già nel 1939 aveva cominciato ad affollare i porti di siciliani che in Tunisia - protettorato francese - non trovano più le simpatie locali: in 605 sbarcarono nel marzo di quell'anno a Palermo, accolti dalla retorica serie di festeggiamenti del regime.
Le fotografie de "L'Europeo" raccontano dunque il ritorno dei migranti siciliani dall'Africa al termine del secondo conflitto mondiale.
Vicende dimenticate, ma che dinanzi alle odierne immagini degli esodi dall'Africa verso le coste della Sicilia uniscono in un unico destino le sofferenze di chi abbandona la terra d'origine nel tentativo di migliorare la propria esistenza.
Vicende dimenticate, ma che dinanzi alle odierne immagini degli esodi dall'Africa verso le coste della Sicilia uniscono in un unico destino le sofferenze di chi abbandona la terra d'origine nel tentativo di migliorare la propria esistenza.
domenica 21 agosto 2016
martedì 16 agosto 2016
VENDITORI DI COZZE NELLE MITICHE ACQUE DI GANZIRRI
Ciò che non mancano, in molti luoghi della Sicilia, sono i riferimenti alla mitologia.
Così, ad esempio, nel vertice della provincia di Messina che si bagna sullo Stretto ( luogo mitico per eccellenza del Mediterraneo )capo Peloro ricorda il nome del pilota di Annibale ucciso dal condottiero cartaginese, allorché con la flotta proveniente dallo Jonio imboccò il mare fra Sicilia e Calabria; la sua morte fu la punizione per la falsa idea che la lingua di terra che fa capo al Faro sbarrasse il fatidico passaggio verso il Tirreno.
Nel lago di Ganzirri, invece, aleggia la leggenda di Risa: città di splendori dalle cui rovine sommerse nelle notti di luna piena sorge la Fata Morgana.
Nei secoli passati, i pescatori che si immergevano nell'acqua spiegavano di potere toccare le mura di Risa; quando ciò accadeva, dal fondale si levava un suono di campane lontane.
Liberata dalle leggende, la storia dei due pantani di Ganzirri - alimentati da acque freatiche mescolate con quelle marine ed il cui sfruttamento venne concesso da Ferdinando IV di Borbone - è invece legata all'allevamento di anguille e murene, nonché alla coltivazione di molluschi eduli: arselle, vongole, cozze, tartufi di mare e, un tempo, anche ostriche.
Negli ultimi cento anni, l'inquinamento dei pantani ha notevolmente ridotto queste attività, che ancora nel 1940 garantivano 3.000 quintali annui di prodotti.
Nel 1986, vi fu addirittura una rivolta degli allevatori contro le squadre inviate dal Comune di Messina per smantellare gli impianti a causa dei limiti fuori legge dell'inquinamento.
Nelle passate settimane, dopo trent'anni di divieti, le antiche acque della mitica città di Risa sono tornate a ospitare gli allevamenti di vongole; gli anziani messinesi però ricordano il passato in cui Ganzirri offriva la sua ricca varietà di molluschi.
A due venditori di cozze si riferisce la fotografia riproposta da ReportageSicilia e databile alla metà degli anni Sessanta.
L'immagine di M. Bernard Aury venne pubblicata nel saggio di Pierre Sébilleau "La Sicile", edita nel 1966 a Grenoble da Editions Athaud.
sabato 13 agosto 2016
ROCCA BUSAMBRA, LUCE DEL MONDO DI GIACOMO GIARDINA
Uno sguardo alla natura ed alla poesia di una delle più sorprendenti aree di pregio ambientale della provincia di Palermo
Con la sua imponente massa calcarea ed il suo verdissimo ed impenetrabile bosco della Ficuzza ( ricco di lecci, roverelle, castagni e sugheri ) la Rocca Busambra offre uno degli angoli più sorprendenti della Sicilia.
Una veduta delle pendici di Rocca Busambra nella zona di Valle Agnese. Le fotografie del post sono di ReportageSicilia |
Con la sua imponente massa calcarea ed il suo verdissimo ed impenetrabile bosco della Ficuzza ( ricco di lecci, roverelle, castagni e sugheri ) la Rocca Busambra offre uno degli angoli più sorprendenti della Sicilia.
