Devastò le campagne e laggiù ricordano un'altra eruzione avvenuta cinquant'anni prima; anzi, se ne ricordano tre da che la Sicilia è abitata dai greci..."
Così è ricordata l'eruzione dell'Etna del 425 avanti Cristo dallo storico ateniese Tucidide, che forse vi assistette personalmente; delle altre tre a cui fa riferimento, quella del 475 è descritta da Eschilo e da Pindaro, le altre due risalgono a quattro secoli prima.
Dai secoli più remoti nella storia delle sue eruzioni, l'Etna suscita insomma le attenzioni dei cronisti, calamitati sin alle pendici del vulcano dall'affascinante e pauroso spettacolo di uno dei più violenti fenomeni naturali, cui la tecnologia umana può ancor oggi contrapporre solo una rete di semplice vigilanza.
In tempi più recenti, le eruzioni dell'Etna ( e le devastazioni provocate al territorio ) sono diventate motivo di puntuale spettacolarizzazione mediatica.
La circostanza si verificò anche nel lontano 1950, quando - a partire dalla sera del 25 novembre e sino alla metà del gennaio del 1951 - una violenta eruzione creò serio allarme lungo il versante Nord Est del vulcano.
Per molti giorni, gli abitanti delle frazioni di Milo, Fornazzo e Rinazzo furono costretti a sfollare in 5 tendopoli.
Le pendici del vulcano diventarono così il set di numerosi reportage giornalistici, destinati a cogliere anche gli aspetti del secolare rapporto fra le popolazioni locali e la forza incontrollabile dell'Etna.
Di questo legame, nel dicembre del 1950 l'inviato de "L'Europeo" Tommaso Besozzi colse l'impaurita ed a volte risentita reazione devozionale in occasione di un evento che mise a rischio l'incolumità di abitazioni ed attività economiche:
"La storia dell'Etna, che fu per il mondo greco il vulcano per eccellenza, è disseminata fin dalla remota antichità di superstizioni; la differenza principale tra le leggende e i riti esorcistici dell'antichità greco-romana e quelli dell'era cristiana, è nel fatto che nei tempi pagani le eruzioni del vulcano hanno per protagonisti delle entità divine o semidivine la cui ira e il cui capriccio è da sedare coi riti esorcistici, mentre nei secoli cristiani il dramma delle popolazioni sub-etnee minacciate dalla collera del vulcano ha come personaggi i santi il cui intervento contro la forza diabolica o di natura si ottiene, o meno, coi riti propiziatori e col merito dei fedeli.
Ad ogni nuova eruzione, si assiste all'uscita delle statue variopinte dei santi, che o su carri o a spalla vengono portate verso il fonte della colata di lava.
Le immagini atteggiate con enfasi ingenua all'estasi o al martirio sostano circondate dai fedeli tesi nell'aspettativa, che nel prolungarsi del pericolo può mutarsi in esigenza imperiosa e poi in delusione collerica.
San Giuseppe col bastone fiorito, santa Lucia cieca che ostenta in una coppa i suoi occhi strappati, san Biagio con piviale e mitra, san Rocco col cane, sono acclamati o insolentiti.
Durante l'eruzione del 1928, gli abitanti di Puntalazzo e quelli di Mascali portarono in processione le statue dei rispettivi protettori, san Vito e san Leonardo.
Salvataggio di botti di vino prima dell'arrivo della lava |
Puntalazzo si salvò, Mascali scomparve per intero.
La statua di San Leonardo fu lasciata a bruciare dalla lava.
Vi fu un vero esodo di fedeli dal partito dell'uno al partito dell'altro santo.
In un gruppetto di profughi una donna chiamava inutilmente suo marito a pochi passi di distanza, "Nardu, Nardu!".
Il marito per un poco fece il sordo, poi si voltò incollerito:
"Chi chiamavi, a mia? Io nun mi chiamu chiù Nardu, mi chiamu Vitu. Vitu!"
"Chi chiamavi, a mia? Io nun mi chiamu chiù Nardu, mi chiamu Vitu. Vitu!"
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