Ritratto di don Gaetano Filippone, capomafia di una Palermo a cavallo fra vecchie e nuove attività criminali
Nel 1987 il giornalista palermitano Roberto Ciuni diede alle stampe "Mafiosi" ( Tranchida Editori ), una raccolta di profili di noti capimafia e comprimari di Cosa Nostra.
Nel 1987 il giornalista palermitano Roberto Ciuni diede alle stampe "Mafiosi" ( Tranchida Editori ), una raccolta di profili di noti capimafia e comprimari di Cosa Nostra.
L'opera di Ciuni - cronista "quando usava ancora andare con il taccuino in mano anche dai delinquenti più sanguinari", secondo lo stesso autore - presentò una rassegna di mafiosi in auge in Sicilia negli anni Cinquanta e Sessanta: il periodo in cui molti di loro vissero il passaggio tra le attività criminali di una tradizionale società rurale e quelle di una spregiudicata economia urbana.
La ribalta narrativa di Ciuni incluse personaggi come Genco Russo, Luciano Liggio, Diego Plaia, Totò Greco e Pippò Calò, ciascuno con la propria dote di aberrante e spesso grottesco "fare" mafioso.
I loro ritratti - scrisse Roberto Ciuni ( un'indicazione che purtroppo non ha perso di attualità ancora nel 2017 ) - possono fare capire "come e perché l'Isola produce mafia e tanti siciliani, sia in Sicilia che nel resto del mondo, vanno dietro ai mafiosi".
Nel libro di Ciuni trova marginalmente spazio il nome di un vecchio capomafia palermitano: Gaetano Filippone, "ras" del popolare quartiere Danisinni, ricordato come perfetto "omo di panza" e per l'adesione - nel dopoguerra - al Movimento Indipendentista Siciliano.
Il suo potere - esercitato con lo stereotipo dell'anziano capomafia saggiamente in grado di dispensare consigli e risolvere contrasti, "doti" anni dopo ricordate da Tommaso Buscetta - fu esteso nel cuore urbano di quella Palermo che dalla via Maqueda arriva al limite di Porta Nuova: un reticolo di strade e piazzette che comprendono quartieri come l'Albergheria ed il Papireto.
Secondo quanto ricordato da Aurelio Bruno ed Emanuele Limuti in "Spie a Palermo" ( Edizioni Lussografica, 2004 ), Filippone aveva il monopolio dei borseggiatori di Palermo:
"Quando era libero da impegni personali e nonostante già anziano - scrissero Bruno e Limuti - il vecchio 'Tano' era solito passeggiare lungo il marciapiede di via Ruggero Settimo all'altezza dell'allora pasticceria Dagnino e si incontrava o riceveva i borsaioli che avevano durante la giornata lavorato sugli autobus, intascava i portafogli e i portamonete rubati e la sera ai Danisinni teneva le riunioni di lavoro nelle quali venivano fatte le 'parti' o come si sarebbe detto oggi si sarebbero 'spartiti gli utili'; e, naturalmente anche lui riceveva la sua parte.
La Questura chiudeva un occhio, qualche volta anche entrambi perché, di tanto in tanto, proprio quando non ne poteva fare a meno, faceva fare qualche 'servizietto'...
Il vecchio boss camminava con in tasca un certificato medico rilasciato da Calogero Volpe, noto esponente democristiano e divenuto sottosegretario alle Poste, dal quale era definito affetto da 'malattia cardiaca', cosa che all'epoca non risultava rispondesse a verità..."
Oltre a gestire i proventi dei borseggi - provvedendo alla restituzione del maltolto su richiesta di qualche magistrato in buoni rapporti con gli avvocati del boss - Filippone si curò di intrattenere rapporti con il clan Greco di Ciaculli e con i notabili della politica palermitana di allora.
Agli atti del processo "Pietro Torretta+120", infatti, il suo nome compare in una lista di capimafia implicati in un affidamento irregolare di case popolari, grazie all'intercessione di Salvo Lima, Ernesto Di Fresco e Vito Ciancimino.