Il paesaggio infatti domina completamente la scena, affermando la forza della natura rispetto all'intervento devastatorio dell'uomo, che pure in passato ha prodotto disboscamenti, bracconaggio ed incendi.
La realtà odierna di Rocca Busambra non è così troppo diversa da come venne descritta nel 1975 dall'opera "Monti d'Italia, Sicilia e Sardegna", edita dall'ENI con il coordinamento di Errico Ascione e Italo Insolera:
"L'aspetto più caratteristico e interessante della Rocca Busambra è certo quello che riguarda i vari ambienti naturali che si sovrappongono, emergendo dal grigio e monotono paesaggio pliocenico che la circonda, per lo più tenuto a pascolo o coltivato a cereali.
Dal tessuto compatto dei coltivi spicca più in basso la massa verde scura del bosco della Ficuzza che contorna le pendici della rocca, giungendo a colonizzare i conoidi di detriti che ne rendono meno ripido l'attacco alla terra.
Dal basamento verdeggiante si innalza la parete rocciosa che guarda verso Palermo, incisa da canaloni e crepacci.
La rocca domina per chilometri la piana e la caratterizza col suo profilo inconfondibile.
In alto i pascoli, coperti a tratti da bassi pulvini di ginepro, affacciandosi da una parte sul versante più impervio, scendono dall'altra in pendio meno aspro verso Corleone.
Ognuno dei tre ambienti ha i suoi fiori, le sue piante, la sua fauna; è difficile che gli esponenti di uno di essi vengano ospitati in un altro.
Così la coturnice domina i pascoli d'altitudine, il colombaccio non lascia il bosco, la taccola non abbandona volentieri l'ambiente delle pareti rocciose.
Tre mondi a sé stanti che rappresentano in esiguo spazio gli ambienti più classici della Sicilia: il bosco, le rocce, il pascolo"
La realtà odierna di Rocca Busambra non è così troppo diversa da come venne descritta nel 1975 dall'opera "Monti d'Italia, Sicilia e Sardegna", edita dall'ENI con il coordinamento di Errico Ascione e Italo Insolera:
"L'aspetto più caratteristico e interessante della Rocca Busambra è certo quello che riguarda i vari ambienti naturali che si sovrappongono, emergendo dal grigio e monotono paesaggio pliocenico che la circonda, per lo più tenuto a pascolo o coltivato a cereali.
Dal tessuto compatto dei coltivi spicca più in basso la massa verde scura del bosco della Ficuzza che contorna le pendici della rocca, giungendo a colonizzare i conoidi di detriti che ne rendono meno ripido l'attacco alla terra.
Dal basamento verdeggiante si innalza la parete rocciosa che guarda verso Palermo, incisa da canaloni e crepacci.
La rocca domina per chilometri la piana e la caratterizza col suo profilo inconfondibile.
In alto i pascoli, coperti a tratti da bassi pulvini di ginepro, affacciandosi da una parte sul versante più impervio, scendono dall'altra in pendio meno aspro verso Corleone.
Ognuno dei tre ambienti ha i suoi fiori, le sue piante, la sua fauna; è difficile che gli esponenti di uno di essi vengano ospitati in un altro.
Così la coturnice domina i pascoli d'altitudine, il colombaccio non lascia il bosco, la taccola non abbandona volentieri l'ambiente delle pareti rocciose.
Tre mondi a sé stanti che rappresentano in esiguo spazio gli ambienti più classici della Sicilia: il bosco, le rocce, il pascolo"
Il merito di questa ricchezza ambientale si deve principalmente alla tutela imposta agli inizi del secolo XIX da Ferdinando IV, "scavezzacollo di casa Borbone - si legge in una recente guida del Patto territoriale per l'Occupazione "Alto Belice Corleonese" - molto più interessato alla caccia che ai problemi del Regno delle Due Sicilie".
Grazie a questo re "scavezzacollo", dimorante nella casina di caccia che sorge nel borgo di Ficuzza, in quest'area della provincia di Palermo vissero lupi, caprioli, cervi e daini.
