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giovedì 19 marzo 2009

PALERMO, ARTE NORMANNA IN OSTAGGIO DI UN PARCHEGGIO PRIVATO

La facciata dei resti normanni della chiesa di Santa Maria della
Speranza, inglobata nell'area di un parcheggio privato di pullman
e di una officina meccanica, nei pressi di Corso Pisani.
Sono evidenti i segni del degrado e del completo abbandono
( foto REPORTAGESICILIA )
Al civico 124 di via Agostino Catalano campeggia un cartello inequivocabile: la scritta ammonisce infatti ‘severamente vietato l’ingresso agli estranei’. Il viale sembra deserto, ed allora la tentazione di violare il monito diventa insopprimibile. Avanziamo lungo una strada impolverata, fra carcasse di automobili di una officina meccanica e lo scorcio, centinaia di metri più avanti, di un grande parcheggio privato di pullman e mezzi pesanti: il divieto di accesso, evidentemente, si lega all’esistenza del deposito dei grandi automezzi, ed al loro via vai verso corso Pisani.
Le strutture di Santa Maria della Speranza si presentano presto ai nostri occhi, il prospetto parzialmente ostruito dal triste relitto di una Renault Supercinque destinata a rottamazione.
Ciò che rimane di questo monumento rappresenta una testimonianza altrettanto a perdere di architettura normanna palermitana, in quell’area che nel XII secolo faceva parte del ‘genoard’ di araba memoria: il territorio cioè compreso fra l’attuale corso Calatafimi, corso Pisani e mezzo Monreale, che raccoglie la Cuba, la piccola Cuba, la Zisa ed i resti dello Scibene.
Santa Maria della Speranza è oggi uno dei luoghi architettonici più dimenticati dagli stessi palermitani. La riscoperta della chiesa si deve, lo scorso secolo, a Nino Basile; negli ultimi decenni, pochi libri di storia dell’arte siciliana ne hanno tuttavia fatto cenno. Elio Tocco, nella sua ‘Guida alla Sicilia che scompare’ – edita nel 1984 da Sugarco – ricorda le antichissime origini di un luogo oggi abbandonato al degrado e da tempo “vietato” alla fruizione pubblica.
“Nel luogo dove oggi sono i pochi avanzi della chiesa normanna di Santa Maria della Speranza – scriveva Tocco – sorgeva nel 595 un grande monastero femminile, nel quale, per ordine di papa Gregorio Magno, furono trasferite alcune monache del convento di San Martino, ree, a quanto pare, di gravi “disordini”… risale a questo episodio il nome del monastero, dalla giusta speranza che le monache nutrivano di ritornare al buon ritiro di San Martino”.
In epoca araba, il convento di Santa Maria della Speranza venne probabilmente distrutto, così che le strutture ancora superstiti dell’edificio sembrano riferirsi alla seconda metà del secolo XII. Gli elementi architettonici ancor oggi identificabili si trovano nella facciata: i resti di un portale d’ingresso, con decorazione a ‘chevron’, e due finestre cieche, con bugne a guancialetto, in linea con quanto si può oggi ancora ammirare negli ordini superiori delle torri angolari della Cattedrale ed in quella che precede l’ingresso alla chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio. L’intero edificio – che mostra i segni di ristrutturazioni cinquecentesche – mostra alcune crepe, mentre l’interno è totalmente inaccessibile. Il Tocco, nella sua guida, documentò che le strutture normanne erano adibite a magazzino, “ingombro di legname, casse e macchine, con le pareti imbiancate a calce, del tutto deturpato”: una destinazione d’uso che il passare dei decenni non ha probabilmente modificato. Riscontrare questo aspetto dell’abbandono di Santa Maria della Speranza non è stato comunque possibile: un anziano custode del parcheggio di pullman e camion si è infatti subito avvicinato a noi, sottolineando il divieto di accesso all’area e invitandoci a non scattare alcuna fotografia della chiesa, oltre quella – l’unica – già conservata nella memoria digitale del nostro apparecchio.
Così, il ricordo stesso di questo prezioso esempio di architettura normanna rimane vietato, oltre che ai palermitani, anche al semplice desiderio di documentazione: non rimane allora che confidare finalmente nell’intervento alla Soprintendenza dei Beni Culturali, nella speranza di salvare quanto resta di ciò che Nino Basile così ricordava, quasi un secolo fa: “Alle porte di Palermo esistono completamente dimenticati gli avanzi di uno dei più antichi monumenti cristiani, del periodo più glorioso dell’arte cristiana, e di cui si è perduta memoria…”

mercoledì 11 marzo 2009

QUEI PETALI PER DONNA FRANCA FLORIO




Dettaglio del pavimento della camera da letto di Franca Florio,
moglie di Ignazio ( qui, nel ritratto del pittore Giovanni Boldini ed in una fotografia con il marito del 1901 ), l'imprenditore di origini calabresi la cui
famiglia dominò la scena economica e culturale della Sicilia
tra la fine del secolo XIX e i primi decenni del XX.
Le mattonelle di maiolica con petali di rose abbeliscono ancor oggi l'edificio
di palazzo Florio, a Palermo.