Malgrado il ruolo secondario nelle vicende di mafia palermitane del tempo, Gaetano Filippone diede modo ad alcuni dei suoi gregari di scalare le gerarchie di Cosa Nostra: fra questi, Gerlando Alberti e, soprattutto, Pippo Calò.
Negli anni in cui i boss si avvicinavano sempre più ai salotti della politica cittadina esibendo stili di vita borghesi - è il caso dei fratelli La Barbera, che a Palermo abitavano nell'elegante via Veneto - Filippone si spostava utilizzando in prevalenza gli autobus.
Quello che i giornali del tempo definirono "il boss di Porta Nuova" non viaggiava in auto ma a bordo di un calessino trainato da un morello chiamato "Palù", ovvero Paolo.
Per gli inviati dei giornali che mettevano piede a Palermo, don Gaetano Filippone era un personaggio che incarnava la figura di un "mamma santissima" vecchio stampo, ancorato ai modelli più arcaici della fenomenologia mafiosa.
Di lui così scrisse sul settimanale "Epoca" ( 14 luglio 1963 ) il giornalista e saggista Brunello Valdano:
"Chi suppone che al mafioso sia necessaria una certa prestanza fisica e rapidità di riflessi per maneggiare di scatto, all'occorrenza, un'arma, non conosce don Gaetano Filippone.
E' un ottantaquattrenne indicibilmente grasso, il cui respiro asmatico, per i suoi accoliti, è un suono confortante e commovente, come lo è per gli amanti del mare il rumore della risacca.
Ha una faccia ridente e paterna che somiglia a quella dell'attore Cesco Baseggio, e porta all'indice della mano destra un anello d'oro con un'agata enorme dov'è inciso il suo stemma: un leone rampante.
La sua autorità non eguaglia quella di Genco Russo, a proposito del quale si suol ammonire: "lo disse Genco Russo, è parola di Cassazione!", ma si commisura comunque in questa frase: "lo disse don Gaetano, è parola di tribunale!".
Tempo fa, a Brindisi, si svolse un processo per una rivolta di detenuti al carcere dell'Ucciardone.
Tra i pregiudicati era il figlio di don Gaetano, Giuseppe, che era già stato assolto per insufficienza di prove dall'accusa di omicidio e che fu prosciolto pure da quella di ribellione.
Subito dopo il processo, don Gaetano Filippone invitò a pranzo alla trattoria "Del Mare" quattordici ex detenuti, anch'essi liberati, che in carcere avevano servito suo figlio come umili attendenti.
Prima che la cena cominciasse, tra lo sbigottimento dei camerieri e dei clienti, i quattordici giovinastri si inginocchiarono uno alla volta innanzi a don Gaetano e gli baciarono l'anello d'agata e d'oro"
La ribalta narrativa di Ciuni incluse personaggi come Genco Russo, Luciano Liggio, Diego Plaia, Totò Greco e Pippò Calò, ciascuno con la propria dote di aberrante e spesso grottesco "fare" mafioso.
I loro ritratti - scrisse Roberto Ciuni ( un'indicazione che purtroppo non ha perso di attualità ancora nel 2017 ) - possono fare capire "come e perché l'Isola produce mafia e tanti siciliani, sia in Sicilia che nel resto del mondo, vanno dietro ai mafiosi".
Nel libro di Ciuni trova marginalmente spazio il nome di un vecchio capomafia palermitano: Gaetano Filippone, "ras" del popolare quartiere Danisinni, ricordato come perfetto "omo di panza" e per l'adesione - nel dopoguerra - al Movimento Indipendentista Siciliano.
Salvatore Filippone, figlio di Gaetano, fotografo all'interno della Questura di Palermo |
Secondo quanto ricordato da Aurelio Bruno ed Emanuele Limuti in "Spie a Palermo" ( Edizioni Lussografica, 2004 ), Filippone aveva il monopolio dei borseggiatori di Palermo:
"Quando era libero da impegni personali e nonostante già anziano - scrissero Bruno e Limuti - il vecchio 'Tano' era solito passeggiare lungo il marciapiede di via Ruggero Settimo all'altezza dell'allora pasticceria Dagnino e si incontrava o riceveva i borsaioli che avevano durante la giornata lavorato sugli autobus, intascava i portafogli e i portamonete rubati e la sera ai Danisinni teneva le riunioni di lavoro nelle quali venivano fatte le 'parti' o come si sarebbe detto oggi si sarebbero 'spartiti gli utili'; e, naturalmente anche lui riceveva la sua parte.