Abitazione a Godrano, ai margini della Rocca Busambra |
Tale natura generatrice di flora e fauna - che oggi richiama in quest'angolo di Sicilia gruppi di sciamani - non poteva che essere nel 1903 il luogo di nascita di Giacomo Giardina, il "poeta pecoraio" di Godrano quasi analfabeta assurto nel 1931 per giudizio di Filippo Tommaso Marinetti al ruolo di "poeta record meridionale".
Due anni prima, Giardina aveva così descritto Rocca Busambra, paragonandola ad una "grandiosa tavolozza del mondo":
Il poeta Giacomo Giardina. La fotografia è tratta dall'opera "Dante ambulante al mio paese", edita nel 1982 da Ila Palma |
"Si erge alta e solenne
la montagna della mia poesia
che al centro s'apre liricamente
come enorme ventaglio rameggiato di cerri scuri.
La foresta allarga la sua impetuosa orchestra
discendendo verso la valle
ora chiara ora scura.
Vegetano con furia l'asfodelo e la cicuta,
bacche rosse, ginepri spinosi duri,
edera felce biancospino e sambuchi rampicanti...
Scuote urla cammina come la tempesta,
come verde mare di foglie
che veniva ad agitare e allargare d'amore
la vela romantica e sperduta del mio cuore.
Rocca Busambra, quante lunghe
notti riposai al tuo piede granitico,
quante notti mirai la tua meravigliosa veste incantata
fasciata di scintillamenti, incipriata di luna
e carezzata d'echi dolci profondi.
Ritorno: senza mirarti
e valutarti come allora, non posso vivere;
qui occorre sognare, osservare, scrivere!
L'ovile circolare
il pagliaio a cono, sotto l'ombre rettangolari,
costruiti dalle mie mani,
esistono ancora...
Legnaioli curvi sotto agitate compane di luci,
pastori erranti
zufolanti per l'aria sgombra profumata buona
seguono ancora le usanze dei nostri avi;
ma i soavi liberi anni della mia
adolescenza vagolanti in questa natura di pietra?
Le raccoglitrici di ghiande
e le pecore filatrici
che sfilavano sotto il ponte delle mie gambe?
Dove sono ora, o montagna maga
che sempre ispiri e fai sognare?
Colate
argentate d'acqua pura
bagnano l'aride mie labbra
che si liquefanno nel torrente;
voli voli canori e vorticosi giri
prismaticamente geometrizzano l'occhio magico in libertà:
santa povertà degli anni primi,
o dolce antico focolare,
soltanto queste semplici e grandi cose sento di amare!
Sì: lontano da te non riesco a vivere,
e m'aggrappo ai pennelli degli alberi,
o Rocca Busambra, ora viola e ambra,
ora verde rossa azzurra nera rosa
grandiosa tavolozza del mondo
dove il rotondo sole
pittore
mercoledì 10 agosto 2016
L'ILLUSORIA STAGIONE "BEATNICK" DI CALTANISSETTA
Sprazzi di cultura beat nissena in un reportage realizzato nel 1966 da Giuseppe Fava e pubblicato nel saggio "Processo alla Sicilia"
Spiega Wikipedia che il termine "beatnick" fu coniato nel 1958 dal giornalista americano Herb Caen per indicare i figli della "Beat Generation", nell'epoca del lancio del satellite sovietico "Sputnik": la parola insomma sottolineava le idee sovversive e comuniste degli eroi di Jack Kerouac, capaci di battere senza regole fisse le strade di tutto il mondo.
Otto anni dopo quella definizione, Giuseppe Fava raccontò in un reportage pubblicato dal quotidiano "La Sicilia" un incontro a Caltanissetta con un gruppo di "beatnicks" locali, evento avvenuto in coincidenza con la presenza di città di tre "beatnicks" inglesi.