Franca Florio - all'anagrafe Francesca Jacona, dei baroni di San Giuliano - sposò Ignazio a Livorno, nel 1893, all'età di vent'anni; le cronache di quegli anni la indicano come donna ammirata in Europa da Guglielmo II il Kaiser, Francesco Giuseppe - imperatore d'Austria - e Gabriele d'Annunzio.
Proprio il poeta, nel dicembre del 1901, alla vigilia della prima della 'Francesca da Rimini' al Costanzi di Roma, le chiese un talismano che servisse ad allontanare il malocchio ed a decretare il successo della sua tragedia.
In una lettera inviatagli in quello stesso periodo, d'Annunzio definiva Franca Florio "una creatura che svela in ogni suo movimento un ritmo divino".
'Donna Franca' amava i fiori; all'occhiello di ogni vestito era presente un garofano carnicino al mattino ed una gardenia profumata la sera; ma le sue preferite - come dimostrato dal pavimento della sua camera da letto a Palermo -  erano proprio le rose, che adornavano anche le case e le carrozze di famiglia. 
Come ricorda Andreina d'Agliano nel saggio 'In nome della rosa', edito nel 2010 da Silvana Editoriale, "la rosa è stata, dal Medioevo in poi, straordinariamente presente nella cultura figurativa europea, pegno di amore, simbolo di purezza ma anche di passione e seduzione, popolando con le sue corolle, le sue molteplici forme, il suo simbolismo e la sua perfezione decorativa tutti i settori delle arti applicate. La rosa è così stata un fiore ricorrente per la sua specificità nel repertorio artistico delle arti decorative del primo Novecento".
Il suo ritratto più noto è quello realizzato dal pittore Giovanni Boldini, opera finita al centro delle vicissitudini storiche ( passato alla collezione del barone Maurizio di Rothschild, il quadro venne depredato durante il secondo conflitto mondiale dai tedeschi e danneggiato, per poi tornare ai Rothschild ); come scriverà Leonardo Sciascia in 'Nero su nero', "racconta Dario Cecchi, biografo di Baldini, che Ignazio Florio andò su tutte le furie: non intendeva affatto veder ritratta la propria moglie in una posa serpentina", così che il pittore la ritoccò "obbedendo alle contestazioni del committente ma, a quanto pare, con una certa trasandatezza". 

SICILIA DI IERI: GIOCHI D'ACQUA ALLA CALA

L'albero della cuccagna sull'acqua nel porto della Cala,
a Palermo, durante i festeggiamenti per Santa Rosalia
nel luglio del 1952
( foto di Mario De Biasi, da 'Le Vie d'Italia' TCI febbraio 1953 )

VUCCIRIA, QUEL CHE RESTA DEL 'GENIO'



Il 'Genio di Palermo' in piazza Garraffo, nel cuore della
Vucciria, uno dei molti monumenti cittadini che patiscono
l'abbandono ed il degrado. Adesso il FAI di Palermo ne
sollecita il restauro

Un appello pubblico per salvare dal degrado il Genio di Palermo, l’opera marmorea esistente dalla fine del Quattrocento sul fronte occidentale di piazza Garraffo, a metà della via Argenteria, nel popolare quartiere della Vucciria. L’iniziativa è stata promossa dalla delegazione palermitana del Fondo per l’Ambiente Italiano, che ha organizzato per domani pomeriggio alle 18.00 una conferenza dedicata al monumento ed alle proposte per salvaguardarne ciò che resta. L’evento avrà luogo presso il vicino Istituto Cervantes di via Argenteria 33, alla presenza dei ragazzi di una classe della scuola media Cei di Palermo. Il degrado del Genio di piazza Garraffo – raffigurante un nume in forma di uomo dal corpo di giovane e dal volto di anziano, con la barba fluente, coronato, avvolto da un mantello, con un serpente che sembra mordergli o succhiargli il petto – è uno dei simboli dell’abbandono in cui versa gran parte del quartiere della Vucciria. Dell’antica fontana murale con i suoi cinque grossi cannoli di bronzo che ospita ancora oggi la statua del Genio – sottolinea il FAI cittadino - non rimangono che poche tracce. Sino a qualche decennio fa, i palermitani più anziani denominavano il nume della Vucciria ‘Palermu lu grandi’, per distinguerlo dal piccolo Genio presente all’interno di palazzo delle Aquile, e da altre raffigurazioni esistenti in città: in piazza Rivoluzione, all’interno di villa Giulia, in un cippo all’ingresso del porto e, come soggetto di un pannello musivo, sopra la porta d’ingresso della Cappella Palatina.
Allo scopo di segnalare l’esigenza della tutela dei resti dell’opera marmorea di piazza Garraffo, il FAI ha già chiesto l’intervento dell’Assessorato comunale al Centro Storico e dell’Azienda municipale del Gas. Proprio quest’ultima – grazie alla disponibilità di alcune imprese private cittadine e di una raccolta di fondi promossa dalla scuola Cei - installerà un faro: il suo compito sarà quello di illuminare la statua del Genio, in attesa di più radicali ed urgenti interventi di restauro, da attuare – nelle intenzioni dei promotori dell’intervento – grazie ad una pubblica sottoscrizione di fondi.