La Questura chiudeva un occhio, qualche volta anche entrambi perché, di tanto in tanto, proprio quando non ne poteva fare a meno, faceva fare qualche 'servizietto'...
Il vecchio boss camminava con in tasca un certificato medico rilasciato da Calogero Volpe, noto esponente democristiano e divenuto sottosegretario alle Poste, dal quale era definito affetto da 'malattia cardiaca', cosa che all'epoca non risultava rispondesse a verità..."
Oltre a gestire i proventi dei borseggi - provvedendo alla restituzione del maltolto su richiesta di qualche magistrato in buoni rapporti con gli avvocati del boss - Filippone si curò di intrattenere rapporti con il clan Greco di Ciaculli e con i notabili della politica palermitana di allora.
Agli atti del processo "Pietro Torretta+120", infatti, il suo nome compare in una lista di capimafia implicati in un affidamento irregolare di case popolari, grazie all'intercessione di Salvo Lima, Ernesto Di Fresco e Vito Ciancimino.
Malgrado il ruolo secondario nelle vicende di mafia palermitane del tempo, Gaetano Filippone diede modo ad alcuni dei suoi gregari di scalare le gerarchie di Cosa Nostra: fra questi, Gerlando Alberti e, soprattutto, Pippo Calò.
Negli anni in cui i boss si avvicinavano sempre più ai salotti della politica cittadina esibendo stili di vita borghesi - è il caso dei fratelli La Barbera, che a Palermo abitavano nell'elegante via Veneto - Filippone si spostava utilizzando in prevalenza gli autobus.
Quello che i giornali del tempo definirono "il boss di Porta Nuova" non viaggiava in auto ma a bordo di un calessino trainato da un morello chiamato "Palù", ovvero Paolo.
Per gli inviati dei giornali che mettevano piede a Palermo, don Gaetano Filippone era un personaggio che incarnava la figura di un "mamma santissima" vecchio stampo, ancorato ai modelli più arcaici della fenomenologia mafiosa.
Di lui così scrisse sul settimanale "Epoca" ( 14 luglio 1963 ) il giornalista e saggista Brunello Valdano:
"Chi suppone che al mafioso sia necessaria una certa prestanza fisica e rapidità di riflessi per maneggiare di scatto, all'occorrenza, un'arma, non conosce don Gaetano Filippone.
E' un ottantaquattrenne indicibilmente grasso, il cui respiro asmatico, per i suoi accoliti, è un suono confortante e commovente, come lo è per gli amanti del mare il rumore della risacca.
Ha una faccia ridente e paterna che somiglia a quella dell'attore Cesco Baseggio, e porta all'indice della mano destra un anello d'oro con un'agata enorme dov'è inciso il suo stemma: un leone rampante.
La sua autorità non eguaglia quella di Genco Russo, a proposito del quale si suol ammonire: "lo disse Genco Russo, è parola di Cassazione!", ma si commisura comunque in questa frase: "lo disse don Gaetano, è parola di tribunale!".
Tempo fa, a Brindisi, si svolse un processo per una rivolta di detenuti al carcere dell'Ucciardone.
Tra i pregiudicati era il figlio di don Gaetano, Giuseppe, che era già stato assolto per insufficienza di prove dall'accusa di omicidio e che fu prosciolto pure da quella di ribellione.
Subito dopo il processo, don Gaetano Filippone invitò a pranzo alla trattoria "Del Mare" quattordici ex detenuti, anch'essi liberati, che in carcere avevano servito suo figlio come umili attendenti.
Prima che la cena cominciasse, tra lo sbigottimento dei camerieri e dei clienti, i quattordici giovinastri si inginocchiarono uno alla volta innanzi a don Gaetano e gli baciarono l'anello d'agata e d'oro"
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