Il racconto di Fava, poi pubblicato in "Processo alla Sicilia" ( Editrice ITES, 1967 ), colse con prosa tagliente la provinciale mentalità dei "beat" del posto - ripiegata nelle convenzioni della società nissena del tempo ( "Caltanissetta rassomiglia alla Sicilia più di qualsiasi altra città e qui troviamo il dramma e i personaggi nella loro esemplificazione quasi teatrale", scriverà Fava ) - rispetto alla sfrontata libertà di parola e di atteggiamento dimostrata dei tre inglesi:
"C'era stata una bella processione lunga mezzo chilometro, con baldacchino, banda, chierichetti, autorità, e per mezz'ora le auto bloccate a tutte le vie di accesso alla piazza centrale; e sbucando poi tutte in una volta, avevano incanaglito con trombe e sirene.
Spiega Wikipedia che il termine "beatnick" fu coniato nel 1958 dal giornalista americano Herb Caen per indicare i figli della "Beat Generation", nell'epoca del lancio del satellite sovietico "Sputnik": la parola insomma sottolineava le idee sovversive e comuniste degli eroi di Jack Kerouac, capaci di battere senza regole fisse le strade di tutto il mondo.
Otto anni dopo quella definizione, Giuseppe Fava raccontò in un reportage pubblicato dal quotidiano "La Sicilia" un incontro a Caltanissetta con un gruppo di "beatnicks" locali, evento avvenuto in coincidenza con la presenza di città di tre "beatnicks" inglesi.
Un "beatnick" locale, testimone della breve stagione di cultura beat nissena |
Il racconto di Fava, poi pubblicato in "Processo alla Sicilia" ( Editrice ITES, 1967 ), colse con prosa tagliente la provinciale mentalità dei "beat" del posto - ripiegata nelle convenzioni della società nissena del tempo ( "Caltanissetta rassomiglia alla Sicilia più di qualsiasi altra città e qui troviamo il dramma e i personaggi nella loro esemplificazione quasi teatrale", scriverà Fava ) - rispetto alla sfrontata libertà di parola e di atteggiamento dimostrata dei tre inglesi:
"C'era stata una bella processione lunga mezzo chilometro, con baldacchino, banda, chierichetti, autorità, e per mezz'ora le auto bloccate a tutte le vie di accesso alla piazza centrale; e sbucando poi tutte in una volta, avevano incanaglito con trombe e sirene.
Era sabato.
Un bel sabato, chiaro, ventilato, sulle alte montagne della Sicilia centrale; la gente gremiva i bar, i notabili stavano tutti dinanzi al circolo, i giovani passeggiavano.
C'erano anche molte belle ragazze.
La piazza nereggiava di gente.
Improvvisamente là in mezzo a quella folla vedemmo uno spettacolo curioso: tre giovani bizzarri, due uomini ed una donna, seduti sul bordo della fontana, come se fossero esposti in vetrina dinanzi alle centinaia di persone che si accalcavano loro intorno.
Gruppo di fedeli in processione a Caltanissetta |
La donna era alta, bruna, bellissima, con gli occhiali neri, il pullover nero, i pantaloni neri e aderentissimi e, seduta sul bordo della fontana, guardava tutta quella marea di uomini, giovani e vecchi, che le annaspavano dinanzi.
Li guardava gelida, immobile, quasi valutandoli con disprezzo.
La sua bellezza, la sua stessa procacità, sembravano una sfida.
I due uomini erano ancora più straordinari.
Altissimi, vestiti solo di un vecchio pullover e di un paio di pantaloni.
Uno con la chitarra e l'altro con un cavalletto da pittore.
Uno bruno e l'altro biondo; e tutti e due con i capelli lunghissimi alla maniera di Veronika Lake.
Si divertivano.
Erano circondati da altri trecento curiosi che si spingevano per guardarli da vicino, li chiamavano, li sfioravano.
E pareva tuttavia ch'essi si divertissero a stare là in mezzo.
Quello biondo però era geloso.
O probabilmente gli sarebbe piaciuta una bella zuffa.
Infatti s'alzò di colpo e cominciò a respingere la gente; cominciò a guardarli in faccia, proprio negli occhi, li passò in rivista uno per uno, spingendoli, e facendo dei piccoli urli gutturali di disprezzo.
'Go home!', diceva. Proprio così, 'andate a casa!'.
