Impressioni e immagini di una passeggiata fra le macerie e la nuova edilizia di uno dei paesi del Belìce devastati dal terremoto del gennaio del 1968
All'esterno del Municipio di Montevago due lapidi ricordano dal 1978 i nomi di 50 donne e 46 uomini.
Le due lapidi poste all'esterno del municipio di Montevago che ricordano le 96 vittime del terremoto nel paese agrigentino. Le fotografie del post sono di ReportageSicilia |
All'esterno del Municipio di Montevago due lapidi ricordano dal 1978 i nomi di 50 donne e 46 uomini.
Molti di essi portano lo stesso cognome: in 7, quello di Vincenza, Filippo, Antonino, Margherita, Vincenzo, Antonino e Nunzio Ganci; in cinque, quello dei Crifasi; quattro dei Giambalvo, dei Cavalcanti e dei Migliore; tre dei Giordano, dei Laspia e dei Cancemi.
La lista di nominativi - testimonianza di impietose stragi familiari - accomuna le 96 vittime del terremoto che il 15 gennaio del 1968 rase quasi del tutto al suolo il paese agrigentino.
Insieme a Montevago, le scosse cancellarono in poche ore anche Salaparuta, Gibellina, Santa Ninfa, Poggioreale e Santa Margherita Belìce.
La lista di nominativi - testimonianza di impietose stragi familiari - accomuna le 96 vittime del terremoto che il 15 gennaio del 1968 rase quasi del tutto al suolo il paese agrigentino.
Oggi Montevago rappresenta perfettamente la disarticolazione del Belìce a quasi mezzo secolo dal sisma che ne squassò l'edilizia e l'assetto sociale.
Il nuovo paese venne costruito a poche centinaia di metri dalle rovine del terremoto.
L'artificiosa progettazione - "un asse attrezzato a doppio innesto con la statale, da cui lo separa una zona a verde che contiene gli edifici pubblici e i servizi; le residenze, a schiera, si sviluppano longitudinalmente, racchiudendo l'impianto in un sistema planimetrico avvolgente", si legge nella Guida Rossa del TCI del 1989 - ha desertificato gli spazi del nuovo centro abitato.
Persone ed automobili sembrano essere inghiottite dal vuoto urbano: le ampie strade e le piazze della nuova Montevago paiono sovradimensionate rispetto alla presenza ed alle attività degli appena tremila abitanti.
Molti appartamenti costruiti grazie ai benefici economici previsti per i terremotati sono deserti o sfitti da anni: numerosi proprietari sono morti ed i loro eredi hanno in maggioranza cercato fortuna lontano dai luoghi delle origini familiari.
Un cupo senso di abbandono si avverte anche fra le macerie di ciò che le scosse hanno distrutto quasi mezzo secolo fa.
E' facile ancora imbattersi in poveri oggetti che facevano parte del corredo casalingo delle abitazioni: una damigiana sfondata, la carcassa di una cucina a gas, una cassetta di legno contenente vecchie bottiglie, i resti di un cavalluccio di plastica...
Le poche mura rimaste in piedi sono state nel frattempo utilizzate come luogo di discarica di materiale edile: pietrame, pezzi di intonaco, cocci di mattonelle e lastre di "eternit" si mischiano così ai detriti del gennaio del 1968.
Nuove macerie si aggiungono insomma alle vecchie, ponendo il problema irrisolto delle bonifiche e dando l'impressione che il terremoto provochi ancora devastazione e abbandono.
Sono così passati 49 anni da quando Montevago e gli altri paesi del Belìce sono stati cancellati dalle scosse, ma qui il terremoto continua.
"Il terremoto" - scrisse con immutata attualità nel 1969 il giornalista Paolo Santoro - "è stato ( ed è ) solo un episodio di questo angolo della Sicilia e della sua lunga tragedia: una tragedia fatta di vuoto sociale, di mancanza di occasioni di lavoro, di esempi di impegno.
Un mondo dove non si vive ma si sopravvive"
L'artificiosa progettazione - "un asse attrezzato a doppio innesto con la statale, da cui lo separa una zona a verde che contiene gli edifici pubblici e i servizi; le residenze, a schiera, si sviluppano longitudinalmente, racchiudendo l'impianto in un sistema planimetrico avvolgente", si legge nella Guida Rossa del TCI del 1989 - ha desertificato gli spazi del nuovo centro abitato.
Persone ed automobili sembrano essere inghiottite dal vuoto urbano: le ampie strade e le piazze della nuova Montevago paiono sovradimensionate rispetto alla presenza ed alle attività degli appena tremila abitanti.
Molti appartamenti costruiti grazie ai benefici economici previsti per i terremotati sono deserti o sfitti da anni: numerosi proprietari sono morti ed i loro eredi hanno in maggioranza cercato fortuna lontano dai luoghi delle origini familiari.
Un cupo senso di abbandono si avverte anche fra le macerie di ciò che le scosse hanno distrutto quasi mezzo secolo fa.
E' facile ancora imbattersi in poveri oggetti che facevano parte del corredo casalingo delle abitazioni: una damigiana sfondata, la carcassa di una cucina a gas, una cassetta di legno contenente vecchie bottiglie, i resti di un cavalluccio di plastica...
Le poche mura rimaste in piedi sono state nel frattempo utilizzate come luogo di discarica di materiale edile: pietrame, pezzi di intonaco, cocci di mattonelle e lastre di "eternit" si mischiano così ai detriti del gennaio del 1968.
Sono così passati 49 anni da quando Montevago e gli altri paesi del Belìce sono stati cancellati dalle scosse, ma qui il terremoto continua.
"Il terremoto" - scrisse con immutata attualità nel 1969 il giornalista Paolo Santoro - "è stato ( ed è ) solo un episodio di questo angolo della Sicilia e della sua lunga tragedia: una tragedia fatta di vuoto sociale, di mancanza di occasioni di lavoro, di esempi di impegno.
Un mondo dove non si vive ma si sopravvive"
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