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mercoledì 22 febbraio 2023

FEBO, IL CANE LIPAROTO CHE DIVENNE L'ALTER EGO DI CURZIO MALAPARTE

Curzio Malaparte a Lipari,
nei mesi del suo confino impostogli dal fascismo.
In questa fotografia
si scorge Febo,
il cane adottato dal giornalista e scrittore.
Le fotografie del post
sono tratte da un articolo pubblicato
dal settimanale "Tempo",
opera citata 


Questa storia di Lipari e di un cane ne ricorda inevitabilmente un'altra, più vicina ai nostri giorni: quella raccontata da Stefano Malatesta in "Il cane che andava per mare" ( Neri Pozza Editore, 2000, Vicenza ) del meticcio Jack che, senza un vero padrone, era solito farsi accompagnare su barche e traghetti verso le altre isole Eolie, tornando a Lipari con libero arbitrio dal continuo girovagare nell'arcipelago. L'altro cane liparota realmente vissuto e divenuto protagonista di pagine letterarie si chiama Febo. Il suo nome si lega a quello di Curzio Malaparte, che, a partire dal 13 novembre del 1933, per qualche mese - e col breve intermezzo di un ricovero all'ospedale militare di Palermo, causato dai suoi cronici problemi polmonari  -  fu confinato dal regime fascista a Lipari per motivi politici. Il giornalista e scrittore toscano era stato accusato di avere calunniato e diffamato Italo Balbo, e per questo era stato condannato a cinque anni di esilio: una punizione che gli venne revocata nel 1935 da Galeazzo Ciano, quando Malaparte aveva già da tempo lasciato Lipari.

Fu durante il soggiorno obbligato nell'isola delle Eolie che il futuro scrittore de "La pelle" adottò un cane che lo avrebbe accompagnato sino al suo ritorno a Capri, in un rapporto di identificazione totale fra padrone e animale. Malaparte lo chiamò Febo - spiega Treccani: "epiteto della divinità greca Apollo, con il significato di "puro" " - come un altro fra i molti cani posseduti in precedenza. La storia di questa singolare amicizia intrecciata da Curzio Malaparte a Lipari nei mesi del confino venne così raccontata il 22 agosto del 1957 dallo scrittore e giornalista triestino Franco Vegliani sulle pagine del settimanale "Tempo":  

"A Lipari, Malaparte non faceva una cattiva vita. Il viso gli aveva ripreso colore, nello sguardo era ricomparsa l'antica spavalderia, l'usuale sicurezza, le piccole febbri che lo avevano travagliato durante la permanenza al carcere non si facevano più sentire e così gli ascessi di cui soffriva alla gola. I carabinieri gli concedevano il massimo di libertà compatibile con il rigore del regolamento: alle sei di sera doveva tapparsi in casa, ma dall'alba a quell'ora era libero di fare quello che gli piacesse e di andare dove voleva. Tra gli isolani non aveva che amici. E intanto aveva ammaestrato un cane. Vi è, o vi era allora, sulle isole Eolie una razza di cani fuori dall'ordinario: sono i levrieri dello Stromboli, discendenti di cani che furono abbandonati sullo scoglio deserto del vulcano perché ritenuti rognosi e che invece, probabilmente per l'aria impregnata di zolfo, guarirono e si moltiplicarono. Ma che vivono un pò per conto loro, selvatici, dando poca confidenza all'uomo. A Malaparte non parve vero di catturarne uno e di farsene un impareggiabile amico..." 

Nelle sue opere letterarie, Malaparte fece frequente riferimento alla figura di Febo liparoto. Nel romanzo "La pelle", edito nel 1949, lo descrisse mitologicamente così:

"Era di quella famiglia di levrieri, rari ormai e delicati, venuti in antico dalle rive dell'Asia con le prime migrazioni joniche, che i pastori di Lipari chiamano cerneghi. Sono i cani che gli scultori greci scolpiranno nei bassorilievi tombali. "Cacciano la morte", dicono i pastori di Lipari"



Nel 1969, Malaparte avrebbe meglio ricordato nel racconto "Cane come me" pubblicato in "L'albero vivo" ( Vallecchi Editore ) il periodo di confino sofferto a Lipari, rivelando l'essenza del suo rapporto con l'amatissimo Febo:

"Mi trovavo esiliato da alcuni mesi nell'isola di Lipari: e non bastandomi l'aperto orizzonte a restituirmi il senso della mia libertà morale, indebolito dalle lunghe sofferenze fisiche, e temendo, come avviene, che la tristezza della mia selvatica solitudine, fra gente sospettosa d'ogni mio pensiero come di una minaccia o di un tradimento, e lo stato incerto della mia salute, corrotta da una continua febbre, mi facessero decadere irreparabilmente da quella condizione di dignità, anzi di orgoglio, che è d'ordinario la naturale condizione del mio spirito, mi persuasi che il meglio era per me l'eleggermi un compagno, un amico. Diffidavo degli uomini, sia pure unicamente per spontanea reazione alla loro diffidenza. E scelsi un animale, un cane..."Se non fossi uomo, e se non fossi quell'uomo che io sono, vorrei essere cane. Non già, come un Cecco Angiolieri, per abbaiare e mordere, ma per assomigliare a Febo. Vorrei essere un cane come lui: di pelo raso, d'un pallido colore lunare, qua e là macchiato di zone rosee, dal ventre magro, dalle cosce snelle e muscolose. La testa vorrei fine e lunga, le orecchie acute, gli occhi azzurri. E poter correre le terre, entrare in selve in fiumi in prati in monti, possedere la natura per altri sensi da quelli per cui la posseggono gli uomini. Potere inventare il mondo, e tentar, così, di correggere gli errori della creazione non dal punto di vista umano, come tentano gli uomini, ma da quello di un cane...

... Dal mio amico Febo, più che dagli uomini, dalla loro cultura, dalla loro vanità, ho imparato che la morale è gratuita, è fine a se stessa, che non si propone neppure di salvare il mondo: ma soltanto di creare sempre nuovi pretesti al proprio disinteresse, al proprio libero gioco. L'incontro fra un uomo e un cane è sempre l'incontro fra due spiriti liberi, fra due forme di dignità, fra due morali disinteressate. Il più gratuito fra gli incontri. E non v'è momento, nella mia vita, di cui serbi un ricordo altrettanto vivo e puro quanto del mio primo incontro con Febo..."


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