Lui che era inglese diceva di andare a casa ai nisseni che erano giusto a casa loro.
Venne un vigile urbano molto emozionato, ma l'inglese gli mulinò la chitarra sotto gli occhi, ogni tanto faceva gesto di usarla a mò di clava e la piccola folla ondeggiava con una risata di paura.
Era un incontro incredibile.
Da una parte la città più reclusa nel territorio più meridionale d'Europa, il mondo fermo a cinquant'anni fa, la piazza con due grandi chiese barocche, il municipio con i lampioni, i contadini vestiti di nero, i notabili seduti in fila dinanzi al circolo, i vecchi notai o medici con gli occhiali a pinze che leggevano il giornale con la signorile malinconia dei paralitici che assistono alle vicende del mondo, una società immobile, con idee ferme ed inviolabili degli eventi; e dall'altra parte invece tre giovani che venivano da una parte sconosciuta del mondo, venivano ed andavano, venivano e partivano per il solo gusto del nuovo, dell'imprevedibile, non avevano alcuna idea che non potesse cambiare, anzi non avevano affatto idee, tranne una e spavalda e cioè che fosse necessario sovvertire tutta l'organizzazione del mondo e ribellarsi contro tutte le cose.
Da una parte il tabù dell'onore, della buona reputazione, della giacca pulita; dall'altra i maglioni stracciati, la impudicizia, i capelli lunghi e sporchi e la libertà di offendere tutti i principi della società.
L'aspetto più paradossale di questo incontro era tuttavia dato dal fatto che gli uni e gli altri erano esattamente il rovescio di quello che volevano apparire.
Tutta quella folla nera, compatta, anonima di Caltanissetta era in realtà composta da individui che vivevano gelosissimamente ognuno per suo conto, e quei tre stranieri esprimevano al contrario il mondo nordico, ordinato, solidale, collettivo.
D'un tratto la ragazza si alzò, senza dire una parola, e cominciò a fendere la folla, seguita dai due compagni e dall'allegro sciamare della folla.
E in mezzo a quella folla improvvisamente vidi una cosa stupefacente, cioè un giovanottino con la camicia rossa, i capelli neri e lunghi fino alle spalle ed in cima alla testa un berrettino alla Beatles.
Accanto a lui ne scorsi un altro, e dieci metri più in là altri due, poi cinque tutti in un gruppetto.
Tutti con i capelli lunghi sul collo, le camiciole di colori sgargianti e i berrettini con la visiera.
Corricchiavano anch'essi in mezzo alla gente, parlavano in dialetto e si chiamavano l'un l'altro ad alta voce: Francesco, Paolo, Enzo, Calò, Pippino...
Erano i beatnicks locali.
Ma quanto diversi: così piccolini di statura che sembravano lo facessero apposta per nascondersi in mezzo alla gente, emozionati per tutto quello che stava succedendo, divertiti anch'essi e un po' sgomenti nel vedere com'erano fatti i beatnicks sul serio, con capelli fino alle reni, barbe, chitarre, impolverati, rissosi, violenti; e avevano donne che non consideravano più tali, tante ne potevano avere; e andavano sul serio per il mondo, stracciati, e senza soldi, per il gusto sadico di conoscerlo e sfidarlo.
E quando saranno più adulti diventeranno quello che ora sognano di essere: pittori, ubriaconi, attori di teatro, poeti o mendicanti, suonatori di banjo o sassofono, saranno probabilmente omosessuali e continueranno a sfidare in qualche modo la società, poiché sentiranno di farne parte e, per disperato amore, la vorrebbero diversa: più sincera e solidale.
E i beatnicks nostri invece, tra qualche anno si taglieranno i capelli, diventeranno maestri elementari, ragionieri, segretari al comune, deputati, avranno moglie, figli e la '850' e non formuleranno più sfide alla società, perché penseranno ai fatti loro e basta"
Quello biondo però era geloso.
O probabilmente gli sarebbe piaciuta una bella zuffa.
Infatti s'alzò di colpo e cominciò a respingere la gente; cominciò a guardarli in faccia, proprio negli occhi, li passò in rivista uno per uno, spingendoli, e facendo dei piccoli urli gutturali di disprezzo.
'Go home!', diceva. Proprio così, 'andate a casa!'.
Lui che era inglese diceva di andare a casa ai nisseni che erano giusto a casa loro.
Venne un vigile urbano molto emozionato, ma l'inglese gli mulinò la chitarra sotto gli occhi, ogni tanto faceva gesto di usarla a mò di clava e la piccola folla ondeggiava con una risata di paura.
Era un incontro incredibile.
Da una parte la città più reclusa nel territorio più meridionale d'Europa, il mondo fermo a cinquant'anni fa, la piazza con due grandi chiese barocche, il municipio con i lampioni, i contadini vestiti di nero, i notabili seduti in fila dinanzi al circolo, i vecchi notai o medici con gli occhiali a pinze che leggevano il giornale con la signorile malinconia dei paralitici che assistono alle vicende del mondo, una società immobile, con idee ferme ed inviolabili degli eventi; e dall'altra parte invece tre giovani che venivano da una parte sconosciuta del mondo, venivano ed andavano, venivano e partivano per il solo gusto del nuovo, dell'imprevedibile, non avevano alcuna idea che non potesse cambiare, anzi non avevano affatto idee, tranne una e spavalda e cioè che fosse necessario sovvertire tutta l'organizzazione del mondo e ribellarsi contro tutte le cose.
Da una parte il tabù dell'onore, della buona reputazione, della giacca pulita; dall'altra i maglioni stracciati, la impudicizia, i capelli lunghi e sporchi e la libertà di offendere tutti i principi della società.
L'aspetto più paradossale di questo incontro era tuttavia dato dal fatto che gli uni e gli altri erano esattamente il rovescio di quello che volevano apparire.
Tutta quella folla nera, compatta, anonima di Caltanissetta era in realtà composta da individui che vivevano gelosissimamente ognuno per suo conto, e quei tre stranieri esprimevano al contrario il mondo nordico, ordinato, solidale, collettivo.
D'un tratto la ragazza si alzò, senza dire una parola, e cominciò a fendere la folla, seguita dai due compagni e dall'allegro sciamare della folla.
E in mezzo a quella folla improvvisamente vidi una cosa stupefacente, cioè un giovanottino con la camicia rossa, i capelli neri e lunghi fino alle spalle ed in cima alla testa un berrettino alla Beatles.
Accanto a lui ne scorsi un altro, e dieci metri più in là altri due, poi cinque tutti in un gruppetto.
Tutti con i capelli lunghi sul collo, le camiciole di colori sgargianti e i berrettini con la visiera.
Corricchiavano anch'essi in mezzo alla gente, parlavano in dialetto e si chiamavano l'un l'altro ad alta voce: Francesco, Paolo, Enzo, Calò, Pippino...
Erano i beatnicks locali.
Ma quanto diversi: così piccolini di statura che sembravano lo facessero apposta per nascondersi in mezzo alla gente, emozionati per tutto quello che stava succedendo, divertiti anch'essi e un po' sgomenti nel vedere com'erano fatti i beatnicks sul serio, con capelli fino alle reni, barbe, chitarre, impolverati, rissosi, violenti; e avevano donne che non consideravano più tali, tante ne potevano avere; e andavano sul serio per il mondo, stracciati, e senza soldi, per il gusto sadico di conoscerlo e sfidarlo.
E quando saranno più adulti diventeranno quello che ora sognano di essere: pittori, ubriaconi, attori di teatro, poeti o mendicanti, suonatori di banjo o sassofono, saranno probabilmente omosessuali e continueranno a sfidare in qualche modo la società, poiché sentiranno di farne parte e, per disperato amore, la vorrebbero diversa: più sincera e solidale.
E i beatnicks nostri invece, tra qualche anno si taglieranno i capelli, diventeranno maestri elementari, ragionieri, segretari al comune, deputati, avranno moglie, figli e la '850' e non formuleranno più sfide alla società, perché penseranno ai fatti loro e basta"
lunedì 8 agosto 2016
ARTE DEVOZIONALE E POPOLARE NEI COLLARI DEL RAGUSANO
Una pagina dell'etnologo Antonino Uccello tratta dalla guida della "Casa museo di Palazzolo Acreide" racconta origini e valore religioso di oggetti un tempo destinati ad ornare il collo di buoi e pecore
Nel 1972 Antonino Uccello pubblicò l'opera "Folklore siciliano nella Casa museo di Palazzolo Acreide", nei cui ambienti - "a casa ri stari" e "a casa ri massaria" - l'etnologo raccolse oggetti e testimonianze della cultura contadina degli Iblei.
Nel 1972 Antonino Uccello pubblicò l'opera "Folklore siciliano nella Casa museo di Palazzolo Acreide", nei cui ambienti - "a casa ri stari" e "a casa ri massaria" - l'etnologo raccolse oggetti e testimonianze della cultura contadina degli Iblei.
Il volume nacque come una sorta di "guida" del museo, che aveva aperto i battenti al pubblico il 27 novembre del 1971 e che altro non era che la casa stessa di Uccello, aperta gratuitamente ai visitatori.
Quella pubblicazione, diventata nel frattempo introvabile, è stata ristampata nel 2001 con il titolo "Antonino Uccello, Casa museo di Palazzolo Acreide" dall'Assessorato dei Beni Culturali e Ambientali e della Pubblica Istruzione della Regione Siciliana.
Tra le molte forme di espressione artistica di origine rurale e pastorale tramandate da Uccello - definito da Stefano Malatesta "lo sciamano di Palazzolo" nelle documentate pagine de "Il cane che andava per mare e altri eccentrici siciliani" ( Neri Pozza, 2000 ) - figurò quella espressa dai costruttori dei collari destinati a mucche e pecore; oggetti in cui veniva espressa una capacità figurativa spesso ispirata dalla devozione religiosa:
"Nella stalla - scrisse nel 1972 Antonino Uccello - si sogliono conservare i campanacci per le mucche e le pecore, uno appresso all'altro, infilati in un bastone disposto in alto, in senso orizzontale.
Attendono le prime giornate d'incipiente primavera, l'erba novella che verzica di febbraio, quando le mucche vengono 'incampanate' - come dicono i contadini - e lasciano le stalle per i verdi pascoli.
Il collare viene di solito eseguito dagli stessi contadini o pastori in legno di bagolaro ( 'favaràgghiu' o 'minniccu' ); l'albero viene abbattuto in agosto o in gennaio, in fase di luna crescente, perché non si tarli; viene poi ridotto in strisce, che saranno successivamente ripiegate con acqua calda o siero di ricotta.
Nelle lunghe giornate di pioggia o durante la custodia dell'armento o del gregge, il contadino, o il pastore, incide sul collare le sue immagini: santi patroni, scene di vita vissuta, motivi decorativi.
A volte i collari vengono anche dipinti con una mano di colore oppure con una sapiente policromia: questi manufatti hanno rappresentato l'orgoglio dell'artista popolare e del fortunato massaro che riusciva a venirne in possesso.
Un collare che raffigura una scena pastorale: contadini in costume modicano confezionano la ricotta |
I piccoli collari per gli ovini, ovviamente più piccoli, sono incisi con motivi decorativi a cellette, a cuori, a fiori, ecc. ecc., che costituiscono un vero e proprio ricamo al collo della pecora: non si dimentichi, d'altronde, che l'incisione del collare è detta in dialetto 'arraccamu', cioè ricamo.
Nelle fiere, in occasione di feste patronali, le mucche più prestanti avanzavano con questi collari, splendidi d'incisioni: vi facevano spicco le immagini di Santa Lucia, di San Corrado di Noto, di San Paolo di Palazzolo, e scene con landò, aquile bicipiti e monocipiti, pastori al pascolo, ecc., com'è possibile osservare nella ricca serie di collari appesi nella stalla e in parte anche nella 'casa di masseria'"
Anni dopo, nel 1999, Giuseppe Licitra avrebbe aggiunto queste indicazioni sull'utilizzo di collari e campane tra i bovini e gli ovini del ragusano:
Collare con la raffigurazione di San Giorgio ed il drago |
Anni dopo, nel 1999, Giuseppe Licitra avrebbe aggiunto queste indicazioni sull'utilizzo di collari e campane tra i bovini e gli ovini del ragusano:
"Il massaro - si legge in "Il Ragusano. Storie e paesaggi dell'arte casearia" ( Federico Motta Editore ) - sceglieva la vacca 'leader', in realtà quella che tra tutte si era dimostrata tale, e le affidava un collare con la 'campana dominante'.
A più vacche venivano assegnate delle campane di qualità e dimensioni diverse, capaci di emettere suoni particolari accuratamente scelti dai massari più attenti.
SICILIANDO
"L'abbraccio del grande amore per la Sicilia non sfugge all'indignazione di fronte ai mille abusi e alle mille distruzioni che hanno rovinato parti importanti delle città e dell'isola.
Oggi non ho più niente che mi porti in Sicilia, salvo alcuni amici cari e l'invito delle scuole.
Ma ogni volta rimango sconvolta dagli strazi e dalle ferite che una città meravigliosa come Palermo ha saputo farsi, quasi presa da una furia autodistruttiva"
Dacia Maraini
domenica 7 agosto 2016
IL DECORO DI BARRAFRANCA ASSEDIATA DAI RIFIUTI
Il chiostro del palazzo comunale di Barrafranca. La fotografia è di ReportageSicilia |
Fra Caltanissetta ed Enna, Barrafranca è uno di quei paesi della Sicilia che si stendono su colline coltivate a grano, ulivi e mandorli sotto il sole estivo, immobili come lucertole.
Da settimane, Barrafranca ed i suoi 13.000 abitanti sono al centro della più vergognosa e inconcepibile fra le distorsioni della vita quotidiana in Sicilia: l'accatastarsi di tonnellate di rifiuti lungo le vie periferiche dell'abitato.
Cumuli di spazzatura ingombrano il parcheggio del cimitero comunale e la strada che da Barrafranca conduce i pullman di turisti verso Piazza Armerina.
Di tanto in tanto, qualche folata di vento diffonde il fetore sino alle vie dell'abitato; e le mosche sembrano posarsi ovunque, anche lontano dallo scempio delle discariche a cielo aperto.
A causare tutto ciò è il solito incrocio di responsabilità: la gestione fallimentare delle aziende che dovrebbero provvedere alla raccolta, il dissesto delle casse comunali, la ritrosia dei barresi nei confronti della raccolta differenziata.
Eppure, questo storico centro urbano dell'ennese offre angoli che potrebbero semplicemente farlo essere un luogo accogliente e degno dei buoni ricordi di un viaggiatore.
E' il caso ad esempio del chiostro interno del palazzo del Comune, dove l'umile bellezza di una pianta grassa riesce ad ornare preziosi sprazzi di secolare architettura.
Da settimane, Barrafranca ed i suoi 13.000 abitanti sono al centro della più vergognosa e inconcepibile fra le distorsioni della vita quotidiana in Sicilia: l'accatastarsi di tonnellate di rifiuti lungo le vie periferiche dell'abitato.
Cumuli di spazzatura ingombrano il parcheggio del cimitero comunale e la strada che da Barrafranca conduce i pullman di turisti verso Piazza Armerina.
Di tanto in tanto, qualche folata di vento diffonde il fetore sino alle vie dell'abitato; e le mosche sembrano posarsi ovunque, anche lontano dallo scempio delle discariche a cielo aperto.
A causare tutto ciò è il solito incrocio di responsabilità: la gestione fallimentare delle aziende che dovrebbero provvedere alla raccolta, il dissesto delle casse comunali, la ritrosia dei barresi nei confronti della raccolta differenziata.
Eppure, questo storico centro urbano dell'ennese offre angoli che potrebbero semplicemente farlo essere un luogo accogliente e degno dei buoni ricordi di un viaggiatore.
E' il caso ad esempio del chiostro interno del palazzo del Comune, dove l'umile bellezza di una pianta grassa riesce ad ornare preziosi sprazzi di secolare architettura